Giorgio Soavi
Fiori d’inverno
Ed. Elli & Pagani, 1989
Per telefono chiesi alla bambina dove fosse suo padre, e lei rispose: è a letto che dorme. Poiché erano le dieci del mattino chiesi ancora: ma quando si sveglia? la bambina rispose: non lo so. Non sapendo più cosa chiedere chiesi: ma di solito, a che ora si sveglia? La bambina disse che suo padre lavorava fino a tardi e la mattina dormiva, non si sapeva mai fino a quando. La conversazione finì. Ma a me restava la libertà di immaginare cosa avrebbe fatto il padre di quella bambina, quando si sarebbe alzato. Avrebbe acceso una sigaretta ancora prima di accendere la luce, infilato i piedi negli zoccoli che si è portato a Formello dalla sua patria che è la Bretagna, e accarezzando i capelli gonfi e dritti in piedi sulla sua testa, si sarebbe seduto poco dopo su una sedia nella cucina di quella casa dove viveva da qualche anno, guardandosi curiosamente in giro. La giornata del pittore Jean-Pierre Velly incomincia così, con il sonno protetto da quella bambina che non sa a che ora il padre si sveglia, fino al momento in cui il padre esce di casa per andare allo studio. Lo studio è una specie di caverna bianca e rocciosa, e le rocce la sovrastano, o accompagnano e circondano i suoi spessori di stanza come una catena di montagne rocciose circonda la pianura. In pianura ci sono i tavoli, la luce elettrica, le sedie, un torchio per stampare le acqueforti e un cartello fissato al muro con puntine o chiodi che avverte, in lingua italiana: "Qui dentro non si tocca niente". Velly ha forse paura che qualcuno di noi tocchi o rapisca lo scheletro del gatto custodito in una scatola da scarpe; la carcassa di un topo rinsecchito, la leonardesca ala del pipistrello, le ali dei coleotteri; i frammenti di pelle di serpente che stanno, ben presenti, in quella pianura circondata dalle montagne rocciose. Qualcuno se li è forse presi e messi in tasca per giocarci un po’, o li tocca perché la loro presenza di scheletri ci rassicura sulle difficoltà della vita?
In un lato di quello studio c’è una specie di mangiatoia nella quale stanno allineati, o appesi, mazzi di fiori secchi illuminati da una luce elettrica riflessa, che trapela da una carta opaca: in quel modo filtra il poco di luce che l’artista desidera. L’aria che si respira è quella del deserto, a me ricorda proprio quella del New Mexico o dell’Arizona, che non è un deserto di sabbia ma di terra rossiccia piena di arbusti secchi e duri come lame; e se c’è un po’ di vento, o una tempesta di vento, si vedono volare o spostarsi energicamente questi arbusti fatti di fiori secchi o di legnetti elettrici che, qui a Formello, sono stati appesi e messi in posa per lui che li deve disegnare. Quasi tutto l’erbario del creato è presente. Immaginate di aver tagliato l’erba del prato sul quale aveva appoggiato i suoi piedini nudi la "Primavera" di Botticelli, un prato minuzioso, un erbario non casuale visto che Botticelli aveva raccolto e dipinto tutto ciò che si trovava in Toscana ai suoi tempi. Qui, nello studio di Velly, la stessa erba di foglie fiori e frutta è distesa e raccolta perché l’artista venuto dalla Bretagna lavori e produca.
Quello che fa Velly ci è noto: appoggia sulla riva di un mare nordico i suoi fiori, o li sistema nel vano di una finestra, o li lascia spenzolare dall’alto di un soffitto della casa di Emily Bronte, dove Heathcliff e Jean-Pierre Velly, fatti apposta per una simile desolazione, vivono la loro specialissima vita, lontani dalla società. Ma il più delle volte, Velly adopera come sfondo il campo visivo il più lungo possibile, quello imprendibile che poi è quello di chi sta seduto davanti all’oceano nei mari del nord. Laggiù, sul fondo dei suoi acquarelli o quadri, dove le piccole onde sembrano le più carezzevoli, le meno insidiose perché il nostro occhio ormai riduce le distanze, c’è l’oriente fiammeggiante intorno al quale l’occhio di Velly indulgia sulla qualità rossa del tramonto, sulle sfumature di un arancione che è il frutto maturo e gocciolante che sta scendendo a capofitto in quel mare che a me ricorda il più colossale, euforico e drammatico tramonto mai realizzato in pittura, quello di Altdorfer nel quadro della Battaglia di Alessandro il Macedone che sconfigge Dario.
Velly ha, in miniatura, il senso grandioso che sta negli spettacoli della natura, insieme al colpo d’ala di chi sa disegnare come un antico pittore. Il suo nervosismo è moderno, la sua ansia perfezionista non è certamente l’ansia di una persona beatamente ansiosa, e il suo viso spiritato, meravigliato e perplesso è quello di un visionario al quale vengono mostrate, perché le giudichi, le proprie opere. Non c’è nulla di più stupefacente, per un visionario, che il catalogo della propria opera. Cosa fa quel cranio sulla riva del mare? Perché quei fogli di carta sono stati spezzati, poi incollati nei margini uno sopra l’altro, come rappezzature di una carta geografica messa insieme all’ultimo momento perché, tanto, la geografia non è quella che sappiamo, ma quella dell’artista che la fa? Con questi sistemi Velly impagina l’esistenza dei suoi mazzi di fiori in un acquerello, tra le carte spezzate e poi rincollate che abbiamo detto.
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Quest’anno c’è l’autunno più confortevole che si sia mai visto. Fa così caldo che i fiori stanno per rifiorire e i pullover vengono adoperati soltanto la sera quando Velly esce di casa con la sua bambina per offrirle un gelato.In una parte del suo cuore c’è sempre accesa, a tutte le ore, una luce che rischiara i soggetti ai quali sta lavorando, e la luce di questo autunno illumina delle bacche appoggiate per terra, sovrastate da una luce più forte che scende dal cielo con la stessa misteriosa forza con la quale i pittori antichi illuminavano i soggetti religiosi, l’Annunciazione in particolare. Un cono di luce che sta poco sotto la sua gola di uomo che fuma, e ascolta la bambina mangiare avidamente quel gelato che ha aspettato per tutto il giorno; e adesso sente un crepitio, quello dei fiori secchi quando morivano per la troppa luce o il calore. E quando torna a casa prende una lastra e incomincia a disegnare le prime note di una acquaforte sui fiori invernali, ne disegna gli steli accatastati tra i quali grosse e rotonde bacche nere, belle e rotonde come mirtilli appena usciti da un bosco, si fanno accarezzare nella luce notturna.
Velly gratta con un rumore da topo la sua lastra un poco ogni giorno; il che significa un poco anche ogni notte, mentre la sua bambina, che non sa mai a che ora il padre si sveglierà, dorme profondamente con la sua piccola pancia allagata dal gelato.Il paesaggio con le bacche dei fiori invernali incomincia a riempire la lastra, i rametti hanno tutte le destinazioni come un sentiero tra gli altopiani che appare e scompare tra gli arbusti più grandi. I piedi e lo sguardo attento di chi cammina passano di li, compiono evoluzioni per salire verso la cima, e proprio mentre la fatica impone una fermata per tirare il fiato, si possono guardare i due punti del più classico dei motivi di chi è a metà percorso: la parte che sta sotto, e l’altra che è il punto di arrivo. Guardando la piccola catasta di rametti che sta più sotto, Jean-Pierre Velly aggiungerà altri segni brevi e contorti, le scorciatoie che stanno tra le pieghe di quell’altopiano; mentre più in alto si incomincia a vedere il cielo aperto: di là scenderà la luce. Nei quadri antichi quella luce significava il fervore con cui gli uomini che dipingono superano traguardi impossibili, la rivelazione, il miracolo nel quale ciascuno sogna di entrare per un attimo. Nei quadri, o nell’acquaforte dei fiori invernali di Jean-Pierre Velly, avviene la stessa cosa.