Jean-Marie Drot
Dialogo con Jean-Pierre Velly
in Jean-Pierre Velly, Accademia di Francia, Roma 1993 Fratelli Palombi
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J.M.D. Jean-Pierre Velly, molto tempo fa, lei ha vissuto qui: pittore, incisore, acquerellista, Lei è stato borsista a Villa Medici nel 1967, cioè due anni prima della soppressione dei Premi Roma voluta da André Malraux. Lei è, quindi, uno degli ultimi laureati che siano venuti a Villa Medici in quanto vincitori del Premio Roma?
J.P.V. Così, io posso dire, con una certa ironia: “Io sono - per quello che riguarda l’incisione - il primo e l’ultimo Gran Premio di Roma.”
J.M.D. Mi piacerebbe che raccontasse ciò che era la sua vita di borsista, a quell’epoca.
J.P.V. Avevo da poco terminato i miei studi, alle Belle Arti e alla Scuola del Louvre e, d’improvviso, trovarmi qui, per me fu il paradiso in Terra.
J.M.D. Aveva obblighi precisi?
J.P.V. Nessuno: gli “invii da Roma” non esistevano più quando io arrivai qui. Parigi concedeva una borsa a ogni “pensionnaire” e la sua totale fiducia. Per esempio, se un architetto desiderava studiare architettura negli Stati Uniti o in Sud America, poteva recarvisi senza alcuna opposizione. E delle stesse condizioni godevano gli altri borsisti: pittori, compositori di musica, incisori su rame, incisori di medaglie. Per quel che mi riguarda, io sono rimasto a Roma, ho lavorato qui, senza aver mai il minimo desiderio di viaggiare. Per me, la manna era caduta dal cielo col Premio. Uscivo da una situazione piuttosto scomoda a Parigi; ricevere circa 500.000 lire al mese, era vivere nella ricchezza. Sarei vissuto esattamente per tre anni e quattro mesi - tale era la durata del soggiorno - in uno scenario sontuoso, che non avrei neanche potuto sognare a Parigi; avevo uno studio, una casetta, del denaro, un direttore straordinario nella persona di Balthus. Mi ci vollero quasi sei mesi per sistemarmi.
A quel tempo, la villa era una specie di convento laico, un luogo sacro. Non oserò dire una prigione dorata. In realtà, era soprattutto un luogo di ritrovamento con se stesso. Non vi era alcuna scappatoia. Lavorare o non lavorare. Adattarsi o resistere da solitario, allacciare rapporti con artisti italiani, imparare la loro lingua, dipendeva soltanto da noi. Tuttavia, se a certuni il soggiorno alla Villa sembrava troppo duro, c’era sempre la possibilità di andare per tre mesi negli Abruzzi o in Francia, dove si voleva. Alla lettera il regolamento non lo permetteva, ma Balthus lo autorizzava.
J.M.D. Parliamo subito di Balthus, di Balthus direttore, di colui che ha “restaurato” la Villa Medici, di Balthus pittore?
J.P.V. Diciamo che con Balthus le frontiere non sono precise. Ci sono delle interferenze. Balthus “restauratore” ha compiuto un lavoro importante restituendo la Villa alla sua autenticità. Compito gigantesco che l’ha completamente assorbito, a tal punto (me l’ha detto lui stesso) che per alcuni anni non ha potuto dipingere, ma soltanto un poco disegnare. Balthus, per me, è stato un uomo profondamente umano, molto rispettoso del lavoro dei “piccoli giovani” che noi eravamo, nel nome di una grande tolleranza. Egli non interveniva mai. Non ci giudicava mai. Anche a distanza d’anni, riesco con difficoltà a dissociare l’uomo dalla sua opera. Balthus, un essere d’un estremo rigore - ciò che d’altronde ci rivela la sua pittura - il quale non fa alcun compromesso, interamente preso dalla sua arte, specchio fedele della sua interiorità. È un maestro, secondo me, colui che ha il coraggio di andare al limite estremo di se stesso. Più il terreno da cui sgorga il pensiero è umano e fertile, più il pensiero sarà profondo, più grande sarà l’autenticità. Quando vedo un dipinto di Balthus, mi dico: “Qui nessuna falsità, nessun inganno”. Siamo lontani dal pittore fabbricato. Siamo in presenza d’un artista essenziale.Che cosa racconta Balthus? Molto al di là dei ritratti di ragazzine (ai quali gli imbecilli tentano sempre di limitarlo), Balthus ci narra la nascita e la morte, con una grandissima sofferenza tranquilla. Come dice Corbière: “Ho lasciato la mia pelle su ogni mio orpello”. Per me, Balthus è la grande voce solitaria.
