Giorgio Soavi
La realtà oltre l’immagine
Nelle incisioni di Jean-Pierre Velly, gli inquieti misteri dell’esistenza sono raccontati con la precisione di un tratto perfetto e deciso
IL VOLTO SCONOSCIUTO DELLA NATURA
Architectural Digest (A.D.), luglio 2002
Bravura e tragedia. Questa potrebbe essere la lapide, o l’epigrafe, a ricordo di Jean-Pierre Velly, nato a Audierne, Francia, nel 1943 e morto tragicamente nel 1990 a Trevignano Romano, nel lago di Bracciano. Dopo una colazione con il giovane figlio, attratto dall’acqua trasparente e quieta del lago, si avventura in una gita in barca. Ma in mezzo al lago arriva un improvviso colpo di vento, la barca gira su se stessa e Velly, sorpreso, precipita a capofitto nell’acqua: incapace di nuotare, va a fondo e muore. Il suo corpo non verrà mai più ritrovato.
Jean-Pierre Velly era stato ospite a Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia, perché aveva ottenuto, nel 1966, il Grand Prix de Rome per l’incisione. Aveva lavorato a Villa Medici fino al 1970, quando il direttore era Balthasar Klossowski de Rola, detto Balthus. Proprio nell’anno 1970 Velly, pazzo d’amore per l’Italia, si trasferisce a Formello, non lontano da Roma, un luogo etrusco, isolato, dove avrà casa e studio: uno studio pieno di ricordi ma sovrastato da una scritta, a grandi caratteri, che avverte il visitatore: “Qui non si tocca niente”. Studio strapieno di tutti i frammenti animali o fossili intorno ai quali si era sempre avviata la sua bravura di incisore, iniziata nel 1961.
Ma a Velly non bastava incidere perché, quando decide di esporre a Roma, si lega alla Galleria Don Chisciotte, dove presenterà acquerelli, disegni e dipinti. Dunque un artista completo che si è certamente ispirato ai maestri nordici, tra i quali vanno rammentati Schongauer, Dürer, Bosch, Spranger, Hercules Seghers e Rodolphe Bresdin, amico di Baudelaire e maestro di Odilon Redon. Bei nomi, vero? Ma con quegli antenati lui studiava, guardando sempre i più bravi. A un patto: inventare il proprio mondo. Velly dipinge, disegna o incide paesaggi, grandi tronchi di alberi, fiori, finestre con vasi di fiori e la veduta dell’acqua del mare, e molti autoritratti.
Quali incisioni citare in occasione di questa mostra italiana, allestita fino al 30 luglio a Palazzo Chigi di Formello, che lo consacra Maestro? Una dolcissima figura femminile nella Chiave dei sogni, la Maternité au chat e, sempre con una figura femminile ormai allungata nel paesaggio. Trinità dei Monti oltre alla non meno celebre e Düreriana Vieille Femme, un bulino del 1966.
Nei primi anni Settanta sempre nel campo delle incisioni, appare uno dei suoi spettacoli da me prediletto: quel Massacro degli Innocenti, bulino e acquaforte che ci lascia senza fiato per la grandiosità, inventata ma così descrittiva, che ci consente di contare, uno per uno, la quantità esorbitante dei microscopici innocenti protagonisti del famoso massacro. Considero questo bulino uno spettacolo grandioso, da “cinerama”, che poteva passargli per la testa quando non si dedicava a un essere isolato come una conchiglia, un nudo femminile, un bucranio sulla riva del mare, il corpo di un topo, quello del pipistrello o della civetta.
Velly passava con la stessa enfasi, a lui congeniale al punto da essere naturale, dal Massacro degli Innocenti alla fitta ispezione del tronco di un albero. È mai esistito, tra i disegni di questi anni, un tronco di albero più precisamente intricato di quello disegnato da Velly? È l’ennesimo segno della sua grande bravura e della “realtà” della sua immaginazione. Come quando scriveva un poemetto, o un appunto, quale quello riprodotto nel catalogo della grande mostra allestita all’Accademia di Francia nel 1993 dove, a piena pagina, appare una sua fotografia accompagnata dall’epitaffio “Parti, le soleil. Mon ombre avec”.
Si riferiva, forse, al dipinto La disperazione del pittore, del 1987, dove l’universo appare spaccato in due: in alto una scena cosmica di lapilli che riempiono il cielo, in basso, ai nostri piedi, la ramificazione di quei lapilli, diventati una costellazione inquietante. Non sai quale delle due parti lo ecciti maggiormente. Ma certamente la disperazione del pittore stava in quel morbido, ma inquietante, cosmo luciferino.
Giorgio Soavi