Una breve intersezione di meridiano e boreale
Leonardo Sciascia e Jean-Pierre Velly
I Dialoghi dei morti sono una forma letteraria oggi desueta (1). Quando si chieda a un pubblicista e agli esegeti dell’artista di far luce sui rapporti tra Leonardo Sciascia e Jean-Pierre Velly non si va al di là delle supposizioni, in ciò che sembra destinato a rimanere misconosciuto. Di incontri tra i due nessuna evidenza, né tantomeno lettere ritrovate o testimoni che ci soccorrano col loro ricordo. All’epoca non c’erano gli strumenti tecnologici di cui disponiamo oggi per registrare la benchè minima traccia di un avvenimento per sempre. Un incontro tra i due avrebbe potuto essere magari esclusivamente virtuale, un incontro breve forse. Dopotutto, per chi si dedica completamente alla propria missione, conta poco a certi livelli, riconoscersi fisicamente, in carne e ossa. (NB: grazie alle testimonianza di Ginevra Mariani nel 2016, Sciascia e Velly si sono conosciuti)
Ci resta un saggio breve di Leonardo Sciascia, testimonianza di un autentico incontro “intellettuale” per lo meno. Datato 1978, inserito come prefazione a una pubblicazione delle Edizioni della Galleria Don Chisciotte di Roma, il testo è intitolato “Velly pour Corbière”. Il volume che lo contiene ha una sovracoperta nera e funge da catalogo che riproduce le opere recenti di Jean-Pierre Velly, raccolte per una mostra svoltasi dall’1 al 31 marzo di quell’anno nella medesima galleria romana (2).
Sciascia dichiara di avere scoperto Velly all’epoca della sua prima mostra in Italia (poco importa se fosse quella del 1969 a Milano alla Galleria Transart o quella del 1971 alla Galleria Don Chisciotte): l’occhio acuminato ed esercitato di Sciascia sapeva individuare tutti i talenti. In questo saggetto consacrato all’artista, Sciascia si rammarica di non potersi soffermare sui diversi aspetti dell’incisione di Velly (...Ma questo è soltanto il tema di un discorso che su Velly va fatto, che mi propongo di fare... che avrebbe senza dubbio voluto fare in un futuro più o meno prossimo). Ciononostante, sottolinea con enfasi certe caratteristiche delle stampe di Velly, approdando così, senza dilungarsi, al suo mondo originario: quello dell’incisione.
La conoscenza delle stampe di Velly, riconsegnate oggi agli onori dagli Amici di Leonardo Sciascia e dai prestigiosi partners del Premio Sciascia, resta appannaggio di una ristretta cerchia di estimatori. Un’opera dunque, quella di Velly, ancora per pochi intimi. Ritorniamo perciò un momento alla misteriosa, enigmatica arte dell’incisore bretone e come le parole di Sciascia vi gettino luce. Il carattere “nordico” di Velly viene sottolineato, dal meridionale Sciascia, e a buon diritto dal momento che l’incisione su metallo è nata nel nord Europa nel quindicesimo secolo, nella valle del Reno. Velly, che lavora all’interno della tradizione, è uno dei successori di una lunga catena d’artisti dei secoli scorsi (3).
Egli ne impiega il linguaggio - il bulino e l’acquaforte esclusivamente in bianco e nero (4) - non rinunciando per questo ad allontanarsene, a modernizzarlo e rivalutarlo. Velly ha dei maestri, non li nasconde. Visceralmente attaccato a Dürer, egli si ispira a Matthias Grünewald per due sue incisioni giovanili Main crucifiée (1964) e Etude de pieds en croix (1965), come ben rileva Sciascia. Flagrante il prestito dal retablo di Issenheim, e lo stesso Velly lo ammette durante una conversazione con Michel Random del 1982 (5). E’ altrettanto vero che l’artista è affascinato dalla dimensione fantastica e religiosa. Nelle sue incisioni Velly adopera una scrittura personale che deriva dal linguaggio di Schongauer, Dürer, Altdorfer, Cranach, Bosch e Bruegel: in buona sostanza, la Scuola del Danubio e del Reno che si allarga sulle Fiandre del XV e XVI secolo (6).
