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L’eco di Velly


Maria Antonella Fusco


Non volevo essere accusato di aver perduto la vita per imprudenza, l’idea mi irritava. Ho guardato con una specie di stupore i campi sui quali stavo per abbattermi. Era qualcosa di nuovo per me. Mi sentivo sbiancare, irrigidire per la paura. Una paura senza fondo ma non ripugnante. Una cognizione nuova, indefinibile.


Antoine de Saint-Exupéry. Alicante, novembre 1926



Prima di inabissarsi in mare nel Tirreno, nel 1944, durante una battaglia aerea, Antoine de Saint-Exupéry aveva sperimentato più volte la “cognizione nuova, indefinibile”, la stessa che forse avrà segnato la sparizione di Velly nel fondo abissale del lago di Bracciano. Se si interpreta la morte di Velly come frutto di una tensione analoga a quella di Saint-Exupéry, dobbiamo tornare agli ultimi anni della sua vita, per comprendere l’evoluzione finale della sua arte. Nella seconda metà degli anni Ottanta, Velly tornò a incidere, riprendendo l’antica passione per la taille-douce che vent’anni prima lo aveva portato dalla Bretagna natìa a Roma, vincitore del Grand Prix de Rome proprio per l’incisione, a Villa Medici. E la seconda metà degli anni Ottanta lo vede attivo proprio nel nostro Istituto, e particolarmente in Calcografia, nella sezione didattica.


Quando arrivai in Calcografia come funzionario, nell’86, Balthus aveva cessato di dirigere Villa Medici da quasi dieci anni, eppure giungeva, da Trinità dei Monti a Fontana di Trevi, come un’eco sottile della sua arte: e di questa eco era anche intrisa la forma grafica di Jean-Pierre Velly, che dal gennaio 1967 al luglio 1970, aveva inciso all’Accademia di Francia una trentina di rami. Fu una sorpresa, per una storica dell’arte abituata al lavoro museale tradizionale, in una casa museo tra arredi e servizi di piatti di porcellana di Capodimonte, entrare in un luogo singolare e unico come la Calcografia, al tempo stesso sacrario di conservazione di rami eccelsi, come le mille matrici piranesiane, e laboratorio sperimentale di tecniche di incisione. Ma anche laboratorio metodologico di conoscenza dell’arte riprodotta, dalle collezioni fotografiche pazientemente individuate da Marina Miraglia alla tessitura di dialoghi con gli artisti e gli incisori contemporanei operata da Federica Di Castro.


Risuonavano dunque in Istituto echi degli anni Settanta. Innanzitutto, dell’impulso coraggioso e moderno dato da Carlo Bertelli: il suo era il nome più citato, anche se già dal 1978 era passato al ruolo di Soprintendente a Brera. Con la sua capacità di riformista degli istituti culturali, per tanti versi ancor oggi insuperata, aveva creato nel 1975 l’Istituto Nazionale per la Grafica, che non era soltanto frutto dell’accorpamento amministrativo tra il Gabinetto Nazionale delle Stampe di venturiana memoria e la Calcografia Nazionale, già Camerale.


Si trattava piuttosto di riportare al vivo la tradizione dell’opera d’arte moltiplicata, in un’ottica benjaminiana, coniugata con la tradizione artigianale italiana, del torchio. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica costituì per più di una generazione un importante testo di riferimento: si introduceva una riflessione sui pubblici nuovi da raggiungere nella società contemporanea. Una riflessione ancora oggi in corso, che ci consente di individuare il sottile discrimine tra la diffusione dell’opera d’arte e lo sfruttamento di mercato: nell’anno in corso, si compiono ottant’anni dalla edizione originale tedesca, e cinquanta dalla traduzione italiana di Einaudi. Un doppio genetliaco che ci obbliga a un evento metodologico, che terremo presto.


L’Istituto doveva essere, nelle intenzioni di Bertelli, il luogo dove la metodologia storica si sposava con la viva fonte e operante degli incisori contemporanei. La presenza in Istituto di incisori, la sperimentazione attiva sulle matrici, la capacità di interpretazione del reale, e la misura della deriva del passato, rappresentato in Calcoteca, ad esempio, da Piranesi; tutto questo motivava gli incisori a passare un tempo di vita nella nostra stamperia. Nello stesso 1978 in cui Bertelli lasciò l’Istituto, c’era stata la grande mostra dedicata a Bill Hayter e all’Atelier 17. Nonostante la comune derivazione francese, l’arte incisoria di Hayter e quella di Velly differivano profondamente: attento e curvo sul bulino Velly, come lo ricorda Giuliano de Marsanich, insegnava dunque pazienza, cura, attenzione, inchiostrature sapienti, pulite bene con la tarlatana. Mentre da Hayter derivavano lo sperimentalismo a colori, le tecniche di stampa ‘dirette’, accanto all’incisione diretta, il metodo di inchiostratura rapido ed efficace.


