La discesa agli inferi di Jean-Pierre Velly
Nirjan (Flavio Corvisieri)
Con mortuis in lingua mortua
« I Visionari? Non c’entra il prevedere il futuro, non vi ha niente a che fare... Riguarda lo scoprire la verità, la tua verità (...) Tutti i visionari sono dei mistici... » affermava Jean-Pierre Velly in un’appassionata conversazione con Jacques Le Maréchal ed altri, compreso la moglie Rosa, a casa di Michel Random, alla vigilia della pubblicazione del libro l’Art Visionnaire di quest’ultimo. E diceva ad uno dei suoi interlocutori: «Allora vuoi che si arrivi ad una definizione di cosa sia un mistico ? Ovverosia: la mistica che cos’è? È entrare all’interno di sé, è discendere nei propri inferni ! Porca miseria! E questa è la cosa più dura del mondo: discendere nei propri inferni… Perché in seguito, come direbbe Michel Random, bisogna risorgere. E questo è un altro problema !» (1)
Consideriamo fondamentale comprendere a fondo cosa intendesse il grande incisore bretone con tale singolare affermazione, proferita in un contesto in cui intendeva chiarire il senso della loro, e soprattutto della sua, arte visionaria, in rapporto con la mistica e la ricerca interiore della verità, perché convinti che in quella discesa ai propri inferi si trovi una chiave di lettura adeguata alla dimensione melanconicamente saturnina di cui sono intrise le sue opere, dolorosi baratri d’ombra in cui si presagiscono spesso meravigliose albeggianti luminosità. Il suo modo di vedere le cose era più che inclinato al misticismo, e in molti hanno percepito, in quelle atmosfere apocalittiche che si offrono a noi come soggetti da contemplare e meditare, nel suo scavare nella morte per far vibrare più intensamente la vita, qualcosa di simile ad una ricerca alchemica. Lo stesso Michel Random, convinto promotore dell’Arte Visionaria, che nutriva un costante interesse per il misticismo e per le conoscenze esoteriche, compiacendosi della sensibilità spirituale dell’amico Velly, nelle preziosissime interviste che gli fece cercò a più riprese di spingerlo a confessare l’inserimento di tematiche e simboli alchemici dentro le sue incisioni. Le risposte che ottenne dall’artista sono di sibillina chiarezza, attente a dire e non dire, piene di significato ma sempre altrettanto elusive e indirette. Velly sembra ad ogni modo non essere interessato ad un uso troppo volontario e calcolato dei simboli, perché scontato, e quindi inadeguato a svolgere quella funzione chiave per la conoscenza di sé stessi e degli altri che attribuiva essenzialmente al suo lavoro: « Non lo so, per me… vedrei tutto ciò in un modo, diciamo, meno... meno... esoterico… Stando giustamente davanti al tuo specchio alchemico che potrebbe essere la tela, il foglio di carta bianca o il rame e, senza barare, dico senza barare…è difficile… senza barare… E bene, tu ti spieghi te stesso, tu spieghi gli altri, e capisci, poco a poco…ci vuole molto tempo … poco a poco, quello che succede. E finisci per dirti che - quello che ti dicevo prima - che il topo ... che ... bene, non è la ricerca alchemica... Potrebbe essere un simbolo, la trasformazione del piombo in oro…» (2)
Leggendo via via queste interviste si ha l’impressione che sia l’intervistato, benché si esprima con una certa reticenza, a comprendere il senso vero dei simboli, la loro viva funzione di comunicazione col profondo, mentre l’intervistatore ne abbia una mera conoscenza libresca, e che sia tale l’«esoterismo» dal quale il primo prende criticamente le distanze.
Si rimane in ogni caso perplessi di fronte all’ambiguità che regna nelle risposte dell’artista: dichiara categoricamente di “non essere assolutamente un iniziato e di non conoscere nulla del simbolismo alchemico”, quando comunque sovente vi allude nella stessa intervista; poi sostiene, come se parlasse per esperienza, che “se uno è
stato iniziato possiede le chiavi dei simboli che gli permettono di leggere la tela”, ma conclude la frase ripetendo che lui preferirebbe “un’emozione diretta senza chiave.” Salvo ricordare disinvoltamente, poche battute dopo, come gli sia capitato di ritrarre delle cose di cui avrebbe ricevuto la chiave per comprenderle solo alcuni anni dopo, anche se di ciò non vorrebbe vantarsi. Vantarsi cioè di essere un iniziato?(3) La dinamica che in effetti si può ricostruire guardando attentamente a simili risposte, tra creazione spontanea e ispirata e successiva interpretazione - presa di coscienza, descriverebbe fin troppo bene il lavoro interiore con l’imaginatio vera proprio dei filosofi ermetici, per i quali l’immaginazione è quel Mercurio, messaggero e interprete, che consente la comunicazione col trascendente.
Che Velly si sia istintivamente imbattuto attraverso la ricerca artistica in qualcosa di raffrontabile in termini psicologici al processo alchemico, o abbia praticato consapevolmente l’alchimia e non lo abbia manifestato, per mantenere il caratteristico riserbo dei veri iniziati, pensiamo valga veramente la pena di cercare di offrire una lettura del suo lascito in relazione al simbolismo della Grande Opera. Ricordiamo che la prima notturna fase di essa, l’opus nigrum o nigredo, cioè l’opera al nero, viene descritta proprio come interiore discesa agli inferi, espressamente indicata col termine “melanconia”.
«Primo denigrare […]. Nigredo (significat) malancholiam» assicurano i trattati alchemici, «Colorum primus est nigredo saturnia» (4)
Maurizio Calvesi nel suo celebre saggio nel quale proponeva una lettura alchemica del capolavoro di Albrecht Dürer Melencolia I, spiega così il tenebroso regime di Saturno:
[…] la nigredo o melanosi, che è la travagliata, oscura, angosciosa condizione di partenza dell’opus, corrisponderebbe alla afflictio animae di cui parla Morienus (VII secolo) nel trattato alchimistico che da lui prende il nome: “Oltremodo stretto è l’accesso alla pace e alla conoscenza, dono di questa scienza divina occultata agli uomini […] e nessuno può entrarvi se non per mezzo della sofferenza dell’anima” (nisi per animae afflictionem) […] La nigredo è il momento notturno, della separatio, della putrefazione, della “discesa agli inferi”, è lo stato di morte da cui si deve risorgere.(5)
Si può rimanere sorpresi per quanto queste parole rassomiglino a quelle pronunciate da Velly ai suoi amici, ma si riceve l’impressione profonda che la corrispondenza non sia casuale soprattutto considerando come il repertorio di immagini adoperate correntemente dai filosofi ermetici in relazione all’opera al nero - melancholia, nigredo, nox, putrefactio, pregnatio, sputum (Panteo)(6); mestruo, immondizia, immondizia del morto, tenebre, Tartaro (Filalete)(7) – sembri prendere plasticamente corpo nelle sue incisioni.
