Microcosmo e macrocosmo nell’opera di Jean-Pierre Velly
Pierre e Julie Higonnet (2016)
Ma rendiamoci conto: si parla di microcosmo e di macrocosmo, solo per poter capirci. Credo invece che sono esattamente la stessa cosa, cioè che sia un problema che non esiste. Bisogna parlare usando parole, ma in fondo sono la stessa cosa, non ti pare ? Non c’è differenza tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Si calcola con le ore, con chilometri, con gli anni-luce … Sono scale di misura e, ancora una volta, delle parole con quali uno si esprime per provare a definire al meglio quello che abbiamo voglia di dire… Ma che vogliono dire “millimetri”, “anni-luce”? Non ha importanza, no?
Jean-Pierre Velly, conversazione con Michel Random, 1983.
Riflettere sulla rappresentazione del rapporto tra l’uomo e il paesaggio in un’opera d’arte - e a fortiori nell’intero corpus di un artista - potrebbe ben svelare il mondo interiore del suo autore. Nato nel 1943, Jean-Pierre Velly fu incisore, disegnatore e pittore sino alla sua disgraziata scomparsa del 1990. I suoi primi lavori pubblicati risalgono al 1961.
I trent’anni di produzione possono essere divisi in due periodi (1) : il primo (che va dal 1961 al 1972 circa) è quasi interamente dedicato all’incisione, eseguita al bulino e all’acquaforte su zinco poi su rame, e stampata in bianco e nero. La tecnica virtuosa dell’artista trasmette fedelmente la sua visione fantastica del mondo. Infatti l’uomo si smarrisce nella natura spesso minacciosa, dove costui non è altro che un altro elemento minuscolo fra gli altri. Tra realtà e apparenze, i temi dell’epoca si aggirano attorno alla caduta, agli spettri, al nudo femminile e alla maternità, la contaminazione della natura da parte dell’uomo. Si tratta di un’incisione densa, inquietante, complessa, alla composizione ricercata, il tratto ricorda quello di Dürer, di Rembrandt o di Bresdin.
Il secondo periodo (1972-1990) vede la produzione calcografica calare, e far spazio gradualmente a opere su carta a punta d’argento, a matita, all’inchiostro, all’acquerello e combinazioni delle suddette tecniche, nonché alcuni olii, sovente su pannello. Dipinge un mondo dove l’essere umano diventa uguale agli animali, agli insetti, agli alberi e agli altri oggetti. L’uguaglianza è assoluta, la scala dei valori è annientata: siamo davanti ad un universo dove tutto è equivalente, reversibile e speculare. Le composizioni sono essenziali : vasi di fiori, paesaggi di mare o della campagna romana, ritratti di bambini o di anziani, autoritratti e ritratti d’insetti, alberi maestosi e foglie morti occupano la sua mente poetica. Ma se il linguaggio plastico si è sviluppato, queste due fasi non si contrappongono; in realtà, si sovrappongono. L’opera di Velly sorprende per la sua grande coerenza. Ogni opera contiene gli elementi della seguente. Questa crescita tecnica e stilistica è il risultato di un’evoluzione lunga e paziente, di una riflessione maturata nel tempo. Oltre la tecnica, l’unità profonda proviene da una visione del mondo molto particolare. La lastra di rame dell’incisore è come lo specchio e lavorandola affronta un temibile faccia a faccia. Durante quelle migliaia di ore passate ad inventare mondi fantastici, talvolta scure o da incubo, Jean-Pierre Velly è per davvero sceso in fondo a se stesso, “nei i suoi inferi”, come lo spiega l’artista stesso a Michel Random in un importante intervista del 1982(2). Si capisce, nell’opera di Velly il corpo e il paesaggio hanno una relazione molto stretta; si scopriranno all’interno delle immagini molti paesaggi antropomorfici ma anche dei corpi-paesaggi.
Il paesaggio diventa corpo
La prima incisione pubblicata di Jean-Pierre Velly, Paesaggio all’albero morto risale al 1961. Ha 18 anni e si appassiona per i maestri antichi, in particolare quelli della Scuola del Nord rinascimentale: tra i suoi maestri possiamo citare Martin Schongauer, Albrecht Dürer e Mathias Grünewald. Proseguendo gli studi artistici a Parigi, frequenta i musei e copia quadri al Museo del Louvre. E sembra del tutto evidente che spuntasse subito il cammino del fantastico. L’incisione è la tecnica prediletta degli artisti fantastici come se il bianco e nero, staccati dal mondo reale (a colori e in tre dimensioni), invitasse all’indagine dei sogni.
Nel suo saggio “Potential Images: Ambiguity and Indeterminacy in Modern Art”, Dario Gamboni dimostra che nell’arte queste immagini doppie possono essere potenziali, nascoste o ancora accidentali, cioè involontarie. Nel caso di Dürer o ancora di Salvador Dalì, queste immagini sono volontariamente nascoste; invitano lo spettatore a osservare più attentamente la scena a riguardo, dando livelli di lettura sempre più profondi.
