Velly    Jean-Marie Drot
 
 
Jean-Pierre Velly o il tempo dominato

in Jean-Pierre Velly, Accademia di Francia 1993
Fratelli Palombi


Simile ad un marinaio della sua Bretagna natale, Jean-Pierre Velly è stato inghiottito, non dall’oceano che, a Audierne, aveva affascinato la sua infanzia, ma dalle acque di un lago italiano. A Bracciano.

Ma forse Velly non è morto? Si è ritirato. Da qualche parte. Ha voltato le spalle. Senza una parola di spiegazione, egli è sparito, ha lasciato il nostro mondo delle apparenze. Ha attraversato le superficie dello specchio acquatico così simile alle lastre di rame su cui, durante molto anni, pazientemente, egli ha inciso i segni del suo universo.

In questa scia marina, negli schizzi liquidi che lo ricoprono, al margine delle acque, Velly ci lascia i suoi autoritratti che sempre – e più che mai- ci interrogano, spiando al di là delle nostre presenze fragili, effimere, l’impercettibile scorrere del tempo. 

Mi colpisce oggi quanto questi autoritratti siano stati disegnati meticolosamente, in conoscenza di causa da Velly, per esser decifrati, dopo l’incidente e darci di lui un’immagine accuratamente scelta e preferita da lui ad ogni altra.

Così, di là dalla sua morte, Velly attesta che un vero artista, col suo lavoro di Penelope, grazie al suo dono di metamorfosi e di messa in orbita al di sopra delle devastazioni della vecchiaia e della putrefazione, può trionfare sul tempo, e anche, alla fine della corsa, vincere sulla morte e ridicolizzarla, strapparle una vittoria più certa, più definitiva soprattutto di quella promessa dai preti…

In breve, l’antico sogno degli Egizi ripreso da Velly nella sua fucina di Formello. Tutt’intorno, nello studio che era quello di un alchimista piuttosto che di un incisore, rivedo l’ambiente naturale caotico che Velly aveva raccolto: ali di libellule sospese, ossa imbiancate di talpe e di topi campagnoli, scheletri di uccelli dei campi.

Un giorno, là avevo ascoltato il rumore minuscolo d’un metronomo coperto dai grattiti testardi del bulino di Velly dedito a regolare il suo conto alla morte con la stessa sicurezza con cui l’acido solforico distrugge la carne…

Chi fissa Velly, così aspramente, nel suo Autoritratto a colori del 1988, gli occhi negli occhi, con la forza terribile d’uno sguardo che raggiunge l’osservatore dopo aver attraversato spazi siderali? Si…, chi fissa…?

Quasi mascherato, l’occhio sinistro di Velly è ancora velato da una foschia autunnale, ma sotto l’arcata nera del sopracciglio ad accento circonflesso il destro non batte ciglio e, senza complessi affronta, per dettarle i suoi ordini, una morte timorosa, rattrappita, che si cela dietro le quinte, con i piedi forcuti presi nelle pieghe della tunica…
Sul fondo d’una notte in temporale, questo ritratto di Velly è quello d’una specie di Robur il conquistatore, un astronauta vincitore che torna a noi dai confini della Via Lattea, dopo aver contemplato il pianeta Terra sapendo da buona fonte ch’esso è proprio, come afferma il poeta, “un’arancia blu…”.

Pensando molto amichevolmente a Velly, aprendogli la porta della Villa Medici che da ex-borsista egli conosceva nei suoi minimi recessi e dove, fra poco, andrà a raggiungere i suoi veri antenati, voglio guardarlo ancora mentre mi guarda, ma questa volta, nell’Autoritratto del 1987: egli si è rappresentato senza compiacimenti, con una certa severità; i capelli fluttuano; il busto è diritto, la bocca un po’ amara; gli occhi di Velly scrutano, fissano con alterigia, ma chi? Che cosa? Qualcuno?

L’avvicinarsi d’un nemico? D’un pericolo? Sempre lo stesso? Tuttavia su questo volto di Condottiere (nel senso in cui lo intendeva André Suarès nel bel libro sul suo viaggio italiano) io non leggo la minima paura. Se vi è angoscia, essa si nasconde all’interno. Nel profondo. Dietro la scorza. Soltanto per sé.

Jean-Pierre Velly o il tempo dominato.

Velly o “il cavaliere senza macchia e senza paura”.

Le armi, pennello e bulino, sono rimaste sul banco di lavoro serbando ancora un poco del calore della sua mano.
Certuni diranno – e naturalmente durante il nostro colloquio io avevo posto a Jean-Pierre Velly la inevitabile domanda…- che la sua opera è per eccellenza “controcorrente”.
Ma controcorrente a che cosa?
Al guazzabuglio ridicolo che ingombra –ci si chiede per quante lune?- gallerie e musei di Francia e di Navarra per la più grande esultanza d’un Marcel Duchamp in fondo alla sua tomba normanna…
Controcorrente?

O piuttosto affermazione di un’arte voluta, scelta, tessuta al di là della morte? Secondo un’esigenza strettamente personale e tanto morale quanto estetica.
D’altronde, si può essere ancora in anticipo o in ritardo sulle manifestazioni lugubri che programmano tristemente i funzionari delle pompe funebri delle arti concettuali internazionali? Cioè di nessun luogo…

Poiché il nulla non implica nient’altro che se stesso. Nulla è nulla. Niente di più. Niente di meno. Noi siamo sempre più numerosi a pensare che tutto dovrà essere riconquistato, un giorno. Al di là di queste macerie. La clessidra è stata frantumata, sbriciolata.
Restano soltanto i rottami di un mondo che ha vergogna di se stesso.

Di Jean-Pierre Velly, al contrario, all’estremo confine del visibile, io ammiro il talento nel cogliere il dentro e il fuori, la pelle e l’anima, la notte e la luce, le rovine e il segno precursore d’un rinnovamento.

Di un Rinascimento.


			Jean-Marie Drot
			Direttore dell’Accademia di Francia a Roma 1983-1993
			                                  (Traduzione di Romeo Lucchese)
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