J.M.D. Quali sono per lei, accanto a Balthus, i grandi creatori del XX secolo?
J.P.V. Giacometti, senza alcun dubbio; il De Chirico di prima che avesse trent’anni (ha aperto una porta e non so cosa possa aver visto, ma l’ha subito richiusa); il Dalì giovane, Morandi, Bacon che ha saputo mostrarsi nudo. Anche lui è un grande.
J.M.D. Dopo il suo soggiorno alla Villa, Lei non rientra in Francia, decide di rimanere in Italia; si stabilisce con la famiglia a Formello, una piccola borgata etrusca a circa 25 chilometri da Roma. E là ancora oggi lavora. Lei tenta di organizzarsi non soltanto un esilio ma, se così posso dire, un trapianto.
J.P.V. Ecco, le racconto: finiti i miei tre anni e quattro mesi a Villa Medici, chiesi a Rosa, mia moglie: “Si rientra a Parigi ?” (E quello che fanno normalmente i borsisti. No?). Io mi sono detto: “Parigi va benissimo, ma perché? Che cosa avrò a Parigi più di qua? I luoghi geografici più importanti sono i luoghi mentali. La geografia mentale, non è la geografia terrestre. In Italia, non ho avuto l’impressione di trovarmi in un paese straniero.
J.M.D. Ha imparato la lingua?
J.P.V. Ho imparato l’italiano quando ho lasciato la Villa; lo parlo sempre molto male ma respiravo un aria di libertà che era in me, mi sentivo bene e anche mia moglie. Dopo esser vissuto nella Villa, nel suo parco immenso, lungi da noi l’idea di cercare un’abitazione nel cuore di Roma. Abbiamo cercato nelle vicinanze, un paesino, non molto lontano, accogliente come era allora Formello. Questo è banalmente semplice. Senza problema di patria, di Francia, d’Italia. Devo aggiungere inoltre che ho avuto la fortuna d’incontrare un mecenate (anche se a lui non piace questo termine), un “gallerista” romano nel senso vero che ama il proprio lavoro e che mi ha dato le possibilità di vivere in pace.
J.M.D. Ma torniamo un po’ a quello che si potrebbe chiamare “piccolo metodo per un bretone che vuol vivere in Italia”.
J.P.V. Sa, io sono un bretone della costa; cioè un rivierasco. Tutte le popolazioni che vivono in riva al mare guardano l’orizzonte. Ampliamo questi concetti di mare e di orizzonte. Come le dicevo prima, i luoghi geografici sono mentali: lei ama la moglie, il figlio, l’amico, ma in Europa, gli alberi sono tutti all’incirca gli stessi...
J.M.D. Parliamo del suo lavoro. Un giorno, io sono stato a trovarla a Formello e nella sua casa ho avuto la sensazione di entrare direttamente in una delle sue incisioni: la disposizione dei locali, degli oggetti, il piccolo labirinto, la scala molto ripida, la grande stanza-studio..; mi sono chiesto se l’incisione non sia ancor più delle altre arti qualcosa che si svolge unicamente nella testa?
J.P.V. Sono assolutamente d’accordo con lei. Non soltanto l’incisione ma la pittura, la musica, la scrittura, l’architettura... Tutto si svolge interamente nella testa.
J.M.D. “Cosa mentale”. Moravia nell’importante libro da lui dedicato alla sua opera incisa scrive che in essa vien fatto stranamente riferimento all’arte del Nord. Tutto accade come se l’Italia avesse influenzato l’uomo Velly e molto meno l’arte di Jean-Pierre Velly. Che cosa ne pensa?
J.P.V. II Nord, è in me. Io sono bretone e naturalmente attratto dal suo contrario. Non è per caso che Poussin e Claude Lorrain sono venuti e rimasti qui. Nei dipinti del Lorenese si scorge bene l’influenza romana. Io ho 46 anni, ed è verosimile che Roma riappaia un giorno nel mio lavoro.
J.M.D. Senza dubbio l’incubazione è molto lunga. Prendiamo, per esempio, una delle sue incisioni La chiave dei sogni. C’è in essa un personaggio femminile molto italiano; lo si crederebbe uscito direttamente da un dipinto del Pontormo.
J.P.V. Sì. Sembra una figura paracadutata da un cielo italiano in un paesaggio che è rigorosamente tutto eccetto che italiano. Ciò crea un contrasto; è esattamente il tutto e il suo contrario. Lo squilibrio che è dentro di noi, la sensazione d’essere sempre sul filo del rasoio.
