Maxime Preaud
Un cane che sonnecchia
traduzione: Fondazione Il Bisonte, Firenze
Tutti i maestri hanno avuto dei maestri, non foss’ altro che per opporvisi. Anche i primi ne hanno avuti, sia che li si ignori o che si facciano ricerche in tal senso. Siamo fatti in un modo tale che l’ originalità completa, pura e innata appartiene al regno dell’incredibile. E’ parte di Dio soltanto. Benché, al momento di creare l’uomo, secondo certe fonti, egli non abbia realizzato che una pallida copia del modello che aveva sottomano, ovvero sé stesso. Così è anche per Jean-Pierre Velly. Non soltanto egli aveva degli emuli, ma aveva dei maestri. Lui stesso, durante un’ intervista alla Bibliothèque Nationale nel novembre 1975 con Françoise Woimant, allora conservatore incaricato della stampa contemporanea, disse che era indubbiamente ispirato da Bruegel, Bosch, Bresdin e Maréchal. Se i primi tre di questi artisti sono universalmente conosciuti, o almeno dovrebbero esserli, l’ultimo è meno celebre e la sua presenza è, a prima vista, sorprendente. All’inizio ho pensato che si trattasse di François Maréchal, nato a Evreux nel 1938, e dunque di cinque anni più vecchio di Velly. Ma quello ha studiato all’Ecole des Beaux-Arts di Mans e dal 1963 risiede in Spagna. I due artisti non si sono dunque mai incontrati poiché Velly, nato nel 1943, a partire dal 1965 seguì gli insegnamenti di Robert Cami all’Ecole des Beaux-Arts di Parigi: nel 1967 egli avrebbe ottenuto il primo premio al Prix de Rome, con la grande incisione
La Clef des songes [1], e si sarebbe traferito in Italia. Ma l’ispirazione macabra di Maréchal non avrebbe niente di incompatibile con i sentimenti di Velly [2]. Comunque c’è un altro Maréchal, anche lui François di nome, ma liegese, e più vecchio perché nato nel 1861, la cui tecnica, la maniera e il gusto possono aver anch’esse influenzato il nostro artista, penso soprattutto alla serie di undici acqueforti macabre incise nel 1930 e pubblicate col titolo Les jeux de la Mort et du Hasard[3]. Questo incise anche degli insetti.
Ma in ordine di importanza, al di sopra di Maréchal c’è Le Maréchal (nato nel 1928 e ancora fra noi), che dipinge e incide opere simboliste, ed è proprio lui il cui spirito, se non proprio la tecnica e lo stile, hanno ispirato gli esordi di Velly.
È molto difficile poter dire in che data si situi il passaggio di Velly alla Bibliothèque nationale, dove egli poté vedere, «toccare» come disse altrove, soltanto con gli occhi, ma evidentemente da vicino, alcuni capolavori di grandi maestri come Dürer, approfittando del prezioso fondo del dipartimento delle stampe (sebbene il suo nome non risulti sui registri del fondo), che ha avuto apertura regolare solo a partire dal 1963. (Da tale data i conservatori annotano la presenza di giovani incisori, ma non i loro nomi). C’è tuttavia da credere che fosse abbastanza presto nella sua carriera, per aver costituito «la rivelazione della sua vita».
* In effetti egli è un po’ un artista piglia-tutto, e ci si può divertire a rintracciare nelle sue stampe questa o quella influenza, che non appare sempre in maniera evidente. E’ certo che egli ha guardato e annotato molto, che si trattasse di incisione o di pittura. Dal momento che ha cominciato ad incidere quando era ancora adolescente, e che la stampa è generalmente meno accessibile ai giovani, - salvo che per interposto libro - della pittura, facilmente visibile nei musei o sulle pareti delle gallerie, le sue prime ispirazioni sono evidentemente pittoriche.