Le immagini doppie o potenziali sono miriade nelle incisioni di Jean-Pierre Velly, esse sono addirittura un punto caratteristico dell’opera in generale. Le prime incisioni sono popolate di personaggi mostruosi e melanconici (Grotesques, Illustration pour un conte, Chute): piccolissimi uomini nudi sembrano smarriti in immensi paesaggi minacciosi dove si mescolano elementi naturali e artificiali sotto un cielo oscurato da nubi di fumo. Gli elementi perenni come le voragini, i nubi, i drappeggi o ancora gli alberi nodosi sono sopporti privilegiati per l’ambiguità dei segni e svaghi antropomorfici. Invitano lo spettatore a percepire nell’incrocio dei segni profili, visi, e corpi - più o meno accennati. Talvolta il procedimento è più esplicito: al primo piano di Paysage rocheux (1965, anche chiamato Hommage à Bresdin), c’è un promontorio, meta roccia, meta costruzione, che prende la forma di una testa o di un teschio allo sguardo furioso, soprastante a uomini nudi e calvi, pronti a cadere nel baratro. Sulla cima, una altra roccia somiglia anch’essa ad un viso. Questa collina somiglia a qualche guardiano infernale accogliendo nuovi dannati.
Alcuni personaggi hanno i loro profili riflessi in un altro elemento della composizione, creando come un eco pietrificato all’interno del paesaggio. In Illustration pour un conte (1965), una diavolessa seduta su un tronco nodoso guarda nel lontano, nella postura tipicamente melanconica. Il paesaggio è composto a destra da una scogliera che riprende la sagoma del personaggio, ma invertita. L’umore scuro del mostro contamina il resto della composizione.
Questa incisione ricorda L’Inferno un olio su tavola dipinto tra il 1500 e il 1504 da Hieronymus Bosch, sita al Palazzo Gramini di Venezia. Ricorda anche la silografia di Baldung Grien, Giobbe (soggetto tratto dal omonimo quadro del Dürer) con la contrazione della diavolessa e di Giobbe in un solo personaggio. Anche lì il personaggio del primo piano, seduto in una posizione simile, trova un eco nel promontorio roccioso in fiamma che occupa il dietro della scena. Delle teste fantomatiche con smorfie inquietanti abitano i nubi di Mascarade pour un rire jaune (1967) e il profilo di una di esse viene duplicata nella sagoma della scogliera sottostante. Osservando attentamente questa orda galleggiante, appaiono una dozzina di visi. In questa incisione l’autore propone una natura abitata, animata da spettri, fantasmi chiamati Anaons, le anime dei trapassati erranti sulla terra, provenienti dalle leggende bretoni. Difatti, lo stesso anno, incide Valse lente pour l’Anaon, dove due giacenti riposano su delle tavole di legno, circondati da una moltitudine di visi nascosti nell’ombra, nei rami degli alberi, nei nodi di legno. “Le anime che percorrono il purgatorio sulla terra sono numerose come i fili d’erba nel prato o le gocce d’acqua durante la pioggia”, assicura Anatole le Braz in una raccolta di storie e racconti messi insieme dal folclorista bretone. Mascarade pour un rire jaune con le sue teste galleggianti sulle nuvole potrebbe essere une evocazione macabra del quadro di Andrea Mantegna, Minerva cacciando i Vizi del Giardino della Virtu, dove i visi incarnando il dio Tifone sono nascoste nei nubi.
In Senza Rumore I e II (1969) due paesaggi simili sono popolate da teste fantomatiche. Nella prima, stanno sotto terra coi occhi chiusi in una natura dove l’impronta umana è inesistente. Due alberi inquadrano la composizione; il cielo non è che una nuvola gigantesca e occupa lo stesso spazio della montagna e della pianura stesa all’orizzonte. Senza Rumore II è contemporaneamente il suo pendant e il suo contrario; una discarica immensa ha ricoperto la terra e un mucchio di ferraglia e di carcasse di macchine hanno rimpiazzato gli alberi della prima incisione. Le teste questa volta sono spuntate da terra e abitano la superficie del paesaggio desolato, come degli spiriti spiazzati dai sconvolgimenti inflitti dall’uomo sulla natura.
Il corpo-paesaggio
L’analogia del corpo e del paesaggio è un paradigma che si riscontra in numerosi miti delle origini. La creazione del mondo avviene grazie al sacrificio di un gigante primordiale: Ymir, Purusha oppure Pangu. Costui viene smembrato e le diverse parti sparpagliate del corpo costruiscono gli elementi fondamentali del cosmo. “Prenderono Ymir, lo trasportarono in mezzo a un grande baratro e ne fecero la Terra. Del suo sangue fecero il mare e i laghi, dalla sua carne la terra ferma e delle sue ossa fecero le montagne... Presero anche il suo cranio e ne fecero il cielo.” Nella mitologia greco-latina, le piante, gli animali, le costellazioni trovano le loro origini nella storia dei dei, ninfe ed eroi che la popolano. Dafne si trasforma in alloro, Arachne in ragno e Atteone in cervo. Queste metamorfosi evocano un mondo misterioso, abitato, tessuto di storie, dove i diversi regni si confondono. Chi fu uomo fu, è o sarà un giorno fiore, formica, albero o stella (2).