Pensiamo sia lecito chiedersi, a questo punto, se quella ossessiva meditazione sulla morte, che esse in gran parte costituiscono, avesse un orientamento preciso, il medesimo dell’insegnamento ermetico: la putrefazione della vecchia forma come prima tappa necessaria di un cammino di rigenerazione e liberazione dell’anima caduta nella dimensione più lontana da quella divina, scesa all’ultimo gradino della scala della manifestazione, ove l’emanazione originale si è completamente coagulata. Qui, secondo tale dottrina, essa è prigioniera e incatenata nel più denso, pesante e inerte degli elementi, la fredda e secca terra dominata da Saturno, signore del tempo e della cristallizzazione. Immerso nel torpore della corporeità e soggetto all’illusione dicotomica del mondo fenomenico, l’adepto dovrà così rivolgersi a Saturno per sfuggire a Saturno, incontrare la terribile notte della melanconia alchemica per liberarsi dalla melanconia dell’esistenza separata, morire iniziaticamente per purificarsi, disidentificarsi da ciò che in lui vi è di perituro per rinascere rigenerato. (8)
Pernety nel suo celebre Dictionnaire d’alchimia, afferma: «La putrefazione è tanto efficace che distrugge la vecchia natura e la forma del corpo putrefatto; essa la trasmuta in un nuovo modo d’essere, per farle produrre un frutto completamente nuovo. Tutto ciò che è vivo muore; tutto ciò che è morto si putrefà, e trova una nuova vita.»(9) E Flamel ne Il libro delle figure geroglifiche ricorda: « […] la materia si dissolve, si corrompe, annerisce e concepisce per generare: poiché ogni corruzione è generazione, e si deve sempre bramare tale nerezza. Se non c’è putrefazione venendo a mancare la corruzione nulla si genera.» Un invito a cui l’artista sembra aver profondamente aderito, traducendolo espressivamente nelle due versioni di Maternité (10) (fig. 2).
Comprendiamo bene che chi non abbia familiarità col linguaggio dell’alchimia e con la sua letteratura, immancabilmente crederà di ravvisare in un simile tipo di raffigurazioni gli amari e allucinati frutti d’inquietudini contemporanee materializzati dalla mano di un grande artista, dei fiori grandiosi e malati cresciuti dai tormenti personali e collettivi tipici dei nostri giorni e coltivati con maestria da una grandissima sensibilità interprete del nostro tempo. Ma c’è motivo di credere che la sofferenza e l’apparente ossessione velliniana per la morte e la decomposizione non siano quelle di un Bacon o di un Music, e che si tratti invece proprio della speciale attenzione rivolta dagli alchimisti alla distruzione quale necessità imprescindibile per il rinnovamento e la rinascita. Come tutti gli altri figli di Mercurio, Paracelo insiste su questo punto nel De Natura Rerum Libri Novem:
La putrefazione, infatti, produce grandi cose, e di ciò abbiamo un bell’esempio nel sacro Vangelo, là dove Cristo dice: “Se il chicco di grano non viene gettato nella terra e non putrefà, non può produrre cento frutti”. Si deve comprendere da ciò che con la putrefazione molte cose si moltiplicano, così da generare un nobile frutto. Infatti, la putrefazione è trasformazione e morte di tutte le cose e distruzione della prima essenza di ogni cosa naturale, per cui si produce la rigenerazione e una nuova generazione, mille volte migliore. Pertanto, poiché la putrefazione è il primo grado e l’inizio per la generazione, è estremamente necessario che noi lo conosciamo bene. (11)
Conoscere bene la putrefazione. Potrebbe proprio essere questa la misteriosa e terribile necessità che ha spinto il maestro di Audierne a lasciarci un così vasto ed enigmatico campionario di corruzioni organiche? In tale apparente follia sembra esservi un metodo, basti osservare come le sue oscure incisioni potrebbero illustrare spesso brillantemente i testi della tradizione alchemica. Quando leggiamo ad esempio nelle Clefs de la Philosophie Spagyrique di Le Breton che «ci sono quattro putrefazioni nell’Opera Filosofica. […] In ciascuna di queste putrefazioni si manifesta il colore nero» (12), non possiamo non pensare alle quattro Metamorfosi di Velly (figg. 3, 4, 5, 6), incisioni nelle quali questo tema, che è l’anima stessa della ricerca alchemica, viene declinato esattamente secondo i quattro elementi: la I° per la Terra, indicata dal fossato che la contiene; la II° per il Fuoco, con la sua spinta ascensionale e le sue lingue chiaramente visibili; la III° per l’Aria, che soffia dall’angolo in basso a destra, con anatre e uccelli; la IV° per l’Acqua, con la fluidità delle sue forme, che sfociano in un golfo marino, nell’angolo destro del lato inferiore. In effetti, analizzandola in questa prospettiva, l’intera produzione del grande incisore apparirebbe utilizzare propriamente i temi e il patrimonio d’immagini dell’opus alchymicum, seguendone il graduale svolgimento con impressionante corrispondenza.
È stata la lastra di rame letteralmente il suo specchio alchemico, più di quanto lo stesso Random si sarebbe mai potuto aspettare, nella ricerca di simili riscontri? Se fosse così, ci troveremmo probabilmente di fronte ad un unicum nella storia dell’arte, in cui l’antica dottrina ermetica avrebbe incontrato l’assoluta libertà espressiva di cui può godere un artista contemporaneo, unita al rigore e alle propizie circostanze della sua vita che gli permisero di preservare incontaminata quella libertà. In questa sede dobbiamo limitarci a prendere in esame soltanto alcune delle sue incisioni, e quel tanto che basta per indicare la loro generale aderenza al processo alchemico.
Riteniamo tuttavia necessario rispondere a delle prime prevedibili obiezioni al nostro assunto: la prima è che un eventuale coinvolgimento dell’artista nella ricerca alchemica presupporrebbe l’esistenza di una strumentazione da laboratorio chimico e, per quanto lo studio di Velly ricordasse da vicino quello di un antico alchimista, a tal punto da costringere quasi tutti i visitatori a farne memoria proprio in questi termini, con il suo aspetto da cripta, i suoi reperti animali e vegetali e gli altri singolari modelli che l’affollavano(13), di simili specifici e ingombranti dispositivi non vi é comunque testimonianza. Ma si tratta di un problema facilmente risolvibile, essendo risaputo che fin dal XVII secolo fu concepita dai Rosacroce quell’alchimia filosofica, da allora maggiormente diffusa, la quale si richiama all’antico simbolismo ermetico trasponendo in chiave psichica tutte le modalità operative, atteggiamento analogo a quello seguito dalla Massoneria, che ne fu sicuramente erede.(14)
Ci si potrebbe chiedere poi, se fosse vera la nostra ipotesi, perché mai nella produzione di Velly appaiano assenti, con la sola vistosa eccezione di Arbre (fig. 7), figure cifre e simboli ideografici appartenenti alle filosofie mistiche od occulte. A questo interrogativo rispondiamo puntualizzando che in verità non ci si dovrebbe aspettare necessariamente da parte sua simili inclusioni, come invece troviamo in Mordechai Moreh, suo grande amico, il quale infarcisce le proprie creazioni di espliciti simboli alchemici e cabalistici: fino alla fine del XIX secolo essi erano riservati ai documenti scritti di quelle dottrine e comincia la loro irruzione nelle arti figurative solo a partire dai dadaisti e dai surrealisti, ammiratori entusiasti e suggestionati dell’esoterismo, estranei però ad una vera dimensione iniziatica.
