... La bellezza è memoria, nostalgia di un’incorrotta età in cui la figura rientri in pacificata unità nel suo perduto, naturale grembo. Velly si è posto dinanzi al mistero della cosa, affascinato dall’indicibile bellezza che l’oggetto naturale, sorretto dalla struttura interna al suo stesso apparire, ha. Ne ha poi descritto con dovizia i percorsi, perdendosi nell’alveo del suo configurarsi, sino a che lo sdoppiarsi della sua effimera apparenza nel duraturo schermo dell’immagine, gli ha dato la coscienza piena che atto conoscitivo totale può consistere nel consegnarsi per intero all’esperienza del vedere. Poeta dello sguardo, Velly ha contemplato notti stellate e tramonti, e con eguale umiltà ha colto, in un magistero pittorico d’eccezione, la risonanza spirituale dello spettacolo del mondo. Vi è un’insistenza quasi nevrotica nel modo in cui Velly s’accanisce a perseguire l’oggetto in ogni suo più interno dipanarsi, e persino gli ampi spazi naturali che costituiscono spesso il soggetto delle sue immagini soggiaciono all’escavazione analitica del segno che ne indaga dall’interno gli andamenti. Apparentemente, contraddice questo ossessivo scandaglio del vero la qualità immaginifica del colore che esalta, in una dimensione misteriosa, l’oggetto. Ma, a ben vedere, colore e segno perfettamente si accordano in questa sorta di fantastica, irreale trasposizione del vero nel suo doppio: impregnato, quest’ultimo, dell’ossessiva nostalgia della transeunte bellezza del mondo, motivo di seduzione fondamentale della pittura di Velly. E c’è uno sfondo drammatico nella sua visione, poiché la sfuggente bellezza di ciò che appare svela al profonde l’ossessiva presenza della sua pietrificata, ineludibile essenza. Il Cranio e il cielo, appunto: la fragilità del bello, e, per contro, l’immanente presenza della morte.