Spettatore meravigliato e attento della natura, Jean-Pierre Velly era particolarmente sensibile a questa permeabilità delle cose. E se in numerose opere, i paesaggi sono popolati di visi, di profili, di spiriti o corpi rocciosi, il corpo umano a sua volta si trasforma in paesaggio.
Nel 1970, alla fine della sua permanenza a Villa Medici, esegue una serie di quattro incisioni intitolate Métamorphose I, II, III e IV. Tre di esse (I, II e IV) rappresentano un corpo di donna di cui la parte superiore è esplosa a frantumi. Un miriade di elementi sono scagliati fuori da questa sagoma carnale: organi, personaggi, piante e numerosi oggetti e forme indefinite. In Métamorphose I, in alto di questa esplosione, un albero ha messo radici. Come nel sacrificio del gigante primitivo e delle diverse parti del suo cadavere sparsi qua e là, la vita prosegue sotto una forma molteplice. Vita e morte si uniscono in una perpetua metamorfosi. Il corpo privo di vita di queste donne somiglia ad un manichino di stoffa, che diventa paesaggio passando dall’unità allo scoppio.
Rosa au Soleil, incisa due anni prima, presenta una composizione speculare. Rosa, la moglie di Velly, artista ma anche la sua modella, è sdraiata in un spazio azzerato: la profondità è annientata dalla luce abbagliante del sole. Rimaneggia la sua capigliatura e la sua testa è girata verso il paesaggio in là. Il suo corpo nudo alle potenti cosce, la pancia piena e il busto piccolo ricorda i canoni delle veneri sdraiate manieriste. Contrasta la parte superiore dell’incisione con le sue tinte dense e una profusione di elementi: un immense corpo femminile geometrizzato e squartato, aperto dappertutto, esibisce viscere, corde e tubi. Si tratta appunto del corpo di Rosa specchiato, amplificato e sgusciato; si scioglie nel paesaggio di scogliera. La curvatura sferica delle anche evoca la forma del sole. Ma la bellezza del corpo non è dove uno se lo aspettava - in una bellezza convenuta, celebrata dai grandi maestri. Sezionata come una comune lastra d’anatomia, diventa un universo affascinante da esplorare.
Una dozzina d’incisioni importanti del periodo della Villa Medici (1966-1970) sono dei nudi femminili (cominciando da la Clef des Songes, 1966). Dal anno seguente, la sua modella prende la posa classica della Venere sdraiata, ma solo per meglio contraddire quest’immagine tradizionale. Queste donne sdraiate sono squartate e spellate. La pelle rovesciata svela una anatomia oscena e meccanizzata: tubi, corde, organi e sfere formano la machina interna di ogni corpo.
Nel 1967, affascinato dalla gravidanza di Rosa, Velly incide Maternité I e Maternité II. Una donna sdraiata né è l’unico soggetto. Nessun paesaggio, nessun oggetto distrae lo sguardo. Essa si appoggia sul braccio sinistro, il destro alzato; la testa rovesciata esprime un’immensa sofferenza. La pelle parzialmente staccata dal corpo evoca in un primo tempo una sindone. La pancia è una sfera ben evidenziata, affermandosi come elemento estraneo. In Maternité I, la sfera è cucita dalla carne con dei punti di sutura. Questa donna al travaglio, agonizzante, dà luce a un’altra sfera. Maternité I incarna simbolicamente tutte le maternità: non è un individuo che nasce ma bensì tutto un mondo. Il corpo devastato deve passare per la sofferenza e la morte per dar la vita/la luce. Velly svela che vita e morte partecipano ad un ciclo di metamorfosi, di trasformazioni: è il transito verso la rinascita. La pelle/sindone somiglierebbe allora alla pelle che lascia il serpente in muta.
Il soggetto di Massacre des Innocents (1970-1971) non ci rinvia esplicitamente all’episodio dei Vangeli, ma sembra accennare piuttosto ad una scena del Giudizio universale. Un paesaggio desolato, illuminato da un bagliore da fine mondo, è ricoperto da piccolissimi personaggi nudi; a migliaia, fuggono verso l’orizzonte. Il punto di vista dell’incisore è lontano, distaccato e questi uomini formano una massa compatta. Sono così numerosi che il terreno scompare del tutto sotto i loro corpi e la scena rappresenta un paesaggio in movimento di esseri umani. Presa nella sua interezza, questa incisione enigmatica colpisce per la straordinaria esecuzione della folla scacciata e impaurita nella quale ogni essere perde la sua individualità (3). Ad una visione ravvicinata invece, ogni personaggio è rappresentato nella sua unicità.
Tema centrale nell’opera di Jean-Pierre Velly, il rapporto corpo-paesaggio si manifesta dunque sotto più forme. Il corpo è l’unità di misura spontanea, fondamentale che serve da campione per afferrare l’universo. Il paesaggio è popolato di visi, spettri e corpi nascosti; oppure il corpo stesso, aperto, frantumato e sofferto diventa paesaggio o l’origine del mondo. Si scopre un universo alla storia terribilmente lunga, frutto di un doloroso procedimento di trasformazione e abitato dalle memorie dei suoi inquilini passati o presenti (4).