Ed accanto ad entrambi, come a tutti gli artisti che passavano in Calcografia, si formava un grande stampatore, Antonio Sannino, molto affascinato dall’espressione dell’incisione contemporanea, e più tardi sapiente consigliere per i ‘suoi’ incisori, tra i quali lo stesso Velly, che gli affidava le sue tirature. Così, a partire dal 1986, ebbi modo di contattare in Istituto non soltanto le collezioni grafiche e fotografiche dei miei studi, ma anche il suono di fondo, l’eco delle voci di incisori, il colpo sordo della pressa, che faceva sobbalzare il solaio della vecchia stamperia, posta allora al terzo piano, e tutto era quasi un controcanto al rumore di fondo della Fontana di Trevi, che in quei primi giorni mi sembrava assordante. Non mi aspettavo questo mondo, che costituiva davvero l’esprit della Calcografia: agli artisti i musei sono abituati, ma l’incisore è un artista speciale, la sua presenza si traduce in una sorta di movimento attrattivo, catalizzante di persone, rumor di torchio, odor d’inchiostro, forme disegnate che prendono diversi aspetti. E le colleghe funzionarie, la stessa direttrice Evelina Borea, raffinata studiosa del mondo delle stampe, erano abituate a questa convivenza tra Pinelli e Hayter, Piranesi e Velly, Morandi e Strazza.


Dunque non stupisce il lessico familiare utilizzato dalla Soprintendente per l’incarico di docenza a Velly, il 31 marzo del 1987: “è con piacere che incarichiamo la S.V. di prestare la Sua collaborazione a questo Istituto in qualità di artista della grafica particolarmente noto per un uso originale ed esperto dell’incisione a bulino”. è un incarico per 80 ore complessive (retribuite ciascuna 22.500 lire, lorde). Il 13 giugno, si formalizza l’affidamento di ulteriori 50 ore, fino alla fine del mese, dunque dell’anno didattico. Fin qui gli esiti di una ricerca documentaria svolta con la consueta acribia da Giulia De Marchi. Restano da rintracciare gli allievi di Velly, per comprendere quanto la sua azione pedagogica – che certo Borea vedeva con particolare interesse per la sua formazione storica sul bulino cinquecentesco – abbia sortito frutti interessanti in un mondo della visione già in quegli anni sbilanciato verso un neo-figurativismo di maniera. Ho tentato di ricostruire il contesto di accoglienza e atmosfera di quel momento, ma esso si interruppe bruscamente negli anni seguenti: Hayter muore nell’88, Velly nel ’90, e l’artista che in fondo aveva costituito comunque un ponte tra i due, Balthus, se ne va per ultimo nel ’91.


L’iniziativa di Pier Luigi Berto, Ginevra Mariani e Marco Nocca, di rendere omaggio a Velly con una grande mostra a Palazzo Poli, è dunque più che opportuna: come sempre in Istituto si sono attivate forze vive, da Giovanna Scaloni autrice delle schede del catalogo, a Lucia Ghedin, del Laboratorio diagnostico per le matrici, che ha redatto un saggio, ma  soprattutto ha ‘raccolto il testimone’ di Velly in Calcografia, tenendo un seminario didattico sul restauro delle matrici per gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Roma, dove Nocca e Berto sono docenti.


L’importante apporto della direttrice dell’Accademia, Tiziana D’Acchille, si inserisce nella tradizionale collaborazione tra le nostre due Istituzioni, rafforzata in questi ultimi anni con il Congresso nazionale dei docenti di grafica d’arte, coordinato nel 2013 dalla scrivente e da Giovanna Cassese del MIUR. Ringrazio D’Acchille, con Nocca e Berto, e i collaboratori dell’Accademia, per il sostegno a tutto campo a questa iniziativa comune: è un bell’esempio di collaborazione scientifica e amministrativa, in cui ogni istituzione ha giocato fino in fondo il suo ruolo.

 

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