Così la Main crucifiée del 1964 e l’ Etude de pieds en croix del 1965[4] si spiegano molto semplicemente con la visione dell’altare di Isenheim a Colmar. Chi ha potuto contemplare questa tragica meraviglia conserva nel profondo l’immagine terribile del corpo devastato del crocifisso. Guardando le sue stampe, si può ritenere che Velly abbia visto l’originale, che arriva a segnare in modo definitivo l’osservatore più di qualunque riproduzione. L’incisore ha nondimeno conservato la lucidità sufficiente a mostrare, a differenza dell’artista renano, che era stato irrealistico nel modo di piantare i chiodi nelle mani del Cristo: per quanto magro egli fosse, la carne gli si sarebbe dovuta lacerare per effetto del suo stesso peso; anche Velly ha piantato il chiodo fra le ossa carpali del Figlio di Dio (mi ricordo, ai tempi della mia giovinezza, delle discussioni quasi teologiche su questo soggetto). I piedi, nella fattispecie, non avendo la stessa funzione di sostegno, non esigono correzioni dello stesso tipo. Quanto al cielo turbinoso che fa da sfondo alla prima stampa, sembra uscire direttamente, in un audace sincretismo, da un quadro di Van Gogh. Parimenti Velly si è lasciato sedurre, per incidere
nel 1964 le sue Grotesque I e Grotesque V[5], dall’inverosimile naso gonfio e verrucoso dell’altrimenti affascinante Vecchio col nipote effigiato nel 1490 dal Ghirlandaio [6]. Il suo eclettismo si spinge fino all’Estremo Oriente, come testimoniato dalla sua Vague[7], che richiama immancabilmente quella di Hokusai, che non è molto distante neppure dalla lastra tumultuosa intitolata
Le Ciel et la Mer (1969)[8]. Quanto alle due stampe della
Chute e dell’Acrobate, del 1965 e 1966[9], non si può negare che debbano qualcosa
alle quattro incisioni di Goltzius raffiguranti i Reprobi (Icaro, Issione, Fetonte e Tantalo) gettati da Zeus nell’Ade e vaganti fra cielo e inferi[10]. C’è qualcosa di Rodolphe Bresdin da molte parti; non soltanto nei cieli dalle nuvole ricciute che si ritrovano su un buon numero di stampe degli esordi, ma anche negli alberi felicemente complessi, lavorati con minuzia cinese, nel cui novero, solo a titolo di esempio, fra gli altri:
Arbre et sphère II (1967),
Valse lente pour l’Anaon (1967),
Senza rumore I (1969),
Paysage aux autos (1969)[11]
fino al grande Arbre più o meno incompiuto del 1989[12]. Ugualmente da Bresdin gli sono forse venuti i brulichi, le accumulazioni di personaggi che si vedono nel Massacre des Innocents (1970-1971) e che mi ricordano un disegno appunto del Bresdin, conservato a Parigi al Musée d’Orsay, raffigurante una Bataille d’hommes nus (tutti somiglianti a Bresdin, con la sua testa calva e la sua barba).Ma questi trovano forse origine anche in certe lastre di Jacques Callot. Si pensa soprattutto alla moltitudine di demoni vomitati dal grande diavolo della Tentation de Saint Antoine, specialmente nella prima versione[13], e che si ha l’impressione di ritrovare nella
Rechute (1968).[14] La fascinazione del Cristo morto magnificamente scorciato da Andrea Mantegna si manifesta, secondo una astuta e pudica inversione, nella donna nuda distesa, la testa in primo piano, che si trova in
Après (1973), migliorata in
Qui sait? (1973)
e alquanto decomposta in N’amassez pas les trésors (1975) e in
Rondels pour après (1978)[15].Non si parla mai di Flocon a proposito di Velly, ma ci sono talvolta in quest’ultimo, e assai presto, degli esperimenti di prospettiva curvilinea. Anche nell’incisione de La Clef des songes del 1966, che fu insignita del “Prix de Rome” l’anno seguente. Non si dimenticherà che Albert Flocon, che era professore all’Ecole Estienne dal 1954, nel 1964 ottenne anche la cattedra di prospettiva all’Ecole des Beaux-Arts di Parigi. Egli lavorava da molto tempo con l’amico André Barre sulla prospettiva curvilinea, cosa che diede luogo ad un’opera comune pubblicata nel 1968[16]. Non c’è alcun dubbio che Velly abbia beneficiato di questi insegnamenti durante la sua frequenza all’Ecole. Inoltre Flocon aveva il massimo rispetto per il suo omonimo Albrecht Dürer. E non c’è forse come una sorta di “souvenir” della Grande Odalisca di Ingres e insieme della Notte di Michelangelo nella maniera con cui egli ha fatto posare
