Velly     Alberto Moravia (1907-1990)
 
 

All’origine degli acquerelli e degli oli di Jean-Pierre Velly sta una sensibilità di genere nordico e gotico che trova molto naturalmente i suoi modelli ideali nelle opere di Dürer e di Bosch. Al primo, Velly si riallaccia con un segno insieme nitido e folto, fertile in particolari la cui precisione produce un effetto di allucinante proliferazione; al secondo, con uno sforzo compositivo rivolto a creare mondi fantastici nei quali i mostri del sogno si fondono con quelli della veglia. Il reale appare, in queste incisioni, come una specie di gelatina di forme aggrovigliate in se stesse e tuttavia esattamente delineate grazie alle quali il pittore può passare dal naturale all’umano e da questo al disumano in una continua metamorfosi che lascia intravedere una mente e una fantasia portate irresistibilmente alla metafora e al simbolo.

Il segno di Velly ora si accanisce su una conchiglia, su un fiore; oppure dà spazio, respiro e mistero a vasti cieli sognanti o minacciosi, a lugubri distese di flutti marini increspati da una sinistra bonaccia. Spesso il particolare definito con gotica esattezza e l’universale evocato con romantica vaghezza sono riuniti insieme in composizioni al tempo stesso disastrose e incantate. In primo piano ci saranno catastrofici cimiteri di automobili o mucchi ripugnanti di detriti industriali, in secondo piano paesaggi sterminati, luminosi e indifferenti. Oppure il ventre di una figura femminile erutterà per l’aria una colonna di oggetti eterocliti: la civiltà industriale scimmioteggia la creazione naturale. Ad ogni modo, già nelle incisioni appare la dicotomia caratteristica di Velly : la presenza contemporanea non contrastante del definito e dell’infinito. Il finito è tutto ciò che sta in primo piano, così nel tempo come nello spazio ; l’infinito sono le immensità naturali che sfumano e si mutano in immensità spirituali. Il finito ci è contemporaneo, l’infinito era prima di noi e resterà dopo di noi.

Tra le tante incisioni vogliamo fermare la nostra attenzione su quella intitolata Les temples de la nuit che risale al 1979 cioè ad un’epoca abbastanza recente. Vi si vede nel solito primo piano « finito » una donna che come la Dafne del mito sembra che stia per mutarsi in albero. La donna arieggia il consueto prototipo dureriano che Velly predilige : corpo formoso, muscoloso, possente, volto severo di Sibilla. Dal corpo della donna, soprattutto dalle braccia, dal collo, dal seno si dipartono i rami dell’albero, nel quale ben presto si troverà trasformata. La donna sta distesa, la sua figura sbarra tutto il primo piano della rappresentazione.


L’infinito, anche qui, è rappresentato da un mare notturno e malinconico, le cui onde sembrano andare a ritroso partendo dalla donna e dirigendosi verso un astro misterioso, circondato da un alone luminescente. Dall’alone piovono sul mare e sulla donna-albero, a miriadi, gocce di luce brillante e vitrea. Ci siamo soffermati su Les temples de la nuit perché qui è già in «luce» l’idea o meglio la metafora che trionferà negli acquerelli dal 1980 ad oggi. L’idea o meglio la metafora è che in cospetto all’infinito, o se si preferisce all’eternità, l’uomo è proprio quell’erba dei campi di cui parla il Vangelo; l’uomo è proprio quel «roseau pensant» di cui parla Pascal, infinitamente fragile, irrimediabilmente caduco, e pur tuttavia dotato di una forma pensata cioè finita a cui l’infinito non può aspirare.

Naturalmente non diciamo che Velly sia stato portato a sviluppare consapevolmente partendo da Les temples de la nuit, la metafora del vegetale effimero allusivo alla fragilità e caducità umane, diciamo che nell’incisione si annunzia già lo schema che sta per prevalere negli acquerelli : fiori, rami, piante, erbe situati in primo piani; e il mare e il cielo riuniti in un solo spazio spirituale, in secondo piano. Perché poi il baudelairiano «végétal irrégulier» abbia prevalso su i tanti oggetti che gremivano i primi piani delle incisioni, questo ci pare dovuto ad una progressiva decantazione della dicotomia di finito e infinito la cui rappresentazione Velly sembra perseguire fin dagli inizi della sua opera. Che c’è infatti di più finito del fiore? La sua stessa caducità lo costringe ad una rapida quasi immediata perfezione.

