Waldemar George
Jean-Pierre Velly
tra i giovani incisori, un visionario
1968 in Plaisir de France
riprodotto nel catalogo della Galleria Transart, Milano 1969
Formatosi alla Scuola di arti applicate e in seguito alle Belle Arti di Parigi, primo premio per l’incisione al « Grand Prix de Rome » del 1966, Jean Velly si afferma a 24 anni come uno degli incisori più dotati e più originali della sua generazione in un campo che egli giudica proprio della sua arte: quello dell’immaginario e del fantastico.
Nel giugno del 1966, Jean Velly si vede assegnare il primo premio per l’incisione al « Grand Prix de Rome ». Questo artista fuori serie, che ormai lavora in Italia e che ha sotto gli occhi i paesaggi ispirati del Lazio, e un visionario orientato verso il Nord. Le sue incisioni al bulino di enigmatica sapienza, di una tecnica raffinata, rivelano la sua filiazione.
Si possono scoprire nelle sue pagine certe similitudini con la scrittura grafica di Marcantonio. Può aver messo a profitto la lezione di Bresdin. Ma i suoi modelli sono Dürer e Cranach, Altdorfer e Seghers. Se invoca Jérome Bosch e Breughel e perché l’irrealtà di questi auguri lo attira.
ll premio attribuito a Velly dalla giuria della Scuola di Belle Arti, areopago di cui fanno parte d’ufficio membri dell’« Istituto », attesta l’evoluzione dell’Accademia di rue Bonaparte. Qualche anno fa una scelta simile era inconcepibile. In effetti, Velly non si limita a ricevere la fiaccola degli antichi maestri e ad imitarli. Egli adatta il loro retaggio a fini originali. Crea un proprio universo. Solo un «chierico » è in grado di restituire alla luce le proprie origini. Il suo dialogo con la storia dell’arte porta il marchio di un uomo del XX secolo. I suoi mutamenti di struttura saranno messi in parallelo con quelli di Tanguy, di Giorgio De Chirico e di Oscar Dominguez.
Velly elabora uno spazio onirico che si allontana dalla norma. L’estensione e trattata da questo incisore il cui « doppio » è un taumaturgo, come una materia duttile. Le regole di un’arte classica, presunta intangibile, sono violate o almeno trasgredite. Una realtà adeguata ai principi che reggono il meccanismo dell’occhio fa posto, in questi miraggi che sono le strane tavole di Jean Velly, ad una prospettiva che ha la qualità della molteplicità.
Ogni elemento della composizione ha una prospettiva propria e questa pluralità di punti focali permette all’artista, questo sognatore dagli occhi ben aperti, di tradurre l’invisibile al di là del visibile.
Jean Velly sembra sfidare le leggi della natura. Le forme vegetali e quelle meccaniche, le forme antropomorfe e quelle minerali si affrontano e si aggrovigliano, si incrociano e si confondono. In questo impero bizzarro costruito con ogni sorta di elementi, rocce di uno stile geometrico si mutano in teste mostruose. Brandelli raggruppati in maniera arbitraria assumono l’aspetto di macchine infernali o di macchine volanti. Esseri umani, che sono scorticati, corpi rosi dai vermi, antichi marmi le cui interiora sono fatte di ingranaggi di cordami di tubi di bielle e di pulegge, e dee della fecondità, simboli della terra-madre, animano un regno sorto dallo spirito chimerico di un poeta.
Le immagini di Velly e il loro ordito plastico non possono essere dissociati, Esse concorrono ad un effetto d’assieme e marchiano così l’unita interiore di un’opera che sfugge alla misura comune.
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