Velly, in profondo accordo col suo modo d’essere, sembra praticare un linguaggio più vicino a quello degli antichi maestri seguaci della via ermetica, nei quali il simbolismo è sempre incarnato in immagini pittoriche ed è riconoscibile solo dal fruitore che sappia interpretarle. Anche se, rispetto alla tradizione, certamente il suo simbolismo è più personalizzato, e ci dona la potente emozione di farci partecipare direttamente al suo intimo autentico tentativo di comunicazione col mondo archetipico, alla sua “Chiave dei Sogni”, senza dover, se così si può dire, rendere conto all’iconografia ufficiale, come evidentemente si doveva fare in altri tempi. Altro fatto particolarissimo del linguaggio di Velly è che nelle sue opere intervengano riferimenti meta-iconografici, sottili, ma assolutamente rilevanti per intenderne a pieno il senso, pregnanti citazioni e allusioni che ne integrano il messaggio, stabilendo un continuo dialogo coi suoi più amati maestri e intessendo connessioni fra le sue stesse incisioni. Proveremo ad offrirne alcuni esempi ritornando sul nostro infernale tema.
Melencolia I - Misero I - Grotesque I
Sul registro della malinconia con sicurezza magistrale l’appena ventiduenne Jean-Pierre Velly è già capace di orchestrare i sui primi bulini in una complessa partitura: per la creazione della serie di sei incisioni intitolate Grotesque, e in Illustration pour un conte, Chute, Bébé Vieillard e Acrobate, prende significativamente a modello la prima immagine del cosiddetto “Tarocco del Mantegna”, serie di trionfi opera di un ignoto maestro ferrarese della seconda metà del XV secolo.(15) Tale primo trionfo che raffigura un vecchio afflitto e pensoso ed è intitolato Misero I (fig. 8), è una genuina ed emblematica immagine melanconica, rigorosamente saturnina : l’influenza di Saturno, sostiene Giovan Paolo Lomazzo nell’Idea del tempio della pittura, conferisce ai corpi e agli animi «gravità» oppure «miseria»(16), e sappiamo che «il mitico Crono era contraddistinto da un aspetto ben definito: una vecchiaia triste o meditabonda.»(17) Mentre nell’illustrazione della Malinconia offerta dall’ Iconologia di Cesare Ripa (fig. 9), possiamo dire praticamente di ritrovarvelo minuziosamente descritto:
«Fa la Malinconia nell’huomo, (il quale è un ritratto di tutto ‘l Mondo) quegli effetti i stessi che fa la forza del Verno ne gli alberi et nelle piante, le quali, agitate da diversi venti, tormentate dal freddo et ricoperti dalle nevi, appariscono secchi, sterili, nude et di vilissimo prezzo, però non è alcuno che non fugga, come cosa dispiacevole la conversatione de gli huomini malinconici. Vanno essi co ‘l pensiero sempre nelle cose difficili et quei rischi cattivi, li quali sarebbe mera et somma disgratia se avvenissero, essi se li fingono presenti et reali, il che mostrano i segni della mestitia et del dolore. È mal vestita (la Malinconia), senza ornamento per la conformità de gli alberi senza foglie et senza frutti, non alzando mai tanto l’animo il malinconico che pensi a procurarsi le commodità per stare in continova cura di sfuggire o di provedere a’ mali che s’imagina esser vicini. Il Sasso medesimamente, ove si posa, dimostra che il Malinconico è duro et sterile di parole et di opere per sé et per altri, come il Sasso che non produce herba, né lascia che la produca la terra, che gli sta sotto. » (18 )
Le opere che Velly si è impegnato a derivare da Misero I assumono ugualmente il valore di icone della malinconia, e l’artista nel declinare l’antico modello nelle diverse incisioni mostra di possedere la sapienza e il rigore iconologico che poteva avere un artista del Medioevo o del Rinascimento (come si può immediatamente constatare, per esempio, l’ultima frase del passo del Ripa appena citato sul sasso ove si posa il malinconico, si attaglia meglio alle sue incisioni che al trionfo ferrarese). Malgrado stiamo trattando probabilmente del più grande incisore contemporaneo, la prospettiva da adottare per intendere il suo messaggio è molto lontana dall’ordinaria mentalità moderna. D’altronde lo strano bretone anticonformista e geniale non era un uomo della sua epoca e per capire la sua Malinconia si dovrebbe scavare profondamente in quella degli antichi maestri coi quali assiduamente interloquisce. Cerchiamo così di farlo osservando ancora la triste figura di Misero I in relazione al suo contesto: essa introduce la successione regolarmente numerata delle immagini dei trionfi, al modo delle carte da gioco, la quale vuol rappresentare con la teoria dei soggetti selezionati, un’allegorica ascesa fra i gradi sociali, poi fra quelli della conoscenza e della creazione, terminante con la Prima Causa. Percorso che, seguendo una prospettiva squisitamente ermetica, inizia dalla vecchiaia, dalla malinconica soggezione a Saturno-Chronos, e conduce alla dimensione al di là del tempo dell’origine. Come dice Pernety in un altro suo testo:
«Il Bacco Filosofico (cioè la materia alchemica) essendo pervenuto nell’opera alla putrefazione, la quale sembra come uno stato di vecchiaia e di morte, ringiovanisce e risuscita, per così dire, quando esce da questo stato. Ciò che fa dire a un Filosofo Ermetico: “Bisogna spogliare l’uomo vecchio, e rivestire l’uomo nuovo.” » (19)
E di questo percorso trasmutativo dalla plumbea saturnina vecchiaia - putrefazione alla rigenerazione ci parla anche Oswald Wirth :
[…] il Piombo di Saturno è per gli Ermetisti il fondamento della loro Arte. Questo vile metallo racchiude l’Oro in potenza. Il Saggio lo mette in opera, in quanto è maturo per la trasmutazione, al pari del vegliardo pronto al ringiovanimento naturale che si produce con l’opera alchemica della dissoluzione del corpo, processo di rinnovamento di cui non ha timore l’Iniziato che si definisce “Figlio della Putrefazione”. (20)
Melanconia, putrefazione, uguale opera al nero, Velly sembra usare il linguaggio classico dell’alchimia. A proposito di Melencolia I di Dürer (fig. 10) leggiamo ancora in Calvesi : «Esiste dunque una melanconia dell’alchimista, corrispondente alla nigredo, cui equivale. Che il riferimento di Dürer fosse a questa melanconia, è ulteriormente chiarito dal numerativo: I. La nigredo, infatti (o dunque melanconia) è la prima fase dell’ opus e denota il primo colore che appare all’alchimista, se ben orientato nello svolgimento del processo».(21) Melencolia I, quell’altra melencolia che è Misero I e Grotesque I (fig. 11), la prima delle incisioni di Velly da quest’ultimo derivata, celano lo stesso segreto e hanno in comune il numerativo « I » perché denotano lo stesso nero punto di partenza, quella discesa nelle tenebre dell’Ade assolutamente necessaria per risalire al mondo della luce. Sicuramente potrebbe parere strano che la malinconia, per noi un sentimento come un altro, per la scienza antica l’umore che determina una specifica complessione, nel linguaggio codificato dell’ermetismo corrisponda senza eccezioni all’iniziatico viaggio agli inferi. Ma Marsilio Ficino sapeva bene di non poter essere frainteso da quelli a cui veramente si rivolgeva, quando in quel sottilissimo trattato sugli arcani del temperamento melanconico che è il De vita triplici, diceva che esso «obbliga il pensiero ad esplorare il centro dei suoi oggetti, poiché la bile nera è essa stessa simile al centro della Terra. Parimenti essa solleva il pensiero alla comprensione delle cose più elevate, poiché corrisponde al più alto dei pianeti.» Quod est inferius est sicut quod est superius, et quod est superius est sicut quod est inferius, secondo il celebre assioma di Ermete.
