Vittorio Sgarbi
Velly oltre Velly,
ovvero la speranza del niente
1988
Perché Jean-Pierre Velly si mostra nei suoi autoritratti, disegni liberi e minuziosi insieme, tanto diverso da come appare nella realtà? Non certo per imperizia, e neppure per infedeltà al vero. Ciò che sembra non corrispondere sono l’età, più avanzata, e l’umore che, da ironico e allegro, si fa in questi disegni cupo e terribile. L’espressione di Velly è quella del gran malinconico; il tormento sulla sua faccia si stampa con una punitiva drammaticità, come in una autobiografia passata attraverso l’iconografia del Ecce Homo.
Velly tormenta, insiste, perlustra, deve mostrare alta concentrazione e alta convinzione di sé, eroe romantico cui sia stato concesso di superare la soglia di una fascinosa giovinezza per attingere il grave sapere della vecchiaia. Velly si fa vecchio, vuole esserlo, aumenta i segni neri sotto gli occhi, le pieghe del collo, come se il tempo dovesse accrescere la dignità.
Paziente all’opera come un fabbro infaticabile e silenzioso, Velly tutto esprime in un disegno, in pochi segni, scavando oltre se stesso, oltre il tempo, oltre il volto, fino a trovare l’ombra del teschio che domina, quasi impercettibile, sopra la sua testa, in un aldilà che è oltre la vita, oltre il foglio, oltre l’immagine. Dialoga quest’ombra con la mano ferma, posata, e anzi per sempre immobile su un piano, come avvinghiata, già data alla morte; proprio lei, la mano, cui si deve la vita dell’immagine:
Il teschio posa, sta in alto su un architrave: è tutto quanto resta, in una riduzione all’essenziale, di quello straordinario monumento alla fine del tempo e alla sua immobilità, unica vera, dopo la vita, che è lo studio di Jean-Pierre Velly a Formello. Ovunque, nel basso soffitto, pendenti da fili, oscillano bianche ossa di animali pazientemente raccolte, infinitamente levigate, pure forme e pure ossa.
Lungo le pareti sono fissate ali di farfalle, di libellule putrescenti, carcasse di uccelli prosciugati, fra un indescrivibile caos di fogli, carte che hanno lo stesso peso o la stessa leggerezza delle ossa oscillanti e degli animali stampati alla parete. In questo grandioso cimitero che, senza alcun ordine e armonia, senza alcun decorativo artificio, ricorda quello della Chiesa dei Cappuccini a Roma, Velly lavora isolando su un cavalletto il suo quadro, che sorge, intatto e vivo, dall’infinita catastrofe circostante: un purissimo vaso di fiori contro la valle, una immagine di vita fra tante di morte.
Velly chiede la contraddizione, la cerca, fa nascere da essa la scintilla. Tra la vita della natura e la morte delle cose c’è la sua coscienza; c’è quindi l’esperienza, la vecchiezza, estrema conoscenza che ci è data prima della morte. Per questo Velly si invecchia. Sull’iscrizione sepolcrale di Guglielmo Bardiich nella Chiesa di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli leggiamo: «EXPECTO DONEC VENIAT IMMUTATIO MEA».
Autoportrait à la main gauche, mine de plomb, 76 x 57 cm, 1987
A Napoli spesso la morte cristiana è immutatio, desiderato momento in cui finiremo di cambiare. Perché la vita è affanno e mutamento, ci dà infiniti volti, non ci lascia fermi; ognuno di noi si fa irriconoscibile a quel se stesso che è stato prima; di tempo in tempo diviene un altro.
L’ossessione di Velly è stabilire il suo volto definitivo prima della immutatio, sintesi suprema dell’esistenza, prima del nulla. Ed è nella vecchiaia la nostra ultima trasformazione; in essa che è il punto più vicino alla immutatio rappresentata dal teschio, dal suo volto infinitamente anonimo. Quanto furono diverse le nostre facce tanto sono uniformi e quasi modulari, pressoché identici, gli scheletri.
In essi il tempo si ferma, nega la sua identità, la sua natura mobile. E che in questa visione il tempo abbia un luogo essenziale è dimostrato dalla presenza al polso di Velly di un orologio che, ben in vista nei tormentati autoritratti del 87, non ave va ancora fatto la sua comparsa nel precedente autoritratto del 86, torvo e tenebroso ma assai meno decomposto e segnato dei successivi. E, come è chiaro, proprio al tempo si deve la trasformazione del volto. Sempre due vecchi sono più simili fra loro di due giovani. Si aggiunga che i più recenti autoritratti sono dichiarati opera della mano sinistra; quindi provenienti da una parte più oscura, meno esplicitata, meno produttiva del consueto. Un’altra parte con cui egli stesso ha minor confidenza, come un «altro» inconscio che si rivela diversamente nella necessaria diversità del segno. La parte sinistra è più vicina alla immutatio, è invecchiata più rapidamente, svela la più profonda verità.
Velly dice tutto nel disegno, dice di grazie e tormenti, dice della vita, in corpi nudi e in ritratti femminili nei quali si prolunga il magistero di Ingres e di Wicar, senza altra diversità che il tempo, solo giudice.
Inutile voler essere moderni: basta lasciare libertà alla propria mano che sta dentro tutta la storia fissandosi al momento in cui le è dato esprimersi. Così un nudo è un nudo alla fine di tutti i nudi.
La mano di Velly prolunga la grande tradizione classica, naturalmente, con lo stesso principio per cui il tempo muta il suo volto. Il grande magistero di Velly, la sua infinita pazienza, il suo rigore sono passivi, sono agiti da un supremo spirito della storia.
Compiacimento, virtuosismo del disegno, liberazione, euforia, vitalità fino alla deflagrazione della pittura; Velly non incide, non taglia più così seccamente la vita quando morbidamente dipinge, quando si immerge nella natura per respirare con essa, annullare la sua terribile individualità, e aprire gli occhi alle nuvole, al cielo, alla luce che interrompe il grigio e cala, schiacciante, vincente, sui rami secchi nei quali resta un ultimo slancio di vita. Nella vita della grande natura c’è spazio anche per la morte, per una suprema legge che la sensibilità del decadentismo ha limpidamente inteso. Così Velly dipinge con il cuore di Laforgue, di Corbière, dipinge con un pennello estenuato così come aveva di segnato con incisiva fermezza, emulando non la musica dei decadenti ma la sonorità tagliente dei grandi classici, pur malinconicamente atteggiati di fronte alla vanità dell’esistenza, come Agrippa D’Aubigné:
«... Se anche il mio forte valore non riuscisse a niente, né il furore del fuoco né il ferro di uno strale mi impediranno l’assalto alla breccia, poiché la speranza dei vinti è non sperare niente. »
Due anime, due tempi, due volti, dunque, in Velly: verità e consolazione, consapevolezza e incanto, disperazione e sospensione.
Ma sempre, ovunque, un cupio dissolvi come atteggiamento davanti al tempo e non senza uno strano spirito religioso, come sembrano dichiarare quegli altari nella natura e alla natura che sono i suoi quadri, dove un vaso di fiori, o rami e petali in primo piano posati su un tavolo stanno di fronte alla vasta natura, alla corrusca infinità del cielo sul punto d’essere disintegrato da una folgore di luce.
Natura continuamente minacciata dall’apocalisse, senza il sublime romantico e invece in luci crepuscolari. Tutto ciò che è vivo è sul punto di finire: lo vediamo un attimo prima che scompaia. E quest’attimo estremo di perenne agonia che Velly, comunque, nel suo volto, come nella natura, vuol fissare.
La vera bellezza è soltanto questa: non il nulla, ma proprio ciò che è sul punto di finire.
In quel punto si concentra tutta la forza della vita e si raccolgono le energie estreme; perché l’arte, sfidando il tempo, è l’ultimo grido della vita.
Vittorio Sgarbi
Velly d’oro - Spirito del tempo,
in «Europeo», a. XLV, n.47, Milano, 24 novembre 1989 .
“Il romanticismo non è finito. Entrando nelle sale della Galleria Sanseverina di Parma ci abbagliano raggi di sole su orizzonti senza fine, luoghi incantati, selve, rifugi, anfratti nei boschi; la grande pittura di paesaggio da Turner a Corot è tutta rievocata nell’opera di Jean-Pierre Velly, un francese che ha deciso di vivere a Formello, vicino a Roma. Ciò che resta nella natura italiana, accostata ad allegorie di fiori sempre sul punto di diventare secchi, è il tema privilegiato della sua opera. Velly cerca di riprodurre con i luoghi lo spinto stesso degli etruschi. Una vita della morte, una religiosità notturna. Così una casa fra gli alberi di Sutri dapprima è un’apparizione tranquilla; poi, nella Grande ora, è il tempio degli spiriti della terra da cui sembra prendere origine l’energia luminosa del cielo che si scarica sull’orizzonte. La terra allora appare come un luogo delle ombre in un sublime contrasto con la luce del cielo.”
Vittorio Sgarbi
Arte segreta, lo spazio del silenzio
CARIPLO
Mercatus Milano 6-14 giugno 1987
Fiera Milano C.G.I.A. - C.N.A. - C.L.A.A.I. - C.A.S.A.
Ho in mente una storia dell’arte contemporanea, non da scrivere ma da vedere; ho in mente una collezione, un museo, una raccolta dove stanno dipinti e sculture scelti per quello che sono, per come sono fatti, per la loro evidente qualità. Non chiedo immagini gradevoli, rasserenanti, e neppure riconoscibili per un racconto, per una storia, per un personaggio o per un insieme di oggetti consueti. Non chiedo cioè immagini tradizionali; ma so che in me è viva la memoria di incontri emozionanti con opere che un destino malizioso mi impedisce di ritrovare dove vorrei e dove dovrebbero stare.
Non ci sono infatti nei musei d’arte contemporanea, nelle più rinomate collezioni, sulle pareti delle case eleganti. Ci siamo così ormai convinti che l’arte del nostro tempo abbia un volto che in realtà è una maschera, e non ci stupisce che un’immagine espressa da qualcuno che ha condiviso le nostre stesse esperienze, o che le ha anticipate di una generazione, possa essere sgradevole. Siamo rassegnati. Ci hanno abituato a decine di manufatti mediocri, di facili trovate, di giochi ottici, di artificiosi surrealismi, di espressioni cosiddette concettuali o di arte povera (povera arte! ai tempi buoni ricca e sontuosa). Siamo rassegnati! L’arte contemporanea deve essere brutta, deforme, incomunicante, sperimentale.
Quale peggior parola che: “sperimentale”!
L’hanno tranquillamente affiancata alla parola “poesia”; ma provate ad accostarla ad "amore": cosa di più ridicolo, improbabile, di un "amore sperimentale"? Non c’è niente da fare, l’arte sta da un’altra parte. Devo aggiungere che l’ovvietà determina abitudini, anche abitudini visive: e quindi siamo fin troppo disponibili a riconoscere un grande interesse a piccole idee cui altri intelligenti abbiano avuto la debolezza di attribuire valore. Ci confortiamo dell’altrui parere, spesso leggero, automatico; ci suggestioniamo reciprocamente, e mai come ora i sarti dell’imperatore sono stati così inattivi.
E quanti saprebbero dichiarare che l’imperatore è nudo, affidandosi soltanto ai propri occhi? La situazione è difficile. E non è da escludere che chi governa lo stato dell’arte sia, fondamentalmente, in buona fede. Come posso credere rappresentativi dell’arte italiana: Giuseppe Capogrossi, Giulio Turcato, Emilio Vedova, Alighiero e Boetti, Mario Merz, Gino De Dominicis, Luigi Ontani, o, allo stesso modo, gli “aniconici” Gianni Colombo, Giuseppe Uncini, Nicola Carrino, Maurizio Mochetti? Non so.