Dell’uguaglianza degli esseri e delle cose
Il Massacre des Innocents (Strage degli innocenti) potrebbe essere confrontato con due altre incisioni eseguite lo stesso anno: Plantes e Ville détruite. La prima rappresenta un paesaggio steso fino all’infinito, identico a quello del Massacre des Innocents. Queste due lastre hanno difatti la stessa misura. Le piante comuni (convolvoli, graminacee, ortiche - quello che viene chiamato trivialmente “erbacce” - hanno ben presto rimpiazzato gli uomini e ora ricoprono l’intera superficie della terra. In un mondo senza di noi, la natura riprende i suoi diritti. Nella seconda incisione, una città devastata, rasata al suolo, come folgorata da un’esplosione atomica come viene suggerito dalla luce drammatica del cielo, presenta una scena apocalittica. Alcuni piccoli uomini nudi fuggono al primo piano le fumanti rovine e ricordano nella loro corsa i personaggi del Massacre des Innocents.
La prospettiva dall’alto di queste tre incisioni spingono lo spettatore à distaccarsi e à relativizzare gli elementi e gli eventi che la compongono. La similitudine della loro composizione provoca un’analogia tra gli esseri, le piante e i monumenti distrutti. Questo “trittico” evoca l’effimero: gli uomini possono a qualsiasi momento essere falciati dalla morte e le grandi città di oggi sono inevitabilmente destinate ad essere annientate. Questo sconvolgimento di scale relativizza il posto occupato dall’essere umano su questo pianeta e nella storia dell’universo. L’uomo perde il suo statuto al centro del creato (5). Da questa visione spontanea - perché prima vediamo il mondo con i nostri occhi e corpo - si passerà ad una visione “mentale” pero sentita dell’universo dove l’essere umano si smarrisce nell’immensità. Questa concezione del mondo e del posto dell’uomo è stata evidenziata dalla conoscenza scientifica recente.
« Eppure si muove » …Che cosa vuol dire? Che quello che credevi prima, che eri il centro dell’universo sulla Terra, che tutto il resto girava attorno a te... Ti rendi conto che sei tu che giri attorno a tutte le altre cose, che tutto il mondo si muove, che non c’è un “centro” specifico, che la vita è diffusa ovunque…
Questa rivoluzione della percezione - la scoperta dell’uguaglianza fondamentale di tutto ciò che esiste - invece di rendere insipido il mondo, lo rende invece affascinante. L’insetto, l’uomo, il cielo stellato, una lavatrice abbandonata in una discarica: ogni cosa è degno d’interesse.
Una delle particolarità dell’opera di Velly viene riproposta in questa serie d’incisioni dedicate ai mucchi di spazzatura. Il lento lavoro dell’incisore davanti alla lastra di rame l’hanno portato a concentrarsi sugli oggetti apparentemente privi di interesse ma che acquisiscono bellezza e nobiltà attraverso la rappresentazione del tratto delicato al bulino. Se ogni essere, ogni oggetto è un universo in sé, un microcosmo, allora accade l’esplosione dei possibili e una reale presa di coscienza della complessità del mondo.
Velly si china sui umili, le erbe dei campi, i rifiuti, considerati inutili da tutti ma diventano ben presto un campo d’esplorazione inesauribile per il nostro incisore: rappresenta questi oggetti sotto angoli e prospettive diverse con un’esattezza totale legata ad una minuzia ossessiva. Seguendo l’invisibile filo di Arianna, ogni oggetto è un micro-universo che racconta la sua storia: la sua genesi, i vari elementi che lo compongono, i suoi utenti e la sua ultima destinazione, la discarica, vero cimitero contemporaneo. Suzanne au bain (Susanna al bagno, 1970) potrebbe essere una versione infernale di un paesaggio di Claude Lorrain. La scena biblica occupa un angolo ristretto dell’opera: Susanna, nuda sta per tuffarsi in una piscina. Molti uomini in costumi da bagno la circondano e l’osservano. Ma il vero soggetto che domina l’incisione è un’immensa discarica illuminata da una nube. Il caos degli oggetti è solo appariscente. Invece, ogni oggetto si rispecchia in un altro: una poltrona rimanda ad una sedia di paglia che un’altra volta rimanda alla tazza del gabinetto abbandonata un po’ più in là. Enfin (1973) d un giro più cosmico e autobiografico a queste accumulazioni: nello spazio, un vortice di oggetti gravita attorno ad una luce misteriosa. Guardando più attentamente l’opera si scopre - tra le altre cose - un triciclo, un cavalo a dondolo, una cartella, delle bilie, un treno elettrico, una palla, una trottola, dei pupazzi e burattini... Sono ben centinaia gli oggetti legati all’infanzia che galleggiano nello spazio galattico. Nel angolo inferiore sinistro, c’è un bambino seduto al banco della scuola, sta scrivendo in un quaderno; poco distante una torta di compleanno con sette candeline: sono gli anni che compie quell’anno Arthur, il figlio dell’artista.
Un point, c’est tout (1975-1978) raffigura un’esplosione fenomenale di oggetti, di corpi, de corpi-oggetti. Come in Suzanne au bain, ogni elemento né genera un’altro, l’incisione è attraversata da giochi di parole visivi, di associazioni di forme, d’idee. La tromba elicoidale è vicina all’elica dell’elicottero che non è lontano dalla vite, un’altra spirale. Une latta - e non qualsiasi perché si legge chiaramente sulla targa di essa: “Sardine Velly all’olio di Formello” - è stata aperta da una chiave (a sardine) che risponde ad una chiave di porta che risponde ad una chiave detta “inglese”. Ancora una volta, il caos è finto; si tratta invece di un “mucchio ordinato” di oggetti. La discarica è un autentico memento mori contemporaneo. Cosa succede agli innumerevoli oggetti accumulati nel largo di una vita quando questa persona scompare? Reliquie. Che senso ha questa nostra folle accumulazione ? Vanità. Vanità ancora in N’amassez pas les trésors (1975), titolo di un’incisione che riprende le parole del Vangelo di San Matteo. Corone, tiare, colone, trofei, medaglie, i simboli del successo e del potere sono inghiottiti dal mare.
Velly pour Corbière
Dal 1972, Jean-Pierre Velly proseguirà con l’incisione ma ad un ritmo meno sostenuto: riprende il disegno, l’acquerello e la pittura. Sono datati di quel anno la serie delle punte d’argento: sono ritratti realistici degli abitanti del borgo di Formello dove si è sistemato da poco l’artista con la famiglia. Questi cambiamenti di tecniche susseguono a delle tematiche ben precise. L’universo fantastico non è ridotto al mondo de la stampa. In effetti, nel 1978, la galleria Don Chisciotte presenta una serie di tecniche miste (matita, inchiostro e acquerello, frutto di due anni di lavoro) intitolata Velly pour Corbière in omaggio al poeta maledetto. La copertina del catalogo è completamente nera. Ogni opera nel volumetto è accompagnata da una poesia proveniente dal libro Les Amours Jaunes del poeta bretone Tristan Corbière (1845-1875). Velly ammirava da tempo il suo stile singhiozzante e dislocato, la sua mente cupa, più ironica che romantica. Le opere raffigurano sovente degli uomini sdraiati la loro testa agli occhi chiusi o semi chiusi (talvolta portando il volto dell’artista), girata verso il cielo stellato. Nella maggior parte di questa ventina de opere di piccolo formato, il foglio è diviso in due spazi distinti: la terra e il cielo. Una barra sepolta ospita un corpo, la testa girata avanti, alla maniera del Cristo del Mantegna ma rovesciato. Dal loro cuore sorgono raggi di colore d’arcobaleno. Questi raggiungono le stelle per formare costellazioni. Il macrocosmo (l’universo raffigurato dalle costellazioni) e il microcosmo (il corpo umano) si raggiungono, comunicano e animano un ciclo senza fine. Non c’è più separazione tra gli elementi e i tratti risaltano la metamorfosi, la trasformazione operata dalla morte. La morte è un passaggio e lo spirito come il corpo si rinnovano in altre forme. La domanda del posto dell’uomo nell’universo prosegue: sarebbe nella contemplazione della morte che si svela il mistero della vita? I titoli delle opere ci invitano a seguire questa direzione: “Stelle”; “Ignoto”; “Sogno”; “Le Immortali”; “Assenza”, “Niente”...
Bestiaire perdu
Nel 1980, contemporaneamente alla pubblicazione del catalogo dell’opera incisa, sempre alla Galleria Don Chisciotte, Velly espone una nuova serie di lavori su carta, questa volta sugli animali; la mostra viene accompagnata da un volume a giacca sempre nera intitolato Bestiaire perdu dove sono riprodotte le tecniche miste esposte (acquerelli, inchiostro e matite a colori). Qui l’uomo, cioè “la bestia principale, brilla dalla sua assenza.” Certamente, l’argomento è molto diverso, pero si tratta del medesimo messaggio: tradotto in un altro “linguaggio” subisce una metamorfosi. Il Bestiaire perdu come nei bestiari medioevali presenta, acquerello dopo acquerello, un ritratto di un animale. Nel catalogo, ogni opera riprodotta ha di fronte un poema corto scritto da Velly stesso in francese, assieme a una traduzione in italiano. Il leone, la balena e l’unicorna dei libri antichi fanno spazio ora agli animali odiati, temuti, disprezzati dall’uomo: si vedono dunque topi, pipistrelli, civette, rane, insetti, coleotteri, disegnati sulle pagine di un (finto) quaderno scolastico. Velly dipinge con grande tenerezza questi animali che, per un motivo o l’altro, sono caduti in disgrazia agli occhi degli uomini e perciò vengono perseguitati e diventano martiri: civette inchiodate vive alle porte, topo morente, cetonia spigliata da un entomologo. È una denuncia della crudeltà umana inflitta sugli animali per superstizione o egoismo. Ma aldilà degli animali, è la sofferenza degli umili che egli denuncia. La dimensione sacrificale è evidente e la civetta inchiodata ricorda immediatamente alla Crocifissione.
Riproponiamo la poesia affiancata al ritratto del topo:
Dimenticate il morso
la setola rubina
la nera peste
cancellate tutto.
In vero come voi
avevo solo fame
e diritto di vivere.
Velly ci ricorda che “... siamo tutti uguali! Il topo uguale uno, e l’uomo uguale uno.” Il topo simboleggia tutti i disgraziati: tramite il rovesciamento delle scale dei valori, egli fa nascere compassione e pietà.