Mentre coincidono nell’indicare lo stesso punto di partenza, le tre incisioni differiscono invece perché Dürer non produsse altri soggetti numerati per le fasi successive alla nigredo, il trionfo ferrarese perché è il primo di ben 50 altri trionfi, in cui in un modo avvicinabile a quello dei tarocchi si cerca di illustrare tutto il processo trasmutativo, e Grotesque I perché Velly insiste reiteratamente sullo stesso soggetto fino ad arrivare a Grotesque VI, il che a tutta prima si direbbe una scelta piuttosto curiosa. Ma ipotizziamo anche qui da parte del suo autore un intento preciso: lasciare il settimo posto, essendo il sette il numero di Saturno, ad Illustration pour un conte, la melanconica donna-demone che, come vedremo, è una più esplicita allusione alla discesa nel mondo infernale.
Ma vediamo ora in dettaglio a quale profondità il maestro contemporaneo dialoghi con l’anonimo maestro dei “Tarocchi del Mantegna”, la cui opera quasi certamente è irradiazione di quel formidabile umanistico crogiolo neoplatonico ed ermetico di studio sintesi e rielaborazione simbolica che fu la Ferrara di Pellegrino Prisciani: come asserivamo, la fisionomia base che ha ispirato quelle delle figure del sopra detto gruppo di dieci opere del primo periodo velliniano la riconosciamo nell’aspetto del vecchio e triste uomo dell’incisione ferrarese. Si riscontra subito nel volto corrucciato e offeso dall’età con un piccolo mento e una bocca taciturna, dominati dall’ampia rotondità della calotta cranica denudata da una calvizie assoluta, tratto fisiognomico tradizionalmente attribuito al temperamento melanconico quanto drammatica evidenziazione del teschio come sinistro e ineludibile richiamo alla morte. Anche la seminudità del suo corpo è ripresa da quella piena e impietosa delle figure di Velly. Nel caso dei Grotesques, poi, l’antico bulino è stato integralmente reinterpretato espressionisticamente, mantenendo comunque intatte le preziose indicazioni simboliche: l’allusione alla terrea e saturnina pesantezza, suggerita dalla schiena incurvata del composto soggetto quattrocentesco, diviene in questi, parossisticamente, uno schiacciamento al suolo incontrastabile, la sua aria meditabonda, prigioniera di plumbei pensieri, si traduce nell’assorbimento ottuso e quasi caricaturale delle loro espressioni; il paesaggio claustrofobico, desolato, arido e roccioso, è circa lo stesso, ma nelle incisioni velliniane addirittura quasi sparisce, coperto dai corpi in primo piano che tendono a riempire tutto lo spazio disponibile, evocando un tragico “inscatolamento” dell’essere nell’angusta cella della forma, mentre in Misero I un muro in rovina di blocchi squadrati, ricordava la soggezione della forma al tempo. Quanto ai bianchi alberi spogli indicanti la stagione di Saturno e lo stato iniziale del mercurio filosofico (materia dell’Opera), secondo il simbolismo ermetico che ha sempre osservato l’associazione dei significati di « selva » «legno» e «materia prima» dell’antico termine hyle, Velly li ha ritratti secchi e spezzati, con i rami all’ingiù, anche in questo caso aggiungendo enfasi, ma in perfetta concordanza con le intenzioni del suo modello.(22) Come pure sembra sapere perfettamente quello che fa quando sostituisce i cani presenti nel trionfo, simboli di Mercurio, con il serpente ugualmente associato al dio, e con altri animali che emblematizzano comunque virtù mercuriali nella loro doppia natura: i coleotteri che camminano sulla terra, ma che sono anche volatili, e il rospo, evidentemente un anfibio.
I l caso di Grotesque VI (fig. 12), l’ultimo della serie, si presenta molto interessante perché sovrapporrebbe sul primo un altro pregnante parallelo ermetico. Completamente rannicchiato come a inscriversi nel minor spazio possibile, l’uomo raffiguratovi assume una postura analoga a quella in cui, in The Book of Urizen, William Blake mostra ripiegato su se stesso lo scheletro di Urizen, l’intelletto raziocinante, sprofondato nell’oscurità di un “pietroso sonno”, dopo essersi separato dall’Eternità e dall’unità originaria e aver generato il mondo della caduta, nel quale diviene Satana(23) (fig. 13). Velly sintetizzando sapientemente Misero I e l’Urizen dormiente, assorbe nel suo soggetto tutta la profondità simbolica delle due figure, per rappresentare più compiutamente lo stato individualizzato, il sonno della coscienza pietrificata nella forma e nella materia, ma anche alludere alla capacità redentrice dell’immaginazione secondo il grande visionario inglese. La postura del soggetto richiama palesemente una posizione fetale che prelude a una rinascita.
In Illustration pour un conte (fig. 14), la figura ritratta è pure assolutamente melanconica e vi riscontriamo molti punti in comune con l’esordio della descrizione iconologica sempre della Malinconia del Ripa (fig. 9) : «Donna mesta et dogliosa, di brutti panni vestita, senza alcuno ornamento, starà a sedere sopra un sasso, co’ gomiti posati sopra i ginocchi et ambe le mani sotto ‘l mento, et vi sarà a canto un albero senza fronde et fra i sassi». Essa mostra ugualmente una certa somiglianza con le fattezze del volto del vecchio di Misero I (che risulti in controparte può confermare il debito), come nei particolari delle spalle ricurve con il collo proteso in avanti e il mento pensosamente appoggiato al dorso della mano, ma è trasformata in una specie di demone di sesso femminile, con tanto di corna aggiunte sulla fronte in modo da rimandare in maniera inequivocabile alla discesa agli inferi. Il titolo Illustration pour un conte, evidentemente da non prendersi in senso letterale, sembra invero un ammiccamento ad intendere il soggetto inciso non isolatamente, ma come parte di una storia. Il suggerimento, estendibile in definitiva all’intera opera del maestro che andrebbe vista secondo noi come la narrazione di un unico continuo processo, ci spinge a metterla in relazione con il gruppo d’incisioni apparentate che stiamo esaminando. Così facendo, infatti, la sua natura demoniaca svela un ulteriore senso adombrato nei Grotesques: giocando sul termine, derivato da grotta, l’autore ha voluto indicarci in essi nuovamente la via per gli inferi. Questi, come del resto tutti i numerosi soggetti precedentemente realizzati con paesaggi cavernosi e concavamente introiettati, potrebbero associarsi alla formula cara agli adepti Visita Inferiora Terrae Rectificando Inveniens Occultum Lapidem Veram Medicinam, acrostico del termine chiave VITRIOLVM, invito alla discesa nelle grotte dell’Ade, o nella propria interiorità, per scoprirvi la pietra filosofale, la vera medicina capace di trasformare ogni difetto, impurità o malattia, e liberare da quelle catene dell’anima esplicitate dall’artista nel grottesco abbrutimento delle figure.(24)
Le incisioni Bébé Vieillard (fig. 15), Chute e Acrobate (fig. 16), la prima che ripropone esattamente il tema del Paedogeron di Dürer (fig. 17), simbolo di unione dei contrari, o meglio della fondamentale unità della materia che permette ogni trasformazione(25), le altre due che illustrano la caduta dell’anima attraverso le sfere celesti fino alla dimensione della dura materia terrestre - completano la “famiglia” di soggetti derivati da Misero I, paragrafi di uno stesso capitolo di quel grande trattato per immagini che l’autore sembrerebbe tracciare sulla caduta dell’anima e sulla sua afflizione, sul modo di recuperarla alla sua vera natura celeste, passando per la morte iniziatica, articolato in quel potente gioco di rimandi che continua a portarci inesorabilmente avanti.
