Virgilio Guzzi, Un incisore raro, in “Il Tempo”, Roma, 4 gennaio 1971.
“Il suo caos è un’immagine dove l’universo fisico si contamina col mondo della inventiva meccanica. Dall’urto può derivare una lotta disperata ed assurda, quasi un incubo; e può risultare un accumulo immane di rottami, di detriti: un effetto di demoniaco. Hai alternatamente la liberazione (umanistica) e la disfatta e corruzione. Un simbolista il Velly, dalla realtà in continua gestazione, significativa. …Ciò che conta è il modo come la sapienza si trasforma in arte. Quella tensione nello spazio ingombro ed aperto d’ogni minima forma (congegno, albero, nube, roccia, nudo); quel tumulto di cose accertate che si fa inquietante apparizione; quel turgore di plasticità che si moltiplica all’infinito senza sottrarsi al fenomeno luminoso.”
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Virgilio Guzzi, Velly incisore prodigio, in «Il Tempo», Roma, 23 marzo 1971.
Anzitutto il Velly, che del resto ha fervidissima immaginazione, ti stupisce col «mestiere». Non c’è effetto grafico, luministico e cromatico ch’egli non riesca ad ottenere col bulino; non c’è cosa del mondo ch’egli non renda nella sua qualità e situazione, nel suo carattere fantastico ed esistenziale.
Il «mestiere»: un modo di dire pel critico. Esso è sapienza; e questa sapienza è visione. La quale investe la primordiale natura (la memoria, gli spazi luminosi, le nuvole, le piante, gli alberi, le rocce, le pietre) nonché lo stato dell’uomo e delle civiltà d’oggi. L’immagine si presenta per lo più come un caos, nel quale vengono a collisione e cercano di sopraffarsi realtà fisica, organica, naturale e artificiale e meccanica. La prima è corruttibile, mortale; la seconda accatastata, irrompente, frammentaria ed alogica, data infine come rottame, spazzatura. Dall’urto scaturisce una confusione che può assumere ampiezza cosmica e denunciarsi come lotta disperata ed assurda, vero e proprio incubo. La forma umana, l’infinita natura possono uscirne indenni; ma se la scienza invadente le aggredisce e vuol proprio mescolarvisi, allora viene fuori il mostruoso ed il magico. Hai alternamente l’apparizione d’una struttura umanistica e la denuncia della disfatta e della corruzione. La fantasia dell’artista assume volto demoniaco. Così si scopre fondata su una cultura nordica. Ed a quei classici il Velly si rivolge - mentre per altro non si dimostra indifferente alle suggestioni del naturalismo di Leonardo, del manierismo michelangiolesco: a quei maestri del mondo germanico che furono il Cranach e il Dürer, a quei fiamminghi che furono il Bruegel e il Bosch. E il suo modo per riuscire un fantastico visionario (come lo ha chiamato Waldemar George); per affermarsi fondato, fervoso e originale surrealista e simbolista. Da perderci il capo la critica che volesse delle cose rappresentate in questi fogli (non di rado gremitissimi) pescare il riposto senso. Per noi conta soprattutto il modo pel quale la dottrina si tramuta in immagine proteiforme, inquietante. Importa il godimento della ininterrotta tensione che nello spazio ingombro ed aperto di ogni minima forma; la registrazione dei momenti innumerevoli ond’è costituita la favola: diciamo quell’evento che piglia dimensioni di cataclisma e investe macrocosmo e microcosmo, producendo effetti di verità tangibile, come di apparizione e sogno.
Importa a noi il turgore, il tumulto d’una realtà estrema (di detriti) riportata alle origini, destinata alla metamorfosi, immersa nelle perenni alternative del fenomeno luminoso, nel gioco spettacolare degli elementi L’artista non potrebbe apparirci di gusto più maturo. La sua polemica di uomo cosciente dei mali del mondo - e sono quelli ond’esso imputridisce, va in pezzi e mitizza ed estrania la nuda e umana bellezza - è tutta contro l’illusione del «primitivo»: la quale parrebbe semplicizzare il problema”.
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Virgilio Guzzi, Un maestro del bulino: Jean-Pierre Velly,
in «Documento Arte», a. 2, n. 5, Roma, marzo- aprile 1977, pp. 82, 87.
“La sua maniera è filata, sottile, poco o nulla indulgente verso gli effetti pittorici, per quanto poi capace di rendere i colori della luce, di indicare la varietà del colore. Sconcerta, perfino, l’amore paziente, la perspicacia di quest’occhio che si addentra dovunque, e di tutto dà conto.
La civiltà è in quell’estremo contrasto, come messa a giudizio. E come il Velly vuol proprio andare a fondo, ecco che la sua immagine è divenuta spietata. Non c’è parvenza (oggetto, relitto, congegno, frammento; particolare anatomico, roccia, ramo fronda, superficie terrestre o marina): non c’è cosa ch’egli non voglia conoscere in aspetto e struttura; e non disegni, delinei con mano ferma; e non chiaroscuri per renderne il volume, la materiale e particolare consistenza. Il fondo umanistico di origine cinquecentesca meglio, secondo una tradizione tutta francese, manieristico che michelangiolesco viene come sopraffatto dalla spettacolarità della Natura indomita e delle cose”.