E adesso che lo schema si è chiarito così nella nostra mente come in quella di Velly, guardiamo pure agli acquerelli con l’occhio che sa fermarsi sul dettaglio. Si veda, per esempio, come questi rami e rametti, questi fiori, fiorellini e fiorucci, queste foglie e foglioline sono evocati con mano ferma e testa attenzione a pochi momenti dalla loro morte. Il pennello ha seguito il ramoscello dalla forma incerta ma rosso come il sangue, fino alle sue più aeree e trasparenti propaggini; le foglie che stanno appiccate su questi rami sono anch’esse colte in maniere esistenziale; alcune perfette, altre un po’ accartocciate, altre ancora mangiate dagli insetti o da qualche malattia. Non ci troviamo davanti ad una pianta da tavola di trattato di botanica; ma ad una pianta viva di un significato che la trascende. Questa pianta con il suo significato, questo «roseau pensant» è gettato, abbandonato, proiettato su una soglia oltre la quale c’è il mistero di un mare calmo i cui confini sfumano in un cielo immenso e vaporoso. Velly ha reso il mistero dell’infinito tanto più misterioso grazie alla precisione delicata con cui ha rappresentato il mistero parallelo e contemporaneo del finito. Si veda come predilige certe fluorescenze in forma di campanule diafane, oppure a gocce brillanti di rugiada, oppure ancora di minime lanterne di carta oliata. L’apparenza di questi fiori, di queste piante, di queste erbe di Velly ci parla di una fragilità estrema ; e tuttavia sentiamo che la spinta vitale che ha prodotto questi miracoli vegetali è pur sempre in atto e appena i fiori, le piante, le erbe saranno appassite e morte, altre ne saranno prodotte come a sfidarne l’eterno, fatale e malinconico enigma degli sterminati spazi celesti e marini. Dunque seguendo la metafora, il rapporto tra finito e infinito è eterno, l’uno non può esistere senza l’altro. La strada di Velly, da Dürer e Bosch a se stesso è anche la strada che dalla invenzione dei mostri e delle catastrofi l’ha portato alla contemplazione dei fiori e delle piante adoperate come metafora proprio di quei mostri e di quelle catastrofi. La stessa mano che un tempo aveva messo in primo piano gli orrori del presente adesso, con la stessa intenzione, ferma l’umile vita vegetale nel suo divenire. Sono due cose diverse, apparentemente, ma la conquista e la vittoria stanno nell’essere riusciti a dire che sono la stessa cosa.



Nota biografica


(http://www.italialibri.net/autori/moraviaa.html) -


(http://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Moravia)



«Secondo me i privilegiati sono quelli che sia nel senso creativo, sia nel senso conoscitivo hanno a che fare con l’arte. Dico questo perché, nonostante una lunga vita piena di difficoltà di tutti i generi, alla fine mi considero un privilegiato per il fatto di essere un artista…».


[da Alberto Moravia - Alain Elkann, Vita di Moravia, Bompiani, Milano 1990]


Alberto Moravia per l’anagrafe Alberto Pincherle: il cognome Moravia è quello della nonna paterna – Alberto Moravia nasce il 28 novembre 1907 a Roma, in via Sgambati, da un’agiata famiglia borghese. Il padre, Carlo Pincherle Moravia, architetto e pittore, è di origine veneziana, mentre la madre, Gina de Marsanich, è di Ancona. Terzo di quattro figli (Adriana, Elena e Gastone, nato nel 1914), Alberto ha una «prima infanzia normale benché solitaria».


All’età di nove anni si verifica «il fatto più importante della sua vita», quello che l’autore stesso riteneva avesse inciso «sulla sua sensibilità in maniera determinante»: la malattia da cui non guarirà del tutto che verso i diciassette anni, lasciandolo leggermente claudicante. All’età di nove anni, infatti, Alberto si ammala di tubercolosi ossea, malattia dagli atroci dolori che lo costringe a letto per cinque anni: i primi tre a casa, e gli ultimi due nel sanatorio Codivilla di Cortina d’Ampezzo. Durante questo periodo i suoi studi (interrotti alla licenza ginnasiale, suo unico titolo di studio) sono irregolari. Tuttavia, legge innumerevoli libri, soprattutto i classici e i massimi narratori dell’Ottocento e del primo Novecento (Dostoevskij, Joyce, Goldoni, Shakespeare, Molière, Mallarmé, Leopardi e molti altri); scrive versi in francese e in italiano, e studia tedesco.