È infatti di notevole importanza che Velly abbia inciso inoltre, in questo stesso periodo, il malinconico soggetto della Vieille femme (fig. 18), stancamente distesa, con la fronte corrugata e la testa appoggiata alla mano, nel classico gesto che contraddistingue iconologicamente la melanconia. Quest’altra immagine di vecchiaia, che è una vecchiaia eminentemente interiore, per quanto apparentemente diversa, non può non ricordare nel senso di degrado e pesantezza, lo studio di Donna seduta del 1514 (fig. 19), prima idea del Dürer per la realizzazione del soggetto principale di Melencolia I, le cui chiavi appese alla cintura sono state mantenute nella straordinaria figura angelica definitiva, chiaro indizio della fondamentale identità del proposito simbolico sotteso a entrambe le figure di illustrare l’importanza della fase saturnina quale chiave dell’Opera e dei suoi tesori.
Seguendo il filo d’Arianna indicato dai riferimenti meta-iconografici analizzati sin qui, giungiamo infine all’incisione Trinità dei Monti (fig. 20), nella quale compare un piccolo ma consistente particolare preso in prestito dalla Melencolia I di Dürer: il celeberrimo ed enigmatico poliedro simile a un cubo con due angoli tronchi (fig. 21), che vi fa capolino, lontano ma riconoscibile (fig. 22), adagiato tra vari materiali e rifiuti abbandonati in quel dislivello erboso degradato a discarica, inserito dall’artista tra la figura in primo piano e l’affaccio prospettico sul lato della nota chiesa romana.
Il significato attribuitogli da Velly potremmo spiegarlo in relazione alla strana sorte occorsa nell’incisione all’obelisco antistante la chiesa, che è sprofondato nel terreno e lascia scorgere appena la propria sommità. Quel che se ne vede infatti appare come un cubo sormontato da una piramide (fig. 23), figura che è univocamente il simbolo della pietra filosofale (fig. 24). Quindi l’imperfetto cubo di pietra derivato da Dürer, verrebbe inteso ermeticamente come la pietra grezza (26) trasmutata nella perfezione del Lapis tramite il passaggio agli inferi, questa volta adombrato nella discesa dell’obelisco sotto il livello del suolo, nuova e grandiosa metafora della già ricordata formula Visita Inferiora Terrae Rectificando Inveniens Occultum Lapidem Veram Medicinam. E che si sia fatto dire ciò all’antico monolite egizio ha pure grande significato, vista la concordanza degli alchimisti nell’eleggere l’antico Egitto quale patria della loro tradizione.
Ma, invero, l’intera opera sembra intessuta dei simboli della Grande Arte: sull’altro lato dell’incisione una classica putrefazione velliniana si compone, dentro e attorno al cumulo aggrovigliato di materiale organico, di immagini significanti la materia prima durante l’opera al nero: gli alberi spogli, il profilo dissimulato di un asino, e il fumo che sale. Se l’asino, animale saturnino per antonomasia ci ricorda strettamente la nota allegoria di Basilio Valentino sull’animale sepolto sottoterra e putrefatto, la spessa coltre fumosa, elemento ricorrente in Velly, trova invece riscontro in diversi altri autori, tra cui Arnaldo da Villanova, che usa proprio il termine fumus per definire la sostanza della melanconia.(28)
Per quel che riguarda lo specchio, citeremo un brano di Fulcanelli, il più celebre dei moderni alchimisti, nel quale a dire il vero ritroviamo così tante immagini che ricordano questa incisione da farci interrogare se l’artista, elaborandola, non lo abbia tenuto presente, sicché, anche se ne renderà la lettura più faticosa, lo seguiremo passo a passo evidenziando i parallelismi riscontrabili: « Alchemicamente, la materia prima, quella che l’artista deve prescegliere per iniziare l’Opera, è chiamata Specchio dell’Arte. Moras de Respour ci dice: “Comunemente tra i Filosofi essa è indicata col nome di Specchio dell’Arte, perché è soprattutto per mezzo suo che si è conosciuta la composizione dei metalli nelle vene della terra… Così si dice soltanto l’indicazione proveniente dalla natura ci può istruire.” - Ora, nella composizione, vediamo la donna sdoppiarsi nello specchio forse non a caso, poiché in alchimia il mercurio, celebrato universalmente come materia prima soggetto dell’Opera, è femmina (e contiene al suo interno lo zolfo, maschio), e sempre rappresentato da figure muliebri, quindi lei è questo mercurio-specchio, da cui, in effetti, eloquentemente ci guarda... Fulcanelli continua: “È così che insegna anche il Cosmopolita, quando parla dello Zolfo: “Nel suo regno c’è uno specchio nel quale si può vedere tutto il mondo (nello specchio la donna vede riflesso oltre se stessa il panorama della città). Chiunque guardi in questo specchio può vedere ed imparare le tre parti del mondo, ed in questo modo diventerà assai sapiente in questi tre regni, come lo sono stati Aristotele, Avicenna e molti altri; i quali, come i loro predecessori, hanno potuto vedere in questo specchio in che modo è stato creato il mondo.” […]
Questo soggetto, così volgare e così disprezzato (il düreriano poliedro-pietra grezza gettato nella discarica), diventa in seguito l’Albero della Vita (se si guarda bene, dal poliedro cresce un minuscolo pino marittimo, in realtà la sagoma di un grande albero che dovrebbe trovarsi su un piano assai più distante, per indicare la lontananza della trasformazione finale), Elisir o Pietra Filosofale (raffigurata nella cima visibile dell’obelisco), capolavoro della natura aiutata dalla capacità umana, puro e ricco gioiello alchemico. Sintesi metallica assoluta che assicura al fortunato possessore di questo tesoro il triplo appannaggio del sapere, della ricchezza e della salute.»(29) Infine, proprio l’insistenza di questo brano sulle tre parti del mondo, i tre regni e il triplo conseguimento dell’iniziato sembra essersi tradotta nel tema dell’incisione: Trinità dei Monti.(30) In fondo alla veduta che fugge verso il Pincio, l’ultima cosa visibile sul foglio è Villa Medici, ove l’artista era pensionnaire mentre ne incideva la matrice in rame. Così l’ultima associazione nel gioco visionario di rimandi che abbiamo cercato di seguire sulle orme di Jean-Pierre Velly, finiamo per stabilirla noi, terminando dovutamente il nostro contributo alla comprensione della sua eccelsa opera con le sentite quanto ermetiche parole dell’allora Direttore dall’Accademia di Francia a Roma Jean-Marie Drot, a introduzione del catalogo della mostra organizzata proprio in Villa Medici tre anni dopo la sua scomparsa:
«Così, al di là dalla sua morte, Velly attesta che un vero artista, col suo lavoro di Penelope, grazie al suo dono di metamorfosi e di messa in orbita al di sopra delle devastazioni della vecchiaia e della putrefazione, può trionfare sul tempo, e anche alla fine della corsa, vincere sulla morte e ridicolizzarla, strappare una vittoria più certa, più definitiva soprattutto di quella promessa dai preti…
In breve, l’antico sogno degli Egizi ripreso da Velly nella sua fucina di Formello.»(31)
1. Conversazione registrata nel maggio 1979, svoltasi nella casa parigina di Michel Random, giornalista e critico d’arte (1933-2008), era il noto esperto del Grand Jeu. Ha girato per la televisione francese il documentario “l’Art Visionaire” nel 1975 e in seguito pubblicato l’omonimo libro nel 1979. Jacques Le Maréchal (1928) incisore e pittore fu per Velly uno dei suoi maestri. La conversazione è pubblicata nel sito: www.velly.org/avec_Le_Marechal.html. Le parole di Velly sulla discesa ai propri inferni ci hanno ispirato a intitolare la prima parte del presente lavoro rubando il nome al suggestivo brano tratto dalla suite Quadri di un’esposizione di Mussorgskij, composta nel 1874, ispirata ai dipinti di Hartmann, che, introdotto dal precedente Catacombae, descrive una visita alle catacombe di Parigi. Ne abbiamo mantenuto anche la forma non corretta datagli dal compositore «con mortuis» in luogo di «cum mortuis»
2. Intervista registrata il 12 novembre 1982, svoltasi nella casa parigina di Michel Random, pubblicata nel sito: www.velly.org/Conversation_12_novembre_1982.html
3. Ivi. Riportiamo qui, tutti di seguito, i passi delle risposte di Velly a M. Random, a cui abbiamo fatto riferimento: J.P.V. «Trovo che i simboli… No, i simboli, per me, hanno una funzione, - è una mia idea molto personale, voglio dire - ma un po’ troppo matematica e un po’ troppo scontata. Io, preferisco provare a lasciare sulla carta, sulla tela o sul rame un’emozione diretta e, in apparenza, inspiegabile, he !? […] Voglio dire, vedrai che in tutte le robe che faccio, bene, ben ci sono molto raramente dei simboli, molto, molto poco…Possono esserci delle cose un po’ descrittive […] Voglio dire, il simbolo : se sei stato iniziato, tu hai la chiave del simbolo e leggi la tela, se hai la chiave. Io preferisco un’emozione diretta senza chiave. […] Sì, ci sono quelli che sanno, si chiamano i poeti quelli o anche scrittori. Loro sanno maneggiare le parole… Ma per il pittore, in generale, o l’incisore, è difficile. Dunque sceglie il suo linguaggio e la sua scrittura. Sempre l’invenzione e la ricchezza in più, no ? Di creare il tuo linguaggio, ma non per gli altri! Tu lo crei per te stesso, per capirti meglio. Io, per esempio mi è capitato - potrebbe sembrare presuntuoso, ma non lo è affatto - di fare cose così, un po’ in maniera istintiva, e poi di conoscerne la chiave alcuni mesi dopo, se non alcuni anni dopo. Perché non è così semplice. » Risulta chiaro che quando Velly dice di preferire “un’emozione diretta e, in apparenza, inspiegabile”, si riferisce al momento in cui sta creando sulla carta, sul rame o la tela, perché per essere un’autentica comunicazione col profondo la chiave interpretativa dovrà emergere in un secondo tempo.
4. Citazioni riportate da M. Calvesi nel suo pregevole testo La Melanconia di Albrecht Dürer, Torino, 1983. La prima è tratta dal Rosarium Philosophorum, celebre opera alchemica del XIV-XV secolo, la seconda dal De Alchemia Liber di Bernardo da Treviri, del XV secolo. Se ne potrebbero aggiungere innumerevoli altre di significato analogo, oltre le già numerose offerte dallo studioso, ma valga per tutte la seguente da Le règne de Saturne di Huginus a Barma: «La matière mise en mouvement par une chaleur convenable commence à devenir noire. Cette couleur est la clef et le commencement de l’œuvre. C’est en elle que toutes les autres couleurs, la blanche, la jaune et la rouge sont comprises.»
5. M. Calvesi, op. cit. p. 21.
6. J. A. Pantheus, Ars Trasmutationis Metallicae cum Leonis X Ponti. Max. et Conci. Capi. Decemvirum Venetorum edicto, Venetiis 1518
7. Dom A. J. Pernety, Les Fables Egyptiennes et Grecques dévoilées & réduites au même principe, avec une explication des hiéroglyphes et de la guerre de Troie, Paris 1758. Ne abbiamo citato la traduzione in italiano : Le favole egizie e greche, Genova 1985, nota 9, p.392. Ricordiamo anche, a riguardo, Sebastien Batsdorff : « C’est la noirceur, signe de la putréfaction; les philosophes l’ont appelé occident, ténèbres, éclipse, lèpre, tête de corbeau, mort » (Le filet d’Ariadne, Paris, 1695).
8. « La déalblation, opération qui suivait la putréfaction, était assimilée à la résurrection suivant la mort, comme le blanc (symbole de la vie) vient dans l’œuvre après le noir (symbole de la mort).» A. Poisson, Théories et symboles des alchimistes, Le Grand Oeuvre, Paris, 1891, p.124.
9. Dom A. J. Pernety, Dictionnaire Mytho-Hermétique, Paris 1758, alla voce : Putréfaction.
10. Se tale incisione rispecchia figurativamente la succitata dichiarazione di N. Flamel, tratta da Le Livre des Figures Hiéroglyphiques, contenant l’explication des Figures Hiéroglyphiques qu’il a fait mettre au Cimetière des SS. Innocents à Paris, Paris 1612 , al Capitolo IV, è opportuno nondimeno considerare quanto afferma Morieno nel suo Testamento: « Ti ho mostrato ormai che quest’opera non è molto distante dalla creazione di ogni cosa, né mai nacque alcun essere animato e capace di crescita se non in seguito a putrefazione e a mutamento di aspetto. In questo senso disse un sapiente che non c’è possibilità di compiere quest’opera se non dopo la putrefazione. […] E sappi che quest’opera deve essere fatta due volte e in due composizioni […]» (dal Testamento Alchemico, Roma, 1996). Facciamo notare che Maternité è l’unico soggetto ripetuto da Velly due volte, senza peraltro variazioni degne di nota se non che il corpo ritratto nella seconda incisione è meno scuro che nella prima, un fatto curioso ma apparentemente in sintonia con la dottrina alchemica, in cui si deve ripetere per due volte l’identico processo per passare dall’opera al nero all’opera al bianco e infine all’opera al rosso.
11. F. T. Paracelso, De Natura Rerum Libri Novem, 1537. Ne abbiamo citato una traduzione recente : I nove libri sulla natura delle cose. De Natura Rerum Libri Novem (1537). Genova, 1988, p. 16.
12. Le Breton, Clefs de la Philosophie Spagyrique, Paris, 1722, p. 282 (Aforismi LII & LIII).
13. Cfr. ad esempio Fausto Gianfranceschi, La casa degli sposi, Milano 1990, pp. 41-42; Giorgio Soavi, Il quadro che mi manca, Milano, 1986, pp. 84-85 e Jean-Pierre Velly, Milano 1988 ; Jean-Marie Drot Jean-Pierre Velly ou le temps dominé, e Marisa Volpi, Velly notturno e diurno, sul catalogo della mostra Jean-Pierre Velly, Roma 1993.