Rosa in Trinità dei Monti (1968)[17]? * Deciso, l’occhio dell’incisore percorre i secoli, in tutti i sensi. Tuttavia si percepisce ovunque la presenza dominante del maestro primo di tutti questi artisti, che non è Marcantonio Raimondi, benché egli lo sia soprattutto a Roma, ma proprio colui che quest’ultimo aveva copiato, Albrecht Dürer. Non che Velly lo plagi mai; tuttavia, nelle composizioni, nel trattamento delle figure, nel maneggio naturale del bulino, si sentono il riferimento e soprattutto il profondo rispetto per lui. Così la maniera di disporre un corpo femminile librato davanti ad un paesaggio, come la
Vieille femme (1966) o La Clef des songes (1966) già ricordata, o
Rosa au soleil (1968)[18], ricorda la Grande Fortuna o Nemesis di Dürer. Anche se è stata spesso accostata al legno inciso del Bagno degli Uomini il ritratto a sei talvolta intitolato
Gaspard de Besse et ses brigands[19], il solo pezzo che sia legato in maniera esplicita a Dürer reca un’allusione diretta ad una stampa capitale per Velly, quella che ha nutrito la sua opera:
in Qui sait? (1973)[20], accanto al nudo femminile disteso in contrapposto, su una tavola ornata da un drappo, si è acciambellato un cane che sembra il parente di quello che sonnecchia nella Melencolia I.Ed è vero che la Malinconia, attraverso l’artista di Norimberga e la sua stampa principale, impregna l’opera di Velly. Raramente in modo diretto: Velly è troppo sottile. Ci sono nondimeno alcune figure nell’atteggiamento dell’angelo di Dürer, la testa appoggiata alla mano:
il Grotesque V e una specie di Baba Yaga pensata per un racconto erotico e misterioso, tutt’e due del 1965[21], così come la Vieille Femme del 1966, e quindi degli esordi della sua carriera; e c’è forse un richiamo anche ne
L’Ange et linceul del 1973[22]. In effetti si sarà notato che nelle immagini legate alla malinconia si ammassano oggetti che, quale che sia la loro natura, testimoniano tutti, talvolta separatamente ma insieme sempre, della vanità delle cose di questo vile mondo. Ogni natura morta diviene una vanità agli occhi del malinconico. Ma Velly spinge quest’accumulazione al parossismo, ed è pur vero che la nostra epoca - oggi è diventato un luogo comune al limite del sopportabile-, è più propizia di quella di Dürer all’accumulo di porcherie inutili. Dapprima gli oggetti hanno forme non ben riconoscibili poi, progressivamente, l’artista ritrae delle vere e proprie discariche pubbliche con casseruole, fornelli
(Eau de Cologne Ma Joie, del 1968) e parecchie altre cose ancora, come nella stampa dal titolo esplicito
Tas d’ordures (1969), di vecchie carcasse d’auto sfondate come in
Senza Rumore I e Senza Rumore II e Paysage aux autos anch’esse del 1969, e questo aspetto non farà che svilupparsi, amplificarsi fino alla fine, non essendo ormai più da dimostrare che Velly è proprio figlio della sua epoca anti-consumista. Forse oggi avrebbe l’amara soddisfazione di essere quasi alla moda.
Maxime Préaud conservateur géneral
département des Estampes et de la Photographie
Bibliothèque Nationale de France, Paris, 2.02.2007
traduzione: Il Bisonte, Firenze
[1] Didier Bodart, Jean-Pierre Velly. L’œuvre gravé, 1961-1980. Catalogue raisonné. Préface de Mario Praz, Roma, Galleria Don Chisciotte – Milano, Sigfrido Amadeo e Vanni Schewiller, 1980. Vedi n. 30.
[2] Maréchal,grabador/graveur. Obra grafica. L’Oeuvre gravé, 1967-1994, Madrid, François Maréchal, 1994.
[3] Maurice Kunel, François Maréchal acquafortiste, Liegi, Editions de l’Oeuvre des artistes, 1931.
[4] Didier Bodart, op. cit. Vedi i nn. 2 e 23.
[5] Didier Bodart, op. cit. Vedi i nn. 6 e 10.
[6] Ronald G. Kecks, Ghirlandaio: l’oeuvre peint; trad. di Denis-Armand Canal, Paris 1996, n.23.
[7] Didier Bodart, op. cit. n.12., 1965.
[8] Didier Bodart, op. cit. n.54.
[9] Didier Bodart, op. cit. nn. 24 e 28.
[10] Walter L. Strauss (éd.), Hendrik Goltzius, 1558-1617. The Complete Engravings and Woodcuts, New York, Abaris Books, 1977, vedi i nn. 257-260.
[11] Didier Bodart, op. cit. nn. 34, 40, 51, 53.
[12] Giuseppe Appella, Jean Pierre Velly. Opera grafica 1964-1990. Roma, Edizioni della Cometa, 2002, vedi n.81.
[13] Jules Lieure, Jacques Callot, Paris, «La Gazette des Beaux-Arts», 1924-1927, 5 vol, vedi n.188 (I Versione) e n. 1416 (II versione).[
14] Didier Bodart, op. cit. n.46.
[15] Didier Bodart, op. cit. nn.72, 73, 77, 79.
[16] André Barre – Albert Flocon, La Perspective curviligne, de l’espace visual à l’image costruite…Préface de Georges Bouligand, Paris, Flammarion, 1967.
[17] Didier Bodart, op. cit. n.43.
[18] Didier Bodart, op. cit. nn. 27,30, 42.
[19] Didier Bodart, op. cit. n. 5, che la chiama Groupe de six hommes, datandola 1964.
[20] Didier Bodart, op. cit. n. 73.
[21] Didier Bodart, op. cit. nn.10,13.[22] Didier Bodart, op. cit. n.74.