Mi sembrano un piccolo, marginale, non rappresentativo aspetto di una realtà infinitamente più complessa e variegata che, con i suoi umori, le sue esuberanze, i suoi furori, sta in penombra. Tutta la luce si concentra su qualche segno, anche elegante, mentre il buio circonda le grandi strutturate forme.
L’arte sta restringendosi — o inseguendo effetti roboanti, non sostenuti da una vera qualità d’invenzioni. Ma il problema della mia incomprensione è meglio chiarito quando io aggiunga che non capisco la grandezza di un Mirò, di molte opere di Picasso, e che non mi commuovo indispensabilmente davanti a De Kooning.
Per questo la mia storia e il mio museo sarebbero popolati di artisti che non vedo nelle sistemazioni ormai consacrate o nelle "ouvertures" di storie future.
E continuo a vedere invece il posto degli assenti. Mi sono così fatto l’idea che esista una strada segreta, un sentiero, ma che è l’unico che ci conduce fuori dal labirinto, dalla confusione e dalla babele delle lingue, che rendono indecifrabile l’arte contemporanea, una strada misteriosa ma aperta su panorami bellissimi, con scorci e inedite vedute. E penso a episodi rari o inconsueti, perché il sentiero sempre più si ingrossa e le vedute suggestive si moltiplicano. Di questo secolo, così scoperto, cosi dichiarato, così pubblicizzato nei suoi molteplici aspetti, di questi tempi della riproduzione tecnologica, resterà dunque una “arte segreta”? Avrà spazio anche il silenzio?
Il futurismo e il dadaismo hanno dato i loro frutti e prospettato le conseguenze: le abbiamo viste consumate, subite. E molti ne sono usciti con la testa cambiata, hanno pensato che lì soltanto, e nel perpetuo rinnovarsi dell’avanguardia, l’arte contemporanea trovasse un senso, il suo senso. E di qui incomprensioni, esclusioni, incompatibilità, e, soprattutto, censura e silenzio per chi indicasse diverse soluzioni. Così è sorta una città sotterranea, dove si sono rifugiati, orgogliosi e imperturbabili, artisti di qualità, e dove giungono, come naufraghi sopra una terra insperata, alcuni sparuti coraggiosi che non hanno piegato le vele nella direzione del vento favorevole e hanno affrontato tempesta e bonaccia per arrivare a un luogo di cui avevano sentito parlare, ma della cui esistenza non erano neppure certi fino in fondo. Si è trattato per molti, fin dalla prima generazione di questo secolo, di scavalcare le avanguardie, di attraversarle ignorandole, di riagganciarsi all’ultimo gesto della mano con il pennello o con la terra, di ricominciare dove il percorso si era interrotto. Per molti è stata una ostinata coerenza, una polemica ragione di vita, nell’isolamento e nel silenzio; per altri, e soprattutto ora, è una dichiarazione di riscatto. C’è un intero arcipelago, ancora in buona parte sommerso o inesplorato, di cui l’unico iceberg emerso, universale e quasi sprezzante nella dichiarazione di un valore non comparabile con la moneta corrente, è Balthus. Ma al suo fianco e nella sua direzione o nell’opposta, ma con lo stesso metodo di paziente e pensata elaborazione dell’ immagine, ci sono altri, anche grandi; e non saprei dove incontrarli, se non nei loro studi, in qualche rara mostra: certo non nei templi consacrati all’arte. Le nuove acquisizioni dei grandi istituti in Europa e in America non chiedono commento, ma lasciano spesso fortemente perplessi: cosa avrà indotto a un acquisto piuttosto che a un altro? E perché mai ricorrono sempre i medesimi nomi? Ecco allora la modesta proposta di un “arte segreta”, in una prima personalissima “ouverture”. Il tempo poi, forse, sempre più lentamente, s’incarica di ristabilire i valori.
