Jean Leymarie
Aldila del tempo
Galleria Don Chisciotte, Rome 1984
Nel 1970, dopo essere stato ospite di Villa Medici, Jean-Pierre Velly, conquistato a sua volta dall’Italia, si stabilisce con la sua famiglia in un vecchio paese vicino Roma. Il luogo, su un’ antico territorio etrusco, fuori dal turismo, impone la sua rude grandezza e una continuità millenaria. Per affrontare in questo modo l’alta solitudine indispensabile ai creatori esigenti, bisognava essere sicuro della propria vocazione e portare in se stessi il proprio universo. Velly, di origine bretone, nato verso la Punta del Raz, è sposato con una donna catalana, polo mediterraneo complementare. Dall’inizio della sua permanenza in Italia, egli riceve gli incoraggiamenti e l’appoggio materno di una galleria romana, il cui proprietario, diventato amico, si appassiona del suo lavoro, mostrando periodicamente i risultati.
Velly inizia essenzialmente come incisore e il catalogo della sua opera tra il 1961 e il 1980 comprende una successione di 82 incisioni e acqueforti che colpiscono immediatamente per il rigore arcaico del mestiere e la tensione apocalittica e moderna del contenuto. Mario Praz, nella sua introduzione, le collega alle fonti nordiche e germaniche, alla corrente della tradizione fantastica che raggiunge il suo apice alla fine del Medioevo e durante la crisi manierista. Egli cita, tra i riferimenti maggiori, Schongauer, Dürer, Bosch, Spranger, ai quali bisogna aggiungere due incisori visionari, molto strani, l’ineguagliabile Hercules Seghers, da cui Rembrandt fu affascinato, e il bohême girovago del Romanticismo, Rodolphe Bresdin, amico di Baudelaire e maestro di Odilon Redon. Velly riprende dal primo la geologia devastata, dal secondo la drammaturgia silvestre e gli spettri notturni. Le sue tavole, di cui gli esegeti dovranno decifrare la sintassi cumulativa e la profusione simbolica, hanno come temi il grottesco, le metamorfosi, i baratri, gli ibridi, i massacri, i cataclismi, la mostruosa asfissia della vita organica procurata dalla proliferazione meccanica. A volte, il corpo e il viso amati della donna assistono all’incubo planetario e ne subiscono i tormenti. La perfezione artigianale del particolare si integra al ritmo grandioso dell’insieme.
Da tre o quattro anni Velly ha rinunciato al linguaggio del bianco e nero che prima gli sembrava consustanziale alla spinta onirica, e si orienta verso il colore diffuso e la visione naturale. In un movimento non di espansione ma di decantazione. Due serie transitorie dei suoi disegni e acquerelli sono state pubblicate in album, uno, con una prefazione di Leonardo Sciascia, per illustrare Corbière, l’altro, con degli scoli di se stesso, per evocare e ridar vita al “Bestiaire perdu”. Del suo compatriota bretone Tristan Corbière, il più puro e il più attuale dei poeti maledetti riabilitati da Verlaine, egli sceglie quelle gemme assolute che sono i “Rondels pour Après”, rivelando così la sua sensibilità personale e le sue affinità profonde. La loro musica squisita e funebre di ninna-nanna ci raggiunge attraverso il cielo e il mare immensi, come il mormorio delle Ys inabissate. Il poeta rifiutato, ferito dalla vita è assolto dalla morte che lo restituisce all’infanzia, al seno materno della terra, alla veglia dei “fiori di tomba”. Dopo la redenzione della figura umana sotto le spoglie del paria, Velly salva e consacra del regno animale le bestie rifiutate, torturate, annientate: insetti, topi, girini, pipistrelli. Due delle immagini del suo Bestiaire de pitié mostrano la cetonia e lo scarabeo dai riflessi metallici accanto a mazzi di fiori con bagliori fosforescenti.