J.M.D. Ciò che egualmente mi colpisce nei suoi riguardi, è l’interesse degli scrittori e dei poeti per il suo lavoro. Jean Leymarie, Vigorelli, Sciascia, Moravia, fra gli altri, hanno scritto testi su di Lei.
J.P.V. Preferisco la testimonianza dei poeti e degli scrittori. I critici d’arte, loro, hanno la memoria ingombra di riferimenti storici; hanno l’ossessione della catalogazione e si gloriano di dire: “E nuovo”, ma la Venere di Milo è sempre attuale, Rembrandt è sempre vivo. Nulla è nuovo. Soltanto la nostra vita cambia.
J.M.D. L ‘incisione occupa nella sua opera un posto immenso. Quali sono i suoi maestri?
J.P.V. Sono molti. Bresdin, Seghers, Rembrandt, Schongauer, Dürer... Ho cominciato il mio cammino nell’arte disegnando, dipingendo, ma finalmente, ho scelto il più povero dei linguaggi, l’incisione, il nero, il bianco, il punto. II bianco è l’accettazione di tutti i raggi solari; il nero la loro negazione totale. II punto, per l’incisione, è l’impatto della punta secca su una lastra di rame, se si intende l’incisione classica. Che cosa è il tratto? Si fa scivolare questo punto sulla superficie di rame e si ottiene un tratto che può essere (oh, magia) curvo, spezzato, continuo e discontinuo. A lungo, mi sono costretto a quest’ascesi, rifiutando ogni artificio.
J.M.D. In quale momento il colore interviene in questo lungo itinerario bianco e nero?
J.P.V. Non c’è una data precisa. C’è una introduzione molto dolce, poi vi sono gridi di colori. Per me si è aperto un mondo nuovo dopo anni lunghi, penosi e gioiosi allo stesso tempo in cui la precisione, la durezza del bianco e del nero avevano dominato.
J.M.D. Tanto una sua incisione ci offre una visione pessimista del mondo (per non dire apocalittica), quanto una certa impressione di alba nei suoi acquerelli mi fa pensare, che infine, un nuovo mondo può ricominciare.
J.P.V. Invece di un pessimismo, parlerei volentieri di realismo. Lo dico spesso: “La vita è una storia meravigliosa che finisce terribilmente male”. Noi viviamo; Roma è presente; l’aria è tersa; e qualunque sia il perché e il come in questa misteriosa vicenda, un giorno si muore. La morte d’un individuo è molto drammatica per l’individuo che muore, relativamente poco per tutti gli altri. Ora ampliamo questo concetto all’umanità intera. Che cosa sarebbe la fine del nostro mondo? L’esplosione del pianeta Terra? Un minuscolo avvenimento sulla scala dell’universo. La condizione umana è il tempo. Se cerchiamo di far astrazione dal tempo, noi siamo già un po’ più liberi. Con i colori mi piace poter raccontare che nulla è grave, che un giorno morirò ma l’umanità continuerà e anche se la vita sparisse un giorno sulla Terra... E un tipo di realismo che sembra drammatico ma che in realtà non lo è.
J.M.D. Jean-Pierre Velly, la sua opera sembra essere controcorrente. Essa continua, con fierezza, eleganza, ostinazione ciò che si potrebbe chiamare la grande corrente italiana del Rinascimento; come vive lei codesta situazione di artista fuori dall’attualità delle ricerche odierne?
J.P.V. Le rispondo in modo molto semplice. Io sono un uomo d’oggi, sto parlando con Lei nel presente; non sono un fantasma e quindi la traccia dell’oggi sta in quello che faccio. Nonostante me. Mi piacerebbe molto che non ci fosse traccia, poter togliere dal mio lavoro assolutamente ogni storicità. Potendo fare ciò sarebbe giungere a un discorso molto più ampio, più umano. E quello che mi accanisco a fare. Quando ho una matita in mano, voglio disegnare, riprendere la cosa più anonima che ci sia. Questo sarebbe il mio ideale. Che voglio realizzare.
J.M.D. Mi piacerebbe che potessimo concludere con un consiglio di Jean-Pierre Velly a quelli che qui sono venuti dopo di lui. Che cosa desidererebbe dire ai nuovi, ai futuri borsisti?
J.P.V. Mi limiterò a non dar loro nessun consiglio. Tutto dipende da ognuno. A Villa Medici, come in ogni altro luogo.