14. Si veda in proposito O. Wirth, Le Symbolisme Hermétique, Paris 1969, Capitolo IV : Hermétisme et Franc–Maçonnerie.
15. I “Tarocchi del Mantenga” son così chiamati per l’erronea ma tradizionale attribuzione basata sul Vasari come unica fonte autorevole, che in un passo riferentesi al maestro patavino scrive: «Si dilettò il medesimo, sì come fece il Pollaiuolo, di far stampe di rame, e fra l’altre cose fece i suoi Trionfi, e ne fu allora tenuto conto perché non si era veduto meglio.» (Le Vite dÈ più eccellenti Pittori, Scultori e Architetti Firenze, 1550, p.554). Essi rappresentano un condensato umanistico di ermetismo, neoplatonismo e trepidante recupero dell’iconografia degli dei degli antichi. La loro storia si intreccia con l’opera manoscritta De gentilium deorum imaginibus del 1471 dell’umanista Ludovico Lazzarelli, contenente 27 miniature, di cui 23 li richiamano strettamente. Ma anche con il progetto editoriale mai realizzato dell’editore di Norimberga Peter Danhauser, Archetypus Triumphantis Romae, per il quale Michael Wolgemut tra il 1493 e il 1497 produsse delle xilografie, copiandone e adattandone i motivi, e infine con gli interessi del giovane Dürer che ne copiò alcuni soggetti, probabilmente durante il primo soggiorno a Venezia. Si veda in proposito: Arthur M. Hind, Early Italian Engravings. A Critical Catalogue with complete reproduction of all the prints described. London, 1938-48 Vol. I, pp. 221 – 240. Sul Web si veda il documentatissimo sito: www.trionfi.com.
16. I corpi saturnini « sono principalmente asprissimi […] et di membra strette, et concave» poiché determinati dalle qualità del secco e del freddo dell’elemento Terra, sostiene canonicamente Lomazzo (notare l’aspetto “concavo” in Misero I e nelle incisioni di Velly da esso derivate, espresso dai dorsi curvi e le articolazioni costantemente piegate); mentre tali qualità nella loro espressione positiva conferiscono ai corpi solenne gravità, li distinguono invece «si come all’incontro si corrompono […] per miseria». G. P. Lomazzo, Idea del tempio della pittura , Milano, 1590, cap. XXVI, p. 86.
17. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la Melanconia , Torino 1983, p.135.
18. C. Ripa Iconologia overo Descrittione dell’Imagini universali, Roma, 1593, pp. 159-160. Da notare che il Ripa al termine dell’illustrazione della Malinconia esprime la tipica ambivalenza che contraddistingue il carattere saturnino, contrapponendo sapientemente lo sterile inverno del malinconico alla sua primavera nel regno della sapienza: «Ma se bene pare otiosa al tempo del suo Verno nelle attioni politiche, al tempo nondimeno dalla Primavera che si scuopre nella necessità de gli huomini sapienti, i malinconiosi sono trovati et esperimentati sapientissimi et giudiciosissimi.»
19. Dom A. J. Pernety, Le favole egizie e greche, op.cit., p. 251.
20. O. Wirth, op. cit., abbiamo qui attinto dalla traduzione italiana: Il Simbolismo Ermetico, Roma 1997, p.32
21. Calvesi, op. cit., p.106.
22. Gli alberi secchi sono un corredo classico delle immagini della Malinconia. Li abbiamo trovati assai significativamente proprio all’inizio del citato passo dell’Iconologia di Cesare Ripa ad essa dedicato.
23. W. Blake, The Book of Urizen, Lambeth 1794.
24. Se si considera con attenzione si potrà ritrovare una gran quantità di temi velliniani, in ordinata progressione, nel seguente passo del Tractatus Chymicus de Quinta Essentia, di Basilio Valentino (stampato per la prima volta a Erfurt nel 1738 per opera dall’adepto Sincero Aletophilo), che ci illumina sull’insistenza del nostro incisore su tali “brutti” e “grotteschi” soggetti: «Vai quindi in nome di Dio nelle valli e sulle montagne, negli anfratti della terra, là troverai un vecchio ometto di aspetto non appariscente, di cui potresti dire che non ha alcuna forma che ti piaccia: per questo molti si arrabbiano con lui; ma questo ometto ha nascosto sotto il suo camice grigio-nero una grande ricchezza, affinché essa non si manifesti ai senza Dio di questo mondo: essa nasconde sotto le sue rocce sporche una bella sottoveste di seta verde, e sotto di essa una bella camicia bianca decorata di tutti i più bei colori: se tu sai lavare tale camicia nel modo giusto, e la rendi di nuovo pulita, essa diventa un pezzo di oro puro, da cui puoi ricavare salute e ricchezza inesauribile; poiché questa camicia bianca e questo mantello color porpora sono due bei fiori sullo stelo del giglio bianco, da cui cresce quello rosso.
Caro allievo e seguace della nostra Arte, fai conoscenza con questo ometto, e cerca di ingraziartelo, poiché egli è uno dei sette pianeti e metalli, e fra loro un vero ermafrodito. Affinché tu possa fare la sua conoscenza più velocemente, ti dico in gran segreto che esso si chiama Bismuto, Magnesia, Antimonio bianco o minerale di Saturno dei Saggi, che ha fatto impazzire molte persone, poiché credevano fosse antimonio o minerale di piombo. »
25. Lo strano soggetto del bambino con barba è da molti considerato come una delle varie raffigurazioni di esseri mostruosi lasciataci da Dürer. Secondo i coniugi Tietze, invece «Si tratta di un geroglifico riconducibile all’interesse di Dürer per le opere di Orapollo (studioso egizio del IV secolo d.C.), rappresentante il “paidogeron”, ovvero “fanciullo-vegliardo”, le cui componenti – il fanciullo e il vegliardo - esprimono insieme l’antico e la posterità, cioè il passato e il futuro. Fonte dell’immagine è la descrizione del tempio di Minerva a Sais, fatta da Plutarco in De Isi et Osiri, che, verosimilmente era nota nell’ambiente umanistico di Norimberga attraverso la traduzione di Caelius Calcagnini, uscita tra il 1509 e il 1517» (Kritisches Verzeichnis der Werke Albrecht Dürers, Vol. I, Augsburg, 1928). Per quanto potrebbe essere messo in discussione il riferimento fatto dalla coppia di studiosi al passo plutarcheo, visto che in esso si descrivono cinque figure scolpite nel vestibolo del tempio di Atena – un bimbo lattante, un vecchio, uno sparviero, un pesce e un ippopotamo - e il bimbo e il vecchio, pur elencati di seguito, non sono per questo combinati insieme, condividiamo pienamente l’idea che il dipinto di Dürer sia da considerarsi un geroglifico sapienziale. Come tale crediamo lo abbia visto anche Velly, il quale aggiunge sullo sfondo altre quattro figure a indicarci che il Bébé Vieillard corrisponde alla quintessenza, sostanza sottile da cui derivano i quattro elementi, qui considerata nel suo stato saturnino. Johann Isaac Hollandus nel suo Opus Saturni del 1773, la chiama Mercurius saturni o Quintessenza di Saturno.