Proprio adesso, nel primo dei nostri Istituti, la Galleria Nazionale d’arte Moderna a Roma, si riscoprono e riespongono i dipinti e le sculture di artisti dimenticati, figurativi fra le due guerre, abbandonati nei depositi.
Da quelle tombe risorgono meraviglie, ed esse si contrappongono a sperimentazioni velleitarie e ad avanguardie dogmatiche con la semplice forza dell’invenzione, con l’immediata qualità delle immagini. E di artisti che, poi, hanno ceduto alle mode o alle intimidazioni, si recuperano inediti e lontani momenti di fiducia nel mestiere.
Improvvisamente la realtà degli anni tra il 1930 e il 1950 si capovolge e riappare il volto nascosto. Così siamo certi, in questo tentativo di storia nel presente, che molti artisti oggi segreti sono i veri testimoni e custodi dei valori dell’arte; e non di una difesa della tradizione contro il progresso, dell’ordine contro l’avventura. Essi hanno diverse fedi, molteplici volti, si riconoscono in storie dissimili, rivendicano lontane e differenti paternità, costruiscono interi quartieri senza sapere di stare lavorando per l’ edificazione di una sola città. Li accomuna soltanto l’imperturbabile certezza di non poter contribuire al disordine e alla distruzione, per un istinto di vita che, nell’arte, è vita delle forme. Averle preservate, salvate, protette ed esaltate, oggi in segreto, sarà la ragione della loro gloria, domani.
I
LO SPAZIO
DEL SILENZIO
II rigore della ricerca in alcuni artisti conduce - e ne è il più alto esempio la solitaria impresa di Morandi — ad attribuire una identità spirituale fortemente comunicativa allo spazio, inteso anche come recupero dell’impianto prospettico quattrocentesco, scardinato a partire dal cubismo. Questo avvenne già in anni lontani con la metafìsica dechirichiana, con i larghi spazi deserti delle «Piazze d’Italia»: e la stessa idea, senza tradursi in categoria mentale, sembra riprodursi in alcuni artisti contemporanei che sentono le loro opere come costruzioni architettoniche, ovvero come architetture di elementi che determinano una geometria spaziale.
Esistenza ed essenza, inquietudine e forma sembrano stringersi in queste immagini, nella cui misura, nella cui sicura resa espressiva riposa una grande forza evocativa. L’uomo è sempre dall’altra parte, che guarda, un attimo prima della soglia di un ambiente, al di qua di una finestra, davanti a un paesaggio. Ciò che vede è la sua stessa solitudine. Tali opere rappresentano la coscienza che ogni individuo è irreparabilmente solo, che il mondo è un infinito deserto.
Protagonista di questi spazi dove l’uomo non appare, e se appare è soltanto un elemento della composizione per suo interno ritmo, è il silenzio.
Ed esso accomuna luoghi ed oggetti in una statica, simmetrica fissità.
Vittorio Sgarbi
ARTE
SEGRETA
LO
SPAZIO
DEL
SILENZIO
J.M. BACQUET
W. BAILEY
G. BALBONI
G. BARTOLINI
G. BIAGI
D. BOSCHI
M. BURDZELIAN
A. CANTAFORA
F. CLERICI
G. CUARTAS
G. FERRONI
G. FOPPIANI
G. GILLESPIE
D. GNOLI
C. GUARIENTI
P. GUCCIONE
D.KOPP
V. KOULBAK
Y. KUPER
S. LACASELLA
A. LOPEZ GARCIA
B. LUINO
S. LUPORINI
L. MANNOCCI
F. POLIZZI
G. POMPA
F. SARNARI
L. SERAFINI
G. TONELLI
J.P. VELLJ (sic)
P.L. VINARDELL