Agli inizi del 1967, fresco di un riconoscimento prestigioso quale il Grand Prix de Rome per l’incisione, Velly si stabilisce a Villa Medici, Roma, con la moglie Rosa, anch’ella incisore di talento. Questo “convento laico” è diretto all’epoca da Balthus. Il trasferimento da Parigi a Roma non è privo di conseguenze sull’opera incisa dell’artista. Anche qui Sciascia saggiamente soppesa le parole: Velly, quest’uomo del Nord, proveniente dal Finis Terrae
(7) settentrionale cullato dall’Atlantico, respira l’aria di Roma, della campagna romana e del Mediterraneo, un’aria di cambiamento, di libertà. E Sciascia osserva giustamente come certi elementi della Città Eterna popolino umoristicamente alcune composizioni (Trinità dei Monti, Suzanne au bain). Ma, da fine conoscitore, discerne che il barocco romano s’introduce surrettiziamente nell’opera così tipicamente nordica dell’artista, Per esempio, il canone femminile della Donna/Madonna primitiva di origine fiamminga o renana evolve in misura sensibile verso delle linee che Velly prende a prestito da Michelangelo così come da Pontormo o da Bernini. Velly, un artista barocco dunque? Una traccia stimolante. Il barocco, nato a Roma alla fine del secolo XVI, si caratterizza per l’esagerazione del movimento, per il sovraccarico decorativo e gli effetti drammatici. La tensione, l’esuberanza e la grandeur si dispiegano sotto l’effetto manierista dell’irregolare, del bizzarro, del trompe l’oeil. Sì, Velly impiega queste forme per esprimere il suo fondo melanconico che oscilla dalla semplice nostalgia fino all’angoscia esistenziale innanzi alla morte e all’eternità. L’Apocalisse che mette in scena Velly nelle sue minuziose incisioni è proprio reale : le discariche (Tas d’ordures) creazioni umane, esistono davvero, eccole là sul ciglio delle nostre strade, delle nostre grandi città ; anzi le troviamo di frequente in quelle magnifiche valli che l’artista ha così spesso descritto e di cui parla Sciascia: quella Valle di Giosafat è proprio là, dove avrà luogo il Giudizio Universale del quale il Massacre des Innocents o L’ange et linceul sono delle illustrazioni perfette. Insomma, parodiando Sartre, si sarebbe tentati di dire: l’Apocalisse, siamo noi, è qui ed ora.
Ma nel 1978 prevale l’attualità : Intanto, ecco questi acquerelli ispirati dalle poesie di Tristan Corbière, scrive Sciascia. E, proseguendo la nostra lettura di quel testo, cita parola per parola la presentazione dei Poeti maledetti del 1884 consacrata da Paul Verlaine a Tristan Corbière.
Non una parola a commento di questa nuova serie di acquerelli di Velly. Ciononostante, egli osserva come l’artista non abbia per nulla illustrato le poesie del suo compatriota bretone, ma è andato al di là di quel che di Corbière può oggi essere moda e ne ha fatto una rilettura meno superficiale. Fenomeno curioso, paradosso della Storia, il ritratto che Verlaine schizza di Corbière rassomiglia assai da vicino a quello di Velly.
Ma non è questa la sede per addentrarsi in una analisi approfondita di questa sorprendente serie di acquerelli realizzata dal 1976 al 1979. Limitiamoci oggi a gustare da amateurs d’estampes la scelta giudiziosa delle incisioni dell’artista scomparso nel 1990 nelle acque del Lago di Bracciano.
Parigi, giugno 2011
Pierre Higonnet
Archives Jean-Pierre Velly (www.velly.org)
1. Diffuso nell’antichità classica prima, da Fontenelle poi, questo genere letterario è stato reso immortale da Maurice Joly nel suo Dialogues aux Enfers entre Machiavel et Montesquieu
2. Il volume e la mostra (Velly pour Corbière «Rondels pour Après», Presentazione di Leonardo Sciascia, Edizioni Don Chisciotte, Roma, 1978) segnano una tappa significativa nella carriera dell’artista: è con questa serie di opere che ricompare il colore dopo oltre quindici anni trascorsi nell’austerità del bianco e nero della stampa e della punta d’argento. Grazie poi all’iniziativa di Sciascia e, senza dubbio, al sostegno dell’ammirevole e coraggioso incisore Edo Janich, Velly tenne una mostra dal celebre editore Sellerio di Palermo oltre a realizzare un’acquaforte per ornare la copertina di Torre di Guardia di Alberto Savinio, a cura di Leonardo Sciascia, uscito per la collana “La civiltà perfezionata”, del medesimo editore nel 1977.
3. Mario Praz nel 1980 scriverà nella prefazione al Catalogo Ragionato di Jean Pierre Velly - L’opera grafica 1961-1980 curato da Didier Bodart per Galleria Don Chisciotte Editore: « A quanti, dopo un primo moto di ammirazione e di stupore dinanzi all’indiscutibile maestria del bulino di Jean-Pierre Velly ̶ e son sicuro che questa è la prima reazione non di pochi, ma di tutti ̶ sentissero un dubbio generato dal sospetto del déjà vu, si potrebbe rispondere : d’accordo qualcosa di simile avete visto in Schongauer e Dürer, ma è proprio questo il caso di parlare di fenomeno culturale della stessa natura del primitivismo e del preraffaelismo? »
4. Eccezion fatta per l’unica incisione a colori, “Rondels pour Après”, che accompagna l’edizione di testa di Velly pour Corbière.
5. Si veda sulla pagina Web: http://www.velly.org/Conversation_12_novembre_1982.html
6. Non è una lista esaustiva. Al Grand Palais di Parigi nel 2011 si è tenuta un’importante esposizione dedicata a Odilon Redon, autore che ha sicuramente colpito Velly. Sappiamo che il maestro di Redon, Rodolphe Bresdin, ha influenzato l’artista in gioventù.
7. Finistère, in francese. La Bretagna ha sempre contato molto nella vita di Velly, non è perciò un caso la sua passione per Corbière. Velly amava circondarsi di bretoni: a Parigi, da giovane, incideva nell’atelier Lacourière-Frélaut, animato da Jean Frélaut (anch’egli bretone di origine come il suo geniale nipote François Lunven, grande amico di Velly scomparso a 29 anni). In Bretagna frequentava volentieri parecchi incisori tra i quali Yves Doaré, Francis Mockel, Roland Sénéca e Christian Vitalis.