26. Gustav-Friedrich Hartlaub, pioniere nel ricercare contenuti alchemici nelle opere di Dürer (e in quelle di altri maestri come Giorgione, Lotto, Rembrandt ed altri), ha interpretato il poliedro di Melencolia I come un blocco che deve essere ancora portato alla regolarità, rappresentante «l’umano compito di migliorarsi moralmente» alla stessa maniera della pietra grezza massonica (Giorgiones Geheimnis, Munich, 1925, p.78). Il simbolo della pietra grezza da trasformare in pietra filosofale delle iniziazioni dei costruttori, ricordiamo, è in effetti stato accolto nell’ermetismo in tempi molto antichi e ne è parte essenziale. Maurizio Calvesi (op. cit., pp. 137-138), ha molto opportunamente richiamato l’attenzione sull’importantissima prima testimonianza letteraria su Melencolia I scritta dall’umanista amico del pittore e traduttore in latino dei suoi scritti d’arte Joachim Camerarius (in Elementa Retoricae, 1541), riferentesi al quadratum saxum posto nell’incisione ai piedi di una scala come se fosse in quella posizione per indicarne l’ascensione: «Scalas in nubes eduxit, per quarum gradus quadratum saxum veluti ascensionem moliri fecit.». Calvesi, dopo aver analizzato i vari significati che può avere il verbo moliri, per superare le «apparenti incertezze della traduzione», conclude: «Il brano del Camerarius potrebbe quindi suonare: “eresse una scala verso il cielo attraverso i cui gradini fece come intraprendere un’ascensione al sasso squadrato; oppure: attraverso i cui gradini, quasi un’ascensione, fece innalzare (rimuovere, smuovere, muovere) il sasso squadrato.” Risulta comunque chiaro che l’ascesa riguarda il “quadratum saxum”, ovvero il parallelepipedo: giacché, quale che sia il significato del verbo e di conseguenza l’azione svolta o subita dal masso, l’azione stessa si realizza “per quarum gradus”, attraverso i gradini della scala. Solo nella logica dell’alchimia un masso squadrato (ovvero il Lapis come ‘materia prima’) può percorrere una scala o essere comunque interessato dal movimento ascensionale che la scala a pioli suggerisce: pioli simbolici, infatti, delle successive ‘operazioni’ che trasformano il Lapis stesso.
Rilevante notare che Velly nell’incisione Le bas de l’échelle del 1966 ha raffigurato sotto una scala a pioli tre volti piagati e corrotti da ogni tipo di lebbra che potrebbero essere i tre componenti della materia, zolfo mercurio e sale allo stato grezzo e impuro, immagine analoga alla pietra grezza.
27. Un asino putrefatto compare anche significativamente nell’incisione Tas d’ordures, il che indicherebbe come interpretare il senso di quel cumulo di rifiuti. Nella stessa incisione poco al di sopra della carogna, all’orizzonte, si scorge la silhouette di un asino vivo verso cui corrono sei uomini. Si tratta di un’ importante citazione (in controparte) del particolare raffigurante il Palio di San Giorgio dall’affresco Aprile del ciclo parietale dei Mesi di Palazzo Schifanoia, opera di Francesco del Cossa, al cui Trionfo di Venere Velly pure allude, rivisitando la figura di Venere sul carro (in controparte), tra il groviglio di forme di Métamorphose III. L’asino è un simbolo classico dell’alchimia attestato fin dalle sue origini, basti ricordare il protagonista delle Metamorfosi di Apuleio, iniziato ai misteri di Iside e Osiride, la sapiente cavalcatura di Balaam scolpita nelle cattedrali o il fedele servitore di Gesù, assurto ad eroe nell’alchemica kermesse dell’Asinaria festa medievale. È da notare, infine, che il persistente interesse dei surrealisti verso il particolare soggetto dell’asino putrefatto che si ritrova nel film Un Chien Andalou di Buñuel, (sebbene forse “simbolizzato” cripticamente dall’odio per il poeta Jimenez), poi nel dipinto L’Ane Pourri di Dalì e infine nel suo omonimo scritto pubblicato nel primo numero della rivista Le Surréalisme au service de la Révolution, in cui espone nientemeno che il suo metodo paranoico-critico capace di dar forma a ciò che torbidamente si agita nell’inconsio, è certamente derivato dalla loro aspirazione di riconnettere il loro movimento con l’alchimia.
28. «Melancholia est res non stabilis, et est fumus, qui cito ascendit: videlicet, in altiori loco, in quo est, scilicet, in capite: et si evaporat, facit hominem tristem, tenebrosum, et obscurum, per totam suam vitam. Etsi illa melancholia, id est, ille fumus remanserit, et revertitur ad suum proprium locum: reddit hominem humilem atque pacificum: quia ipsemet cognoscit se. […] Per Deum, veritatem dico, et non mentior. O natura benedicta: et benedicta est operatio tua: quia de imperfecta facis perfectum, cum vera putrefactione, quae est nigra et obscura. » (Arnoldi de Villa Nova, Speculum Alchymiae, in Theatrum Chemicum praecipuos selectorum auctorum Tractatus de Chemiae ei Lapidis philosophici... continens, Argentorati, IV, 1659, in M. Calvesi, Op cit., pp. 98-99). Il fine del lavoro artistico di Velly, come risulta dalle sue stesse parole nelle interviste che abbiamo citato, è quello dell’ autoconoscenza, ma solo in un contesto alchemico le melanconiche putrefazioni dei suoi soggetti potrebbero possedere sensatamente una tale aspettativa: la melancholia, come dice qui Arnaldo, rende l’uomo umile e pacifico giacché conosce se stesso, passando attraverso la catarsi della nera e oscura putrefazione.
29. Fulcanelli, Il Mistero delle Cattedrali, Roma 1972, pp. 100-101.
30. Nel presente lavoro, come abbiamo detto, intendiamo semplicemente mostrare la possibilità di un’interpretazione ermetica dell’opera di Velly. La lettura in chiave alchemica delle opere citate è stata appena toccata, solo quel tanto che potesse servire sinteticamente al nostro proposito. Riguardo all’incisione Trinità dei Monti diremo in più solamente, per chi abbia voglia di approfondire, che l’immagine femminile in primo piano (ritratto della moglie, di nome Rosa !) si presenta tipologicamente come Venere (una Venere allo specchio simile a quella di Velàzquez) e quindi richiama i Misteri del terzo cielo delle iniziazioni occidentali. Nel suo Explication des douze écussons qui représentent les emblèmes et les symboles des douze grades philosophiques du Rite Écossais dit Ancien et Accepté, Bouilly scrive riguardo al grado di Principe della Pietà, o Scozzese Trinitario, capo dell’assemblea che ha nome Terzo Cielo: «Questo grado è, a nostro avviso, il più complesso di tutti quelli che compongono questa sapiente categoria: pertanto prende il soprannome di Scozzese Trinitario. In effetti in questa allegoria tutto offre l’emblema della Trinità: il fondo a tre colori, la figura della Verità in basso, e dovunque, infine, questo indizio della Grande Opera della Natura, degli elementi costitutivi dei metalli, della loro fusione, della loro separazione, in una parola della scienza chimica minerale, della quale Ermete fu il fondatore presso gli Egizi, e che tanta potenza ed estensione diede alla medicina».
Jean-Marie Drot, Velly au-delà de Velly ou le temps dominé, catalogo della mostra Jean-Pierre Velly, Roma 1993.
aprile-maggio 2009
al mio piccolo Lucas
Nirjan si è spento nel 2017 a Venezia. RIP