Dopo aver lasciato il sanatorio nell’autunno del 1925, durante la convalescenza a Bressanone, in provincia di Bolzano, dà inizio alla stesura de Gli indifferenti, che verrà pubblicato con gran successo nel 1929. La sua salute rimane fragile ed è costretto a vivere in alberghi di montagna passando da un luogo all’altro. Nel frattempo, tuttavia, entra in contatto con Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli e la rivista «900», su cui pubblica nel ‘27 la novella Cortigiana stanca.


Grazie al successo del suo primo romanzo, Moravia s’inserisce nell’ambiente letterario e giornalistico, e si intensificano le sue collaborazioni su riviste. Nel 1930 alla Consuma, presso Firenze, dove si stabilisce per due mesi, conosce Berenson e gli fa leggere Gli indifferenti.


Intanto il conflitto con il fascismo, iniziato in seguito all’uscita proprio di quel romanzo, si acuisce. Spinto dall’ansia d’evasione dal clima oppressivo del regime, inizia a viaggiare. Con vari articoli di viaggio, collabora dal 1930 a «La Stampa», allora diretta da Curzio Malaparte. Soggiorna a lungo in Inghilterra, dove conosce E. M. Forster, H. G. Wells, Yeats; e a Parigi, dove nel salotto letterario della principessa di Bassiano (cugina di T. S. Eliot), incontra Fargue, Giono, Valéry e il gruppo che si chiamerà «Art 1926».


Nel 1933 con Pannunzio fonda sia la rivista «Caratteri», di cui escono solo quattro numeri, sia la rivista «Oggi», l’attuale testata omonima. Nel 1935 una cattiva accoglienza è riservata al suo secondo romanzo, Le ambizioni sbagliate (censurato dal regime). Nello stesso anno passa a collaborare alla «Gazzetta del Popolo»; e si allontana dall’Italia dove la vita gli stava diventando difficile. Tra il ‘35 e il ‘36 è negli Stati Uniti, su invito di Giuseppe Prezzolini, che dirige la Casa Italiana della Columbia University di New York; qui tiene tre conferenze sul romanzo italiano, discutendo di Nievo, Manzoni, Verga, Fogazzaro, D’Annunzio. Dopo una breve parentesi in Messico, ritorna in Italia, dove in poco tempo scrive L’imbroglio (1937), libro di racconti lunghi con cui inizia la sua collaborazione con la casa editrice Bompiani.


Se si eccettua il viaggio in Cina nel ‘36, e il breve soggiorno in Grecia nel ‘38 (dove ad Atene frequenta saltuariamente Montanelli), gli anni tra il 1933 e il 1943 sono per Moravia, che è ebreo per parte paterna, «dal punto di vista della vita pubblica, i peggiori della sua vita».


Per eludere il controllo e la censura del regime, che guarda con sospetto alla sua produzione narrativa, Moravia sceglie la strada dell’allegoria, dell’apologo, della satira e dell’analogia. Ne nascono i racconti surrealistici e satirici, I sogni del pigro (1940) e il romanzo La mascherata (1941). Ma quest’ultimo viene sequestrato alla seconda edizione e Moravia non può più scrivere sui giornali, se non con uno pseudonimo — quello di Pseudo. Sotto questo nome collabora spesso alla rivista di Curzio Malaparte, «Prospettive».


Nel 1941 sposa Elsa Morante, che ha conosciuto nel ‘36 e con cui vive a lungo a Capri. Qui scrive Agostino, apparso con gran successo nel 1944. Dopo il matrimonio con la Morante, inizia per lo scrittore un periodo di fuga, latitanza e sbandamento: il suo nome è sulle liste della polizia fascista come «sovversivo».


Dopo l’8 settembre del ‘43, fugge da Roma con la Morante e si rifugia a Fondi, in Ciociaria. «Fu questa la seconda esperienza importante della sua vita, dopo quella della malattia». E da quell’esperienza nascerà il romanzo La ciociara (1957). Nel 1944, durante l’occupazione tedesca, vengono pubblicati i racconti de L’epidemia e il saggio La Speranza, ovvero Cristianesimo e Comunismo. Dopo la liberazione, torna a Roma e riprende una fitta attività letteraria e giornalistica, collaborando a «Il Mondo», «L’Europeo», e al «Corriere della Sera». Su quest’ultimo giornale, tra l’altro, dagli anni Cinquanta fino alla morte, la presenza di Moravia sarà costante: con una fitta serie di réportages, riflessioni e racconti.


