Alberto Moravia
Jean-Pierre Velly
Galleria Don Chisciotte, Roma, 1982
All’origine degli acquerelli e degli oli di Jean-Pierre Velly sta una sensibilità di genere nordico e gotico che trova molto naturalmente i suoi modelli ideali nelle opere di Dürer e di Bosch. Al primo, Velly si riallaccia con un segno insieme nitido e folto, fertile in particolari la cui precisione produce un effetto di allucinante proliferazione; al secondo, con uno sforzo compositivo rivolto a creare mondi fantastici nei quali i mostri del sogno si fondono con quelli della veglia. Il reale appare, in queste incisioni, come una specie di gelatina di forme aggrovigliate in se stesse e tuttavia esattamente delineate grazie alle quali il pittore può passare dal naturale all’umano e da questo al disumano in una continua metamorfosi che lascia intravedere una mente e una fantasia portate irresistibilmente alla metafora e al simbolo.Il segno di Velly ora si accanisce su una conchiglia, su un fiore; oppure dà spazio, respiro e mistero a vasti cieli sognanti o minacciosi, a lugubri distese di flutti marini increspati da una sinistra bonaccia. Spesso il particolare definito con gotica esattezza e l’universale evocato con romantica vaghezza sono riuniti insieme in composizioni al tempo stesso disastrose e incantate.
In primo piano ci saranno catastrofici cimiteri di automobili o mucchi ripugnanti di detriti industriali, in secondo piano paesaggi sterminati, luminosi e indifferenti. Oppure il ventre di una figura femminile erutterà per l’aria una colonna di oggetti eterocliti: la civiltà industriale scimmioteggia la creazione naturale. Ad ogni modo, già nelle incisioni appare la dicotomia caratteristica di Velly : la presenza contemporanea non contrastante del definito e dell’infinito. Il finito è tutto ciò che sta in primo piano, così nel tempo come nello spazio ; l’infinito sono le immensità naturali che sfumano e si mutano in immensità spirituali. Il finito ci è contemporaneo, l’infinito era prima di noi e resterà dopo di noi.Tra le tante incisioni vogliamo fermare la nostra attenzione su quella intitolata Les temples de la nuit che risale al 1979 cioè ad un’epoca abbastanza recente. Vi si vede nel solito primo piano « finito » una donna che come la Dafne del mito sembra che stia per mutarsi in albero. La donna arieggia il consueto prototipo dureriano che Velly predilige : corpo formoso, muscoloso, possente, volto severo di Sibilla. Dal corpo della donna, soprattutto dalle braccia, dal collo, dal seno si dipartono i rami dell’albero, nel quale ben presto si troverà trasformata. La donna sta distesa, la sua figura sbarra tutto il primo piano della rappresentazione. L’infinito, anche qui, è rappresentato da un mare notturno e malinconico, le cui onde sembrano andare a ritroso partendo dalla donna e dirigendosi verso un astro misterioso, circondato da un alone luminescente. Dall’alone piovono sul mare e sulla donna-albero, a miriadi, gocce di luce brillante e vitrea. Ci siamo soffermati su Les temples de la nuit perché qui è già in «luce» l’idea o meglio la metafora che trionferà negli acquerelli dal 1980 ad oggi.
L’idea o meglio la metafora è che in cospetto all’infinito, o se si preferisce all’eternità, l’uomo è proprio quell’erba dei campi di cui parla il Vangelo; l’uomo è proprio quel «roseau pensant» di cui parla Pascal, infinitamente fragile, irrimediabilmente caduco, e pur tuttavia dotato di una forma pensata cioè finita a cui l’infinito non può aspirare.Naturalmente non diciamo che Velly sia stato portato a sviluppare consapevolmente partendo da Les temples de la nuit, la metafora del vegetale effimero allusivo alla fragilità e caducità umane, diciamo che nell’incisione si annunzia già lo schema che sta per prevalere negli acquerelli : fiori, rami, piante, erbe situati in primo piani; e il mare e il cielo riuniti in un solo spazio spirituale, in secondo piano. Perché poi il baudelairiano «végétal irrégulier» abbia prevalso su i tanti oggetti che gremivano i primi piani delle incisioni, questo ci pare dovuto ad una progressiva decantazione della dicotomia di finito e infinito la cui rappresentazione Velly sembra perseguire fin dagli inizi della sua opera.
Che c’è infatti di più finito del fiore? La sua stessa caducità lo costringe ad una rapida quasi immediata perfezione.E adesso che lo schema si è chiarito così nella nostra mente come in quella di Velly, guardiamo pure agli acquerelli con l’occhio che sa fermarsi sul dettaglio. Si veda, per esempio, come questi rami e rametti, questi fiori, fiorellini e fiorucci, queste foglie e foglioline sono evocati con mano ferma e testa attenzione a pochi momenti dalla loro morte. Il pennello ha seguito il ramoscello dalla forma incerta ma rosso come il sangue, fino alle sue più aeree e trasparenti propaggini; le foglie che stanno appiccate su questi rami sono anch’esse colte in maniere esistenziale; alcune perfette, altre un po’ accartocciate, altre ancora mangiate dagli insetti o da qualche malattia. Non ci troviamo davanti ad una pianta da tavola di trattato di botanica; ma ad una pianta viva di un significato che la trascende. Questa pianta con il suo significato, questo «roseau pensant» è gettato, abbandonato, proiettato su una soglia oltre la quale c’è il mistero di un mare calmo i cui confini sfumano in un cielo immenso e vaporoso.
Velly ha reso il mistero dell’infinito tanto più misterioso grazie alla precisione delicata con cui ha rappresentato il mistero parallelo e contemporaneo del finito. Si veda come predilige certe fluorescenze in forma di campanule diafane, oppure a gocce brillanti di rugiada, oppure ancora di minime lanterne di carta oliata. L’apparenza di questi fiori, di queste piante, di queste erbe di Velly ci parla di una fragilità estrema ; e tuttavia sentiamo che la spinta vitale che ha prodotto questi miracoli vegetali è pur sempre in atto e appena i fiori, le piante, le erbe saranno appassite e morte, altre ne saranno prodotte come a sfidarne l’eterno, fatale e malinconico enigma degli sterminati spazi celesti e marini. Dunque seguendo la metafora, il rapporto tra finito e infinito è eterno, l’uno non può esistere senza l’altro. La strada di Velly, da Dürer e Bosch a se stesso è anche la strada che dalla invenzione dei mostri e delle catastrofi l’ha portato alla contemplazione dei fiori e delle piante adoperate come metafora proprio di quei mostri e di quelle catastrofi. La stessa mano che un tempo aveva messo in primo piano gli orrori del presente adesso, con la stessa intenzione, ferma l’umile vita vegetale nel suo divenire. Sono due cose diverse, apparentemente, ma la conquista e la vittoria stanno nell’essere riusciti a dire che sono la stessa cosa.