Successivamente al Bestiaire perdu, Velly inciderà solo cinque lastre in dieci anni. Si dedica decisamente all’acquerello, al disegno a matita, all’olio spesso su tavola. Esegue una serie importante di nature morte sul tema dei vasi di fiore, che sono posti sul il davanzale di una finestra. Il fondale è spesso un paesaggio esteso all’infinito. A guardarci più da vicino, la maggior parte di questi mazzetti non sono formati da fiori nobili ma invece dei fiori di campo, i ciuffi d’erba degli orli di strada (Pirouette, 1983, Mattino, 1984); il “vaso” è spesso un bicchiere molto semplice. Come in Bestiaire perdu, Velly nobilita specie non considerate; vengono rivalutate dall’osservazione attenta e perciò che si danno ora tranquillamente il cambio alle orchidee o alle tulipani. In une prospettiva capovolta, Velly raffigura al primissimo piano le erbe poste direttamente sul fondo che si perde nell’infinito e il paesaggio è illuminato da bagliori. Il vicino e il lontano sono stati ravvicinati al massimo in queste opere, l’infinitamente umile con la maestà del paesaggio crepuscolare, talvolta notturno, o dell’oceano in tempesta. In Dicembre, uno delle dodici acquerelli che Velly fece per l’agenda Olivetti del 1986 (poi ripreso a maniera nera nel 1989), i rami e le radici sono andati a finire su una spiaggia. Alcuni semi sono sparpagliati sull’arenile. È notte buia e la luna si intravede appena sotto il velo delle nuvole. Il resto del cielo è pieno di stelle. Quello che c’è in alto si trova in basso e quello che c’è in basso si trova in alto. Con questa trasformazione baudelairiana, Velly nobilita quello che viene scartato e ciò avviene quando uno presuppone l’uguaglianza di tutte le cose.
Autoritratti e auto-raffigurazione
« Impara a parlare … per tacere.” Jean-Pierre Velly
Il tema dell’autoritratto occupa uno spazio importante nella produzione dell’artista. Stricto sensu, se ne contano una decina eseguite dal 1985 sino alla sua scomparsa nel 1990, nonostante sia comparso di recente un olio su tela del periodo giovanile. L’artista infatti dipinge questo primo autoritratto a 20 anni, molto probabilmente a Tolone. Contemporaneamente, si auto-raffigura nell’incisione Groupe de six hommes: l’artista appare già precocemente invecchiato, il viso ha i lineamenti marcati, la pelle rovinata, lo sguardo spento. Questo fenomeno dell’invecchiamento precoce dei personaggi è una costante nelle sue opere (Grotesques, Bébé vieillard, Chute, la Vieille) come lo confessa a Jean-Marie Drot nel 1989, quando dice “la condizione umana è il tempo.”
L’autoritratto come genere artistico diventa una parte importante delle opere degli anni 1985-1989, prendendo in considerazione la piccola produzione dell’artista. Dipinge solo due olii, entrambi molto scuri: un ritratto e uno più grande dove l’artista si raffigura in piedi accanto al tavolo dove sono sparpagliati pennelli, colori e fiori secchi. Gli altri otto autoritratti sono tutti dei disegni a matita quasi tutti eseguiti su carte povere, talvolta strapazzate, per evidenziare la vanità di tutte le cose, compreso se stesso. Il primo datato 1985, è di picolo formato su carta bianca. Ricorda le punte d’argento degli anni 70-73. Il viso è pienamente lavorato, ma il resto del busto è appena abbozzato. Il fondo rimane immacolato. Lo sguardo dell’artista ci fissa diritto negli occhi. L’espressione è volontariamente neutra. E’ un autoritratto realistico.
I tre autoritratti successivi degli anni 1986-87 hanno la stessa composizione. Questa volta, il corpo è nettamente disegnato, l’artista veste una vecchia camicia che gli copre il torso. Nei tre disegni, il braccio sinistro appare, la mano sdraiata sul tavolo. Sopra la sua testa, ricoperta dalla sua indimenticabile capigliatura, s’intravedono su un architrave, uno o due teschi, appena abbozzati. Nel autoritratto del 1986 (a sinistra), tutti gli elementi sono realistici: il viso che compare è ben quello di un uomo di mezza età. Invece, in quelli del 1986-87 e 1987 (centro e destra), tutti gli elementi sono volontariamente invecchiati: il viso è marcato, la magrezza paurosa, il braccio scarnato, la mano somiglia ad una zampa di qualche uccello notturno. In questi due ultimi disegni compaiono due elementi innovativi: l’orologio che segna il tempo e delle piccole scritte. Nel Autoritratto con orologio si può decifrare : “Le mie notti bianche furono i miei giorni = come se somigliano l’alba e il tramonto. Al rovescio!” In autoritratto alla mano sinistra si legge : “ Non cercatemi più nei tempi che furono, o che c’erano. Il tempo fugge, come dadi buttati al vento.”