Nel dopoguerra inizia la sua fortuna letteraria e cinematografica. Dopo la pubblicazione de La romana (1947), escono i racconti lunghi La disubbidienza (1948), L’amore coniugale e altri racconti (1949) e il romanzo Il conformista (1951). Non solo, ma iniziano anche le traduzioni dei suoi romanzi all’estero e le realizzazioni di film tratti dai suoi racconti e romanzi: La provinciale (1952) con la regia di Mario Soldati, La romana (1954) di Luigi Zampa, Racconti romani (1955) di Gianni Franciolini, La ciociara (1960) di Vittorio de Sica, Agostino e la perdita dell’innocenza (1962) di Mauro Bolognini, Il disprezzo (1963) di Jean-Luc Godard, La noia (1963) di Damiano Damiani, Gli indifferenti (1964) di Francesco Maselli, Il conformista (1970) di Bernardo Bertolucci, Io e lui (1973) di Luciano Salce e così via via fino a L’attenzione di Giovanni Soldati (1985). Vanno ricordate, inoltre, le sceneggiature di Un colpo di pistola (1941) e Zazà (1943) di Renato Castellani, e le collaborazioni, nei primissimi anni del dopoguerra, a Il cielo sulla palude di Augusto Genina e a La freccia nel fianco di Alberto Lattuada.


Nel 1952 — anno in cui gli viene assegnato il Premio Strega per I racconti, appena pubblicati — tutte le sue opere sono messe all’Indice dal Sant’Uffizio.


L’anno successivo fonda a Roma, insieme con Alberto Carocci, la rivista «Nuovi argomenti», su cui scriveranno Jean-Paul Sartre, Elio Vittorini, Italo Calvino, Eugenio Montale, Franco Fortini e Palmiro Togliatti. Moravia dirigerà la rivista fino all’ultimo: dal ‘66 insieme con Carocci e Pasolini, a cui si aggiungeranno Attilio Bertolucci e Enzo Siciliano; mentre a Milano, nel 1982, i direttori della terza serie saranno, oltre a lui, Siciliano e Sciascia.


Nel ‘54 pubblica I racconti romani (cui viene assegnato il Premio Marzotto), il romanzo Il disprezzo e, su «Nuovi argomenti», il saggio L’uomo come fine, scritto fin dal 1946. Negli anni successivi scrive la prefazione al volume del Belli, Cento sonetti, al Paolo il caldo di Vitaliano Brancati e a Passeggiate romane di Stendhal. Nel ‘57 comincia a collaborare all’«Espresso», su cui curerà una rubrica cinematografica: alcune di quelle recensioni nel 1975 saranno pubblicate nel volume Al cinema.


Negli anni Cinquanta Moravia si accosta anche alla scrittura teatrale e per il teatro scrive La mascherata e Beatrice Cenci. Frutto di un primo viaggio nell’Unione Sovietica, nel ‘58 esce il saggio Un mese in URSS.


Dopo la pubblicazione nel ‘59 dei Nuovi racconti romani, nel 1960 l’uscita del romanzo La noia (vincitore nel ‘61 del Premio Viareggio) segna nella sua carriera un successo simile a quello ottenuto con Gli indifferenti e La romana. Cresce così la sua fama di sottile indagatore della vita sessuale, di intellettuale impegnato a sinistra, di leader del mondo letterario romano, e la sua figura diviene sempre più bersaglio dei conservatori e dei conformisti. Negli anni successivi, poi, in virtù del suo giudizio sicuro su qualsiasi evento culturale, politico e sociale, Alberto Moravia diverrà una sorta di di maître à penser.


Nell’aprile del ‘62 si separa da Elsa Morante, lascia l’appartamento romano in via dell’Oca e va a vivere in Lungotevere della Vittoria con la giovane scrittrice Dacia Maraini. In quello stesso anno escono sia Un’idea dell’India (a seguito del viaggio nel ‘61 in India, con la Morante e Pasolini), sia L’automa, il primo di tre volumi di racconti sul tema dell’alienazione, già apparsi sulla terza pagina del «Corriere della Sera». Seguiranno gli altri due volumi Una cosa è una cosa (1967) e Il paradiso (1970). Nel ‘63 nel volume dal titolo L’uomo come fine e altri saggi raccoglie, invece, svariati saggi scritti a partire dal ‘41. Dopo la polemica con Il Gruppo 63, nel ‘65 pubblica L’attenzione, un esperimento di “romanzo nel romanzo”.


