Giorgio Soavi
E un giorno Velly spense il sole e celebrò il buio
in “il Giornale nuovo”, Milano, 3 aprile 1988.
“Come un meteorologo avverte gli spettatori ignari di una imprevista, drammatica inversione di tendenza, con Velly, che ci aveva fatto balenare lampi di luce verdolina o solare sui fili d’erba o sui fiori nei vasi, adesso si presenta con questa serie di autoritratti, cupo e distante dal suo lavoro precedente, imponendoci di guardare la nuova realtà. si è disegnato come se fosse un uomo antico o di altro pianeta, del tempo in cui la pittura attraversava la tela o la carta affermando drammi e penitenze, più ombre che luci. C’è che oggi sembra preso da un’euforia di morte, da un indice di gradimento che pretende di intimidirci, annunciandoci la peste prossima ventura. Ma non tanto lontana.
. . . Anche i bellissimi, sensuali disegni di femmine sono della stessa mano: voglio dire che quei corpi sono attraversati, come gli autoritratti, da severi bagliori.
[ . . . I. Velly con la sua tensione descritta con infinita pazienza ci sorprende: è un teatro senza applausi, gelato o congelato da una nuova grandezza”.
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Giorgio Soavi
A Parma dipinti e disegni del pittore francese da anni in Italia
Vellicarsi con Velly
Il Giornale, Domenica 28 ottobre 1989
Se un pittore disegna paesaggi, erba e fiori attraversati da una luce e se il suo modo di disegnare assomiglia al modo dei pittori antichi, quali dettagli ci riveleranno la sua modernità, la sua astuzia, visto che costui è apparentemente e consapevolmente antico in quanto adopera carte invecchiate, lacerate e, in taluni casi, sovrapposte le une alle altre come se, di colpo, vivendo egli chissà dove, non avesse avuto che brandelli di carta, forse lacerata da certi amici, i topi,che scorrazzano nel suo studio in campagna? Ecco. L’interrogativo, lungo quanto un romanzo, è finito. Ma il lettore, adesso, vuol sapere chi è costui. E perché fa così. Ma soprattutto gli interessa sapere se costui è, o non è, un pittore a noi contemporaneo. L’uomo vive ormai da molti anni in Italia, a Formello, vicino a Roma: è francese. La sua bravura di incisore fu premiata quando ottenne il Prix de Rome a Villa Medici,dove studiava come borsista. Il suo nome Jean-Pierre Velly. Da qualche anno, dopo una memorabile mostra milanese alla galleria Gianferrari il nostro uomo non ha dimenticato la sua bravura di acquafortista ma si è dedicato più ampiamente alla pittura. Soprattutto agli acquerelli e ai disegni. Il suo sistema è quello che ho detto: servirsi di fogli lacerata mangiati o sbocconcellati da egli, stesso in versione di topo – l’artista come topo incollati su una carta più spessa o un cartone; immaginando che lo spazio sia una pianura talmente vasta da dover ricorrere, all’ultimo minuto, a una sovrapposizione di altra carta. Forse la pianura non gli bastava più; forse l’orizzonte, per avere la profondità dovuta, aveva bisogno, necessità, di essere allungato ancora un po’. O il davanzale sul quale Velly aveva appoggiato come facciamo tutti un bicchiere con dentro un mazzolino di fiori, non sporgeva come si vede adesso nei quadri, in modo clamoroso. I francesi adoperano una battuta intraducibile: vue imprenable. Offrire una vue imprenable è un modo di dire molto usato, persino negli annunci economici. Esempio: cercasi in campagna con vue imprenable. Ed è a quella imposizione di infinito, a quella perdita d’occhio che può anche offrire sensazioni religiose che il nostro Velly si rifà quando guarda il foglio di carta da lui stesso azzannato in qualità di artista topo;e poi disegna, acquerella, dipinge.
I motivi della sua arte sono: fiori secchi, paesaggi avvolti nella caligine, bruma, foschia, piccola nebbia e, più in là, ai limiti estremi, alla finis terrae il sole. Oppure: nudi femminili, ma anche autoritratti che severamente lo ritraggono mentre una guerra di religione è alle porte; e strane criniere di verde, riviere, o una spettacolare quercia che scende da lassù per arrivare ai nostri piedi. Lo spettacolo è questo. Ed è uno spettacolo minuzioso, entomologico arboreo, giardiniere, da uomo che tutte le mattine si presenta davanti al capanno degli attrezzi, apre la porticina tenuta insieme allo stipite da un filo di ferro, e dopo essersi infilato nel buio - sempre un po’ scricchiolante perché asciutto - del suo laboratorio si comporta così: o resta infilato nella trappola del proprio capanno; o ne esce trascinandosi dietro i boccettini dei colori, un bicchiere pieno di acqua, matite e pennellini molto appuntiti, lamette, e forse, ragnatele. Le stesse che da tempo immemorabile, stanno nella sua testa, fra suoi alti ondeggiane capelli di uomo che produce elettricità, scosse, vibrazioni. Sono convinto che, toccandogli i capelli, Jean-Pierre Velly, al pari di certe acque medicinali, possa, alleviare un dolore, una lombaggine, una addormentatura delle parti, delle altrui anatomie. Quindi: un uomo,oltre che topo, stregone. Così è. L’uomo che potrebbe anche essere scomparso nel capanno buio degli attrezzi è concentrato sul proprio contenuto di artista. Sa di poter contare su una bravura praticamente eccelsa, senza confronti. Ed è proprio questa somma di virtù che lo porta, ineluttabilmente, verso l’altra bravura della pittura fabbricata dagli antichi. Ma, a differenza degli antichi, lui sa che gli antichi sono già esistiti; che Dürer e Altdorfer hanno già compiuto il loro mestiere; lui sente sulle spalle e sulla propria testona di capelli di stregone tutti questi pesi tremendi, e quando decide di innalzare lo stelo di un fiore vede, poco lontano da lui, seduto immobile al tavolino accanto al suo, un uomo che si chiