Marco Vallora
in “La Stampa” 8 novembre 1993
Il pittore bretone scomparso fra le onde del mare (sic) rivive nel gorgo di immagini di una mostra romana
La sfida folle e dannata di Velly
Dipingere soltanto l’ombra delle cose
Marco Vallora
È sopra un cielo constellato di occasioni perdute. Lascatemi la mia notte.
Forse l’unico appunto, minimo, che su potrebbe fare a questa trascinante mostra, impetuoso gorgo d’immagini, in corso a Villa Medici sino al 28 novembre, e soprattutto dell’elegante catalogo Palombi, ricco anche di un complice saggio di Marisa Volpi, è quello di non aver trascritto in didascalie i minuti graffi di scrittura che Velly amava tracciare con sofferta grafia a lato dei suoi disegni, quasi un ulteriore sigillo di creatività, un cachet d’artista, più spesso illuminanti per penetrare nel suo universo scuro, baudelerianamente nero; ma così consunte, oggi, nel passare degli sguardi, che il lettore spesso vi si smarrisce e non sa più decifrare quella scrittura in controcanto, abbandonata alla cedevole sabbia del foglio, in progressiva cancellazione.
Ed è credibile che chi, con che sofferente umiltà, ai piedi del bellissimo ritratto di Giuliano De Marsanich, suo amico e gallerista-mecenate, scriveva con sgomento «I miei limiti sono immensi» - giocando proprio su questo contrasto hoelderliniano tra immensità del cielo espressivo e piccolezza del tratto del punto umano, che incontra e ferisce per sempre l’epidermide vulnerabile della lastra - è davvero credibile che qualcosa volesse aggiungere ancora di parlante, di «giustificatorio»; ma mai di lamentoso, di querulo. «Lasciatemi la mia notte»: come un tacito accordo. La notte anche del segno, del non espresso gorgo dell’alchimista che incide direttamente dentro il pus irrimediabile della vita. Incidere, «graver»: se vogliamo fantasticare un’etimologia, c’è sempre un annunzio di gravità, di sofferenza, in questo impulso di tratto (il «punto» lo chiamava barthesianamente Velly: Un punto ed è tutto) in cui qualcosa di grave, di irrimediabile accade sul foglio: la prometeica sfida - folle e dannata dell’artista-demiurgo. «Sull’ardesia delle mie angosce ho scritto i miei ricordi». C’è sempre un foglio (magari ciancicato, rattoppato, intriso e vetrato di vinavil), c’è sempre un terreno, un Grund, che precede questo ardimento di Capaneo: un sostrato d’ardesia, quasi un soffocato bordone d’infelicità.
Come dell’appunto di teschio, che s’iscrive in un bordo smarrito d’autoritratto: ghignante memento, che sotto le mutevoli maschere della faccia v’è sempre in agguato quel “convitato di pietra”. Trasferito da anni in Italia, l’ex giovane Velly, che preferiva scontare nelle pelle dei suoi autoritratti graffiti quella precoce vecchiaia che in realtà non riuscì a vivere, l’ex primo e ultimo Prix de Rome d’incisione (che venne “locataire” a Villa Medici, reggente quel misterioso e felino padrone di casa che si chiamava Balthus), Velly, questo bretone-italiano trasferito nell’etrusca Formello che non riusciva a rodere via il suo “accento” nordico, ebbene, finì per non estirpar più quella sua radice “belga”, simbolista, rodenbachiana, che si nutriva vampiricamente di Dürer, Cranach, Grünwald.