Nel 1987, in occasione del 25 anniversario della sua apertura, la Galleria Don Chisciotte pubblica sulla copertina del catalogo dedicato all’artista l’Autoritratto a grandezza naturale, un ritratto che torna ad assomigliare (auto-mimesis) in modo realistico all’artista. In fine, nel 1989, disegna su un foglio molto grande (70 x 100 cm) un’ultimo autoritratto, anche esso molto realistico, senza fioriture. In un dialogo con Jean-Marie Drot, direttore della Villa Medici all’epoca, spiega: “Mi piacerebbe molto che non ci fosse traccia, poter togliere dal mio lavoro assolutamente ogni storicità. Potendo fare ciò sarebbe giungere a un discorso molto più ampio, più umano. E quello che mi accanisco a fare. Quando ho una matita in mano, voglio disegnare, riprendere la cosa più anonima che ci sia. Questo sarebbe il mio ideale. Che voglio realizzare.”
Proviamo a inserire questi autoritratti all’interno di tutta la sua produzione e cerchiamo di comprendere il loro significato profondo. Velly in una lettera giovanile spiega al suo amico prete quanto sia profondo e onesto il desiderio di sincerità e di chiarezza. Se ci si comprende, si può comprendere anche il mondo intero. E scoprire il linguaggio universale consente di poter incominciare un dialogo con gli altri, elemento fondamentale per l’artista. Ognuno è un mondo e anche il suo riflesso. Si potrebbe ben pensare che ogni immagine di Velly sia una chiave per capire l’artista, se stesso, e il resto del mondo.
L’accumulazione degli oggetti, forme e figure nelle incisioni dell’artista è lo specchio dell’incredibile diversità del mondo. Spiega all’amico Random: Voglio dire che tutto è collegato, no? Che un teschio, tieni, questo cubetto di zucchero lì, o… voglio dire che uno può vedere attraverso l’elemento il più banale in apparenza, il più banale a secondo delle nostre vecchie tradizioni, che uno può vedere il mondo ! Cioè, una foglia morta, non lo so, una bottiglia, una scodella, qualsiasi cosa…un fiammifero! Sono esattamente la stessa cosa!
Questa visione raggiunge conclusioni del saggezza buddhista. Un’osservatore attento, infatti, scoprirà la complessità quasi infinita di qualsiasi cosa che ci circonda. E dovrebbe meravigliarsi di ciò. E diventa ancora più straordinario quando gli elementi (naturali o artificiali) sono combinati insieme (come lo sono nelle incisioni dell’artista - per esempio ci sono oltre 840 oggetti diversi in Un point c’est tout) per creare altre storie, altre dimensioni, altre realtà. Ogni oggetto possiede una propria storia, ed a fortiori, messi assieme creano altri racconti. Questo nostro mondo così ordinato è solo illusione. Tutto brulica, vibra, si agita, tutto cresce, si trasforma con o senza il nostro aiuto o consenso. Velly ce lo sottolinea, si crede che tutto gira intorno a noi, ed invece siamo noi che giriamo attorno a un mucchio di cose, di forze invisibili, molto potenti, di cui spesso siamo solo spettatori o ingranaggi di un grande meccanismo eterno. La coscienza (la visione) è la capacità di rendersi conto di tutto ciò, di capire almeno una parte di queste combinazioni infinite. Velly prova a suggerirci una chiave di lettura. Guardare un autoritratto di Velly, equivale a osservarci nel suo specchio e pensare, riflettere e comprendere l’insieme della sua opera, così densa e così ricca, come la vita stessa.
L’autoritratto fa dunque parte di un ensemble più vasto che viene chiamato auto-raffigurazione dell’artista nelle sue proprie opere. In effetti, Velly si è auto-raffigurato più volte ben prima della serie degli autoritratti. Si è accennato dell’incisione del 1964; ricompare il suo viso in numerose opere della serie Velly pour Corbière (1976-1978) come in Passe (l’altra figura sopra di lui è del figliolo Arthur), Sphère e il disegno Aux portes de la nuit. Questo può illuminarci sulle intenzioni talvolta misteriose di Velly. Si può ipotizzare che il fascino della morte (l’unica vera certezza nella vita) che in Velly sin avverte lungo tutto il periodo della sua produzione artistica, si conclude sul fatto che ciò che muore rinasce, e perciò la morte non è così grave, né la nostra, né l’eventuale scomparsa dell’intero pianeta. E d’altronde, l’opera d’arte sopravvive al suo creatore, per scomparire al suo turno.
Nella serie del Bestiaire perdu, per capire il significato di questi ritratti di animali, basta ascoltare l’artista: “Voglio dire che il topo o l’uomo – potrebbe sembrare…abbastanza terribile quello che sto per dire adesso - agli uomini non piacciono sentirsi dire la verità in faccia – che il topo o l’uomo sono assolutamente uguali…Come il pipistrello, sono uguali. Il topo vale uno e l’uomo vale uno… e la pianta vale uno. Tutto qua… Certo, per il nostro piccolo egoismo personale…” Velly lo spiega anche in un’altra intervista: “Io mi considero come un insetto, come un pipistrello. Cioè, è l’uomo che ha sempre detto che era al centro della creazione. Io non penso che sia così. Io penso che il valore è unico. Potrebbe essere anche un discorso molto pericoloso, secondo come va interpretato. Ma io non è che mi considero più importante una vipera, di una civetta, d’un pipistrello. Eccome il pipistrello è importante come me. Come una pietra, come una pianta…che cosa vi devo dire di più? Questo è quello che penso. Fino a adesso. Poi dopo, spero che non cambierà.” Alla luce di queste parole, questi animali potrebbero dunque essere anche essi degli auto-raffigurazioni metaforiche dell’artista stesso. L’individuo che scende nei propri inferi (che cerca in sé la conoscenza, la visione), che riesce a uscirne fuori colla chiarezza, diventa lo specchio del mondo. La sua produzione artistica è questo cammino, e il testimone della sua ricerca interiore.
Appare dunque evidente che tutte le opere di Jean-Pierre Velly sono frammenti di un grande autoritratto, che l’opera generale dell’artista è sin dagli esordi completamente autobiografica, che ciascun immagine è anche speculare, riflette contemporaneamente il soggetto (particolare, unico) ma anche costituisce un ritratto del mondo intero, di tutto l’universo.
La complessità delle incisioni, la moltitudine degli elementi raffigurati assieme alle immagini nascoste, invitano a “leggere” le opere di Jean-Pierre Velly più che a “guardarle”. Il lavoro di decifrazione reitera la lentezza e la riflessione con la quale ogni segno del bulino ha scavato il rame, ogni tratto d’acquerello poco a poco ha delineato i raggi del sole. Si potrebbe dire che Velly dipingeva come incideva, a trattini associati tra loro. La sua opera è decisamente rivolta verso la meditazione, lontano dal rumore e furore dei suoi contemporanei. L’artista considerava il suo mestiere come una missione sacra, un sacerdozio laico. La sua opera non vuole trasmettere un punto di vista estetico o morale ma piuttosto un'interrogazione filosofica. In quanto artista, traduce il suo sentimento profondo sotto forma d’immagine, “altrimenti sarei stato poeta o scrittore”, affermava. Ma più che la traduzione visiva di una verità interiore, Velly desidera iniziare con lo spettatore un dialogo: “perché, quando uno è sulla lastra di rame, non siamo qui per fare barchette o fiorellini. Stiamo qui per capire se stesso prima, e in un secondo tempo, gli altri attraverso se stesso. Perché esisti solo attraverso gli altri... (Si tratta) di creare il tuo proprio linguaggio per meglio conoscerti... (Poi) c’è né saranno altri che passeranno (davanti all’immagine) e diranno : « Ecco, qui, mi riconosco…”
Speriamo che in occasione di questa mostra il desiderio dell’artista venga esaudito.
1. C’è un periodo artistico giovanile dell’artista (1955-1960) costituito da olii su tela, incisioni, litogra e e disegni che non è stato ancora studiato. Qui in catalogo Marco Nocca, grazie all’analisi di quattro album inediti, traccia un quadro dell’attività di disegnatore di Velly durante il suo periodo di formazione all’école Nationale Supérieure des Beaux-Arts, dal 1964 al 1968 ca.
2 E poi sembra che abbiamo cellule che hanno miliardi di anni. Perciò siamo stati topi, foglia ... Non ti parlo qui di una metempsicosi con ritrovamento della personalità, ma voglio dire, una sorte di vecchia conoscenza che sicuramente è vera. Jean-Pierre Velly, intervista con Michel Random, 1982.
3 Probabilmente un “unicum” nella storia dell’arte perché l’incisione di 30 per 40 centimetri contiene all’incirca tremila gure.
4 L’incisione Trinità dei Monti (1968) potrebbe essere ancora une allusione crittata dell’analogia corpo-paesaggio. Rosa, sdraiata, si pettina allo specchio. Il suo riflesso si intravede ma anche una buona parte della città romana, come un’incisione nell’incisione. Il suo corpo riflesso viene prolungato a destra da una scogliera che segue la sagoma della sua pancia e cosce. A sinistra, si vede la facciata della chiesa di Trinità dei Monti. Questo convento francese poco distante della Villa Medici, ospita sul muro di un chiostro un’affresco in grisaille dipinto da Maignan nel 1642. L’affresco è un paesaggio cartografico di venti metri che raffigura lo stretto di Messina. Ma la baia, il porto, le scogliere scoscese nascondono il ritratto anamorfico di Saint François de Paule, un santo eremita che avrebbe soggiornato nei dintorni. Borsista alla Villa, Velly avrà sicuramente visto questa affresco. In questa deviazione sorprendente, Rosa partecipa al paesaggio di Roma, come Saint François de Paule è lo stretto di Messina.
5 Abbiamo sempre creduto che l’uomo era il maestro del mondo… Io non ci credo personalmente. Questa deificazione dell’uomo, questa supremazia dell’uomo sulla natura, sugli oggetti, sulle cose, mi rimane sullo stomaco! Perché lo trovo ingiusto. Sarebbe troppo facile! ...di sbarcare così e dire : « Noi siamo i più forti, siamo i più intelligenti… nostra civiltà è la più alta… No, in questa specie de natura, mi piace paragonare l’uomo all’insetto. Non per degradare l’uomo, ma può darsi per rivalutare l’insetto, la pianta… il sasso, perché no?
Intervista con Michel Random in occasione della ripresa del film l’Art Visionnaire, 1975