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testo ricavato da una cartella contenente
“les Temples de la Nuit”, 1979
Oggi tutti incidono lastre, spacciano incisioni. Il consumismo dilaga anche nel mondo dell’arte ? Per la verità stiamo correndo il rischio di vedere un giorno o l’altro l’antica e nobile arte della stampa ridotta a facile esercizio: peggio, a speculazione commerciale. Invece essa fu sempre, e ancora può riuscire, difficile. Richiede una speciale vocazione, ed esperienza di mente e di mano. Si guardi alla opera grafica di Jean-Pierre Velly, artista francese venuto a Roma col “pensionato” di Villa Medici e rimasto tra noi coll’animo di un Poussin e di un Ingres. Si guardi alle acqueforti di questo giovane talento; di questo “specialista” dalla coscienza d’un classico, tanto ricco di inventiva e fantasia quanto raffinato e profondo conoscitore del suo “mestiere”. Francamente non sapremmo trovare chi possa competere con lui, egli è davvero ciò che si dice un maestro. Un maestro dal gusto fondato sullo studio e sulla conoscenza degli antichi bulinasti; orientato piuttosto verso il Dürer che verso Rembrandt o Goya. La sua maniera è filata, sottile, poco o nulla indulgente verso gli effetti pittorici, per quanto poi capace di rendere i valori della luce, di indicare la varietà del colore. Sconcerta, perfino, l’amore paziente, la perspicacia di quest’occhio che s’addentra dovunque, e di tutto dà conto.
Non siamo più abituati a una classicità così compiuta, e corriamo il rischio – se non stiamo attenti – di giudicarla virtuosa. Invece Velly è un visionario, e ha la sua “moderna” idea del mondo. La quale ci sembra, consiste della materia più o meno tradotta in manufatto, congegno, e patimento, ansia, divinazione dello spirito incarnato, cioè dell’uomo nudo e indifeso, sottoposto alla sferza del tempo e dei pensieri, forte della sua bellezza tramandata dall’arte e dalla storia come dalla remota e vergine natura. Il tutto sa di magia, si pone come metamorfosi, sembra investire i massimi problemi, alludere all’imminenza di fenomeni apocalittici, animarsi d’una vita inquieta e un poco sinistra (demoniaca).
La civiltà è in quell’estremo contrasto, come messa a giudizio. E come il Velly vuol proprio andare a fondo, ecco che la sua indagine divenuta spietata. Non c’è parvenza (oggetto, relitto, congegno, frammento; particolare anatomico, roccia, ramo, fronda, superficie terrestre o marina): non c’è cosa ch’egli non voglia conoscere in aspetto e struttura; e non disegni, delinei con mano ferma; e non chiaroscuri per renderne il volume, la materiale e particolare consistenza. Il fondo umanistico di origine cinquecentesca – meglio, secondo una tradizione tutta francese, manieristico che michelangiolesco – viene come sopraffatto dalla spettacolarità della Natura indomita e delle cose. Queste, concepite e viste quali rottami e rifiuti, ammucchiate e disperse nello spazio in una promiscuità che fa pensare alla fine del mondo e insomma alla stanchezza mortale di un’età che ha consumato se stessa, sono a un tempo capricci surreali, strumenti e simboli: tra organici e meccanici. I tubi somigliano ad arterie, e vice versa.
“Un gusto maturo, questo di Velly. Sostanzialmente nordico, tanto è analitico, dottrinario, concettoso, paesistico: sospeso tra Medioevo e Illuminismo. Realistico quanto è possibile, fantastico parimenti. Tutto ch’è al mondo è forma, edificata a fasi successive, ognuna delle quali in sé perfetta. Nessuna incertezza, nessuna incompiutezza. La parte richiama al tutto, col gioco dei riflessi: come la pelle si stira sui visceri, sui muscoli, veste serica di un’anatomia piena di contrazioni e sussulti. Qualcosa di morboso, di dolente è nell’immagine. Ma la tensione conoscitiva, quella certa esasperazione scientifica la sottrae al sospetto di decadentismo, ben saldata com’è all’ansia morale, nutrita di interrogativi. Un gusto ricco di contaminazioni; dove si rimescolano e donde poi si versano come da cornucopia passato e presente, l’antico spirito folletto e il nuovo incubo metallurgico, il cuore e l’apparecchio. Meglio infine che alla pur ambigua Notte di Michelangelo pensi – e stretto fra i misteri e sortilegi dell’essere trascendente della vecchia cultura nordica e le glorie formali e sostanziali della coscienza una mistica. Solo che qui i termini appaiono nel tempo rovesciati.
Virgilio Guzzi