A partire dal ‘66 — anno in cui in occasione del Festival del Teatro Contemporaneo viene rappresentato Il mondo è quello che è — Moravia si occupa sempre più di teatro. Con Dacia Maraini ed Enzo Siciliano fonda la compagnia teatrale «del Porcospino», che ha come sede il teatro di via Belsiana a Roma. Vi vengono rappresentate L’intervista, dello stesso Moravia, La famiglia normale di Dacia Maraini, Tazza di Enzo Siciliano e opere di Carlo Emilio Gadda, Wilcok, Strindberg, Goffredo Parise e Kyd. Per mancanza di fondi l’esperimento si interromperà nel ‘68. Nel ‘67 Moravia spiega le sue idee sul teatro moderno in La chiacchiera a teatro, pubblicata su «Nuovi argomenti». Sempre nel ‘67 insieme a Dacia Maraini, si reca, oltre che in Giappone e in Corea, anche in Cina. Le sue corrispondenze per il «Corriere della Sera» vengono riunite nel volume La rivoluzione culturale in Cina, uscito nel 1968 — anno in cui, tra l’altro, Moravia viene contestato in diverse occasioni dagli studenti.


Dopo Il dio Kurt (1968), nel ‘69 pubblica La vita è gioco, rappresentato nel 1970 al teatro Valle di Roma con la regia della Maraini. Con un intervento su L’informazione deformata commenta l’attentato dinamitardo alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano.


Dopo l’uscita del nuovo romanzo Io e lui e la pubblicazione del saggio Poesia e romanzo (1971), nel ‘72 intraprende dei lunghi viaggi in Africa, da cui nascerà A quale tribù appartieni? (1972). Seguiranno altri due libri sull’Africa: Lettere dal Sahara (1981), una raccolta di articoli scritti tra il ‘75 e l’81 come “inviato speciale” del «Corriere della Sera», e Passeggiate africane (1987).


Nel 1973 esce un nuovo libro di racconti (già apparsi sul «Corriere della Sera»), Un’altra vita, seguito nel ‘76 da un’altra raccolta Boh. Nel 1978 esce il romanzo tanto atteso, a cui ha lavorato per ben sette anni, La vita interiore.


Quindi, nel 1980, dà alle stampe la raccolta di saggi Impegno controvoglia, mentre il romanzo 1934 e la raccolta di fiabe Storie della Preistoria escono nel 1982, anno in cui fa un viaggio in Giappone, fermandosi a Hiroshima. A tal riguardo, per l’«Espresso» farà tre inchieste sul problema della bomba atomica. E proprio sull’incubo della bomba atomica e sul dissidio tra la cultura umanistica e quella scientifica è centrato il romanzo edito nell’85, L’uomo che guarda.


Nel 1983 esce la raccolta di racconti La cosa, dedicata a Carmen Llera, la sua nuova compagna, una donna spagnola di quasi quarantasette anni più giovane di lui, che sposerà nel 1986, suscitando grande clamore. Tra il 1984 e il 1989 è deputato al Parlamento europeo, eletto come indipendente nelle liste del Pci.


Sul «Corriere della Sera» nel 1984 inizia una corrispondenza da Strasburgo, il Diario europeo. Nell’86 pubblica in volume, L’angelo dell’informazione e altri scritti teatrali, L’inverno nucleare (a cura di Renzo Paris) e il primo volume delle Opere (1927-1947), a cura di Geno Pampaloni. Il secondo volume delle Opere (1948-1968), a cura di Enzo Siciliano, uscirà nel 1989. Nel 1987 dà alle stampe Il viaggio a Roma, e nel 1990 La villa del venerdì e Vita di Moravia, scritta assieme a Alain Elkann. Il 26 settembre 1990, alle nove del mattino, Alberto Moravia muore nella sua casa di Roma.


Postumi escono, nel 1993, Romildo (a cura di Enzo Siciliano), una prima raccolta di racconti rimasti sepolti nelle pagine dei quotidiani e delle riviste, cui è seguito nel 2000 un secondo volume, Racconti dispersi.

 

un ringraziamento particolare al Fondo Moravia, Roma per gentile concessione della riproduzione del testo

Alberto Moravia, 1984

Jean-Pierre Velly

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