Come dimostrano quei suoi primi trittici incisi, quell’attardarsi morboso sulle giunture in spasimo del Cristo trafitto dai chiodi, o quel cranio rembrandtiano, offerto (in remissione dei suoi peccati di surrealista onirico) sul lenzuolo laico d’un altare mondo di ogni visionarietà. Sì, in questa completissima rassegna, perfino troppo affolata di suggestioni, che gli ha amorosamente dedicato il suo paladino De Marsanich (nella cui galleria Don Chisciotte, per anni e anni, si è pedinato il lavoro di maturazione di Velly), le opere forse più datate risultano quelle surrealisteggianti, bellmeriane. Le Mascarade alla Ghelderode, od i risi sarcastici “gialli” per raccontare i tristi Amori di Corbière, quasi le Orientales di Hugo, illustrate da Arturo Martini. In cui un nudo di donna, manieristicamente curvato, paradossale recupero nordico delle morbidezze affilate e cortigiane di un Parmigianino, di un Primaticcio, si trova a fronteggiare il formicolante caos cosmico della nostra civiltà in polluzione: rifiuti e scartafacci anatomici.
Susanna al bagno è diventata una diva di Hollywood, che tenta di buttarsi in una piscina affolata come una fotografia di Coney Island. Nel Massacro degli innocenti, impercettibilmente, i corpi ammassati dei martiri si traducono in ondeggianti profile di colline. Non ammassate tesori, recita il titolo, cimiterino di reliquie tecnologiche. E a poco a poco il vortice unto di oggetti gettati nella spazzatura (c’è anche borghesianamente, il cavaletto del nostro pittore) si trasforma nella grande onda marina, indifferente ed immoriale, che cancella ogni civiltà. Come un bisogno di pulizia, di silenzio. Un gorgo che aspira, apocalliticamente; forse presagio perenne di quell’onda che avrebbe rapito Velly lui che non sapeva nuotare, ma che filava col catamarano nel lago di Bracciano. A vous l’ombre: si schiude un altro teatro, quello del vuoto, della rarefazione alla Giacometti. Da Rembrandt e da Goya, Velly ha imparato la grande scommessa di dipingere soltanto la luce, anzi, l’ombra.
E scrive: «Le mie notti bianche erano i miei giorni. Come si assomigliano l’alba e il tramonto, a rovescio». Racconta proprio questi innaturali «rovesci»; fosforescenti notturni in cui esplode pulviscolare la fistola del tramonto, cieli inventati che scoppiano acquosi come negli amati Calvari di Altdorfer, irritati dal crepuscolo come da un eritema melanconico. E su questi sfondi sbiancati s’inscrive spesso il gioco di diteggiatura - anchilosato dal ghiaccio, degno di un Janssen - dei rami di alcheghengi o di sassifraga, Disperazione del Pittore”.
Splendidi di un colore che si è internato in essenza stessa dell’oggetto, tocate da lievissima anemia della vita che va spegnendosi” ha scritto Tassi, come meglio non si potrebbe. Anemia: esalare l’ultimo respiro sul tavolo anatomico della lastra o dell’acquarello, come fa il teatralissimo topo degno di Poe, che urla: “Dimenticate i miei pelli schifosi, la mia pesta nera. Non ero che fame, come tutti.” (sic) Forse le cose più belle sono proprio queste pagine d’atlante, di bestiario, pipistrelli trafitti da spilli d’inchiostro, ramarri dallo sguardo bifido ed infido, scarabei dal passo lenticolare ed infermo che tentano di raggiungere fiori che non gusteranno mai.
È il momento funebre e geloso in cui si spezza la corazza del crostaceo. E questo fa l’artista: spolpa voluttuosamente le cartilagini del mondo. Quasi un motto autobiografico: “Voi mi avete inchiodato, ma io ero solo un inquilino di passaggio.” Così si fanno semple più ectoplasmatici, trafficati di rughe, e di fantasmi, raggelati cappeli d’erinni, i suoi autoritratti, squartati di superficie ed avari perfono di grafite. Ma dopo anni di astinenza dal colore, di castità, ecco che fioriscono gli ultimi olii, spavaldamente spatolati di verde, in cui Velly sembra scoprire una confidenza di pittura più romana: se non Mafai, certe nature morte gessate di Cagli, o del primo Capogrossi. Un rasserenamento subito contradetto.
Marco Vallora, La sfida folle e dannata di Velly,
in «La Stampa», Torino, 8 novembre 1993.