I fiori si separano dai coleotteri e inaugurano nel 1980 il gruppo inedito degli acquerelli autonomi dal tono vegetale proposti qui al pubblico romano e meravigliosamente commentati da Alberto Moravia. Quest’ultimo sottolinea il loro tenore estetico e spirituale, mette in luce il loro posto originale nel corso di un’opera che fonda la propria unità sull’oscillazione ineluttabile tra il finito e l’infinito, l’umano e il disumano, l’effimero e l’eterno. L’acquerello dalle flessioni aeree è la tecnica stessa della pittura cinese in cui predominano il paesaggio e gli emblemi vegetali. Esso acquisisce in Europa la sua piena indipendenza e la fluidità luminosa soltanto nell’Ottocento, con Turner sul versante nordico e Cézanne sul versante latino. La sua libertà presuppone la padronanza del disegno. Dürer, il cui genio fondamentalmente grafico è per Velly l’esempio supremo, ha creato degli acquerelli sulla natura, insoliti ai suoi tempi, che rimangono i prototipi e la più alta espressione del genere e, per i giovani artisti contemporanei, delle incitazioni inaudite a riscoprire la densità del reale.
Preoccupato di appoggiarsi materialmente anche sul passato, Velly ricorre alla bella carta antica e la stropiccia prima di usarla. Ha cominciato con degli acquerelli di fiori, mazzi di lunaria, buganvillee o campanule. Le loro campanelle porpora, le loro brattee d’argento si inscrivono su degli sfondi luminescenti, la cui natura resta incerta tra il diurno e il notturno. I fiori sbocciano e periscono come le brevi e rinnovabili meraviglie della natura e una tra esse, la sassifraga delle rocce, viene detta a ragione la disperazione dei pittori, che si estenuano nello sforzo di riprodurre le sue sfumature delicate. Dai fiori troppo preziosi, dalle tinte calde, benché smorzate, Velly passa alle erbe semplici e alle piante di campo dalle tonalità basse e fredde. Esse si drizzano in fasci o si stendono in piano, non all’interno, ma all’aperto, nell’intero spazio e nel suo spiegamento turneriano. C’è una riduzione del motivo e una apertura atmosferica. Velly si rivela raffinato colorista quanto disegnatore meticoloso, su degli accordi di verde pallido spezzato di giallo e punteggiato di rosso. Gli steli ramificati e le foglie veridicamente trascritte nelle loro più piccole dentellature hanno come supporto curvo o teso, vicino o lontano, una fascia di terra cinerea sotto l’arcata vibrante del cielo.
Questi acquerelli di fiori e di piante sfuggono alla specializzazione tradizionale del genere e alle categorie della natura morta. Essi suscitano una meditazione silenziosa sul mistero vegetale e la sua risonanza umana, sui contrasti tra le forme vulnerabili della vita e la permanenza cosmica degli elementi. Nell’Intermezzo mirabilmente tradotto da Gérard de Nerval, Henri Heine chiede, trafitto dal dolore “perché le rose sono così pallide?”, quando altri poeti intorno a lui le vedono ancora splendere. La dispersione della luce è più grave oggi di allora. Eppure, “le erbe al vento” e “il fioricino pallido” associati da Corbière alle tombe non cessano di incarnare la bellezza concreta del mondo e gli effluvi dell’anima. Nel febbraio 1921, Rilke, cantore dei fiori, riceve, come messaggio d’amore e di rinascita primaverile, un delizioso mazzo di fiori inviatogli da una pittrice. Egli ringrazia partecipandole le sue bellissime riflessioni sul senso attuale dell’arte, sulla scomparsa del soggetto, di cui ammette le ragioni, pur essendone turbato. Egli preferisce attenersi alla visione primordiale e alla realtà quotidiana. “Io, dice, partendo da piccole primule, posso ricominciare da capo; in verità nulla mi impedisce di trovare ogni cosa inesauribile ed intatta: dove l’arte potrebbe prendere spunto se non in questa gioia e in questa tensione di un inizio infinito”. Velly si è avviato con lealtà, alle soglie della maturità, in un contesto ormai propizio, su questa strada umile e plenaria.
Jean Leymarie, 1984