Giorgio Soavi
la tragica scomparsa del pittore bretone Jean-Pierre Velly
La luce all’ombra della quercia
Il Giornale, 30 maggio 1990
(serve anche da presentazione
al catalogo della Galleria dell’Incisione, 1998)
Un uomo di 47 anni sale in compagnia del figlio su una barca a vela per fare un giretto sul lago di Bracciano e quando la barca compie una virata forse brusca o inaspettata, l’uomo cade a picco nell’acqua e non lo vedono più. Con questo agghiacciante tipo di soluzione è morto domenica il pittore francese Jean- Pierre Velly, uno dei più straordinari disegnatori, pittori e acquafortisti apparsi in questi anni. Era arrivato in Italia come borsista a Villa Medici sede dell’Accademia di Francia a Roma al tempo in cui Villa Medici era guidata dal leggendario pittore Balthazar Klossowski de Rola detto Balthus. Velly, come tutti gli allievi di quei corsi, non vedeva quasi mai l’illustrissimo direttore, ma ne respirava l’aria.
A differenza di altri studenti che si ispiravano, anche nei lavori al clima balthussiano di ritrarre giovinette semiaddormentate ma profondamente turbate nei confronti della vita, Velly descriveva un altro lato della catastrofe che sovrastava il nostro pianeta. Per qualche anno fece così: il suo modo di sezionare l’esistenza ritraendola nelle sue eccezionali acqueforti aveva un aspetto decisamente funebre dal quale l’artista bretone - era nato a Audierne nel 1943 - si staccò abbastanza presto perché la sua visione del mondo fu invasa da una serie di ritratti della natura meno tragici che riguardavano la bellezza dei fiori, soprattutto la bellezza e la grazia dei fiori secchi o appassiti.
Il suo modo di stare attento alla fisionomia della natura aveva un antenato di tutto rispetto perché è lecito dire che a Velly non dispiaceva di compiere un omaggio a Dürer quasi tutte le volte che un insieme di fiori stava dritto nell’aria come una zolla. Negli ultimi anni, con una serie di mostre a Roma presso la galleria Don Chisciotte, a Milano da Gianferrari e in seguito alla Sanseverina a Parma, l’occhio del pittore si allargò su una serie di paesaggi romani che potremmo definire classici o romantici: grandi piante che nascondevano ville altrettanto in ombra ma proiettate nel riverbero di quella luce che dalle parti di Roma non ha mai scherzato in quanto a bellezza. Ci saranno anche state devastazioni nel paesaggio, ma la luce non è certo peggiorata. E Velly guardava attentamente quella luce dorata come se fosse l’unica al mondo. Era convinto che un albero fosse una fonte inesauribile di luce e di ombra; e che disegnando le migliaia di foglie della parte bassa di quell’albero fosse come guardare l’interno di una mano: sempre un poco più chiara, più pallida e anche un poco più debole del dorso.
La Grande Quercia che risplendeva nella sua ultima mostra a Parma apparteneva a una villa che sta dalle parti di Sutri. Velly aveva fermato il momento in cui l’ombra e la luce cercano di stare dritte in piedi anche se tutta la luce della giornata si sta ormai coricando. I cuscini per guardarla non stavano dalla parte della villa né dall’altra dove c’ era il sole al tramonto. Tra poco sarebbe arrivata un’ombra fitta, umida e gocciolante, un abisso senza coltivazioni. Quel quadro denso di ammonizioni sembrava uno dei suoi autoritratti, così severi ma anche desiderosi di guardarsi nello specchio della pittura, di comunicare un po’ di terrore attraverso lo sguardo. Uno sguardo che Jean Pierre Velly aveva individuato così bene, visto che riusciva ad esprimere la stessa tensione che corre tra l’ombra e la luce, serbatoio della paura che la vita se ne vada mentre siamo ancora li.
A poca distanza da Formello, dove aveva scelto di vivere, la luce dorata e inquietante di quel paesaggio inondava l’esistenza: la sua, più che mai. E sparito facendo quel tuffo nell’acqua, a sorpresa, lasciandoci di stucco per la rapidità con la quale tutto si è svolto. Ma il suo lavoro di pittore, di inventore dei migliori acquerelli che io abbia visto in questi ultimi dieci anni, quello resta al disopra di quell’acqua che gli ha teso una trappola mortale.
Il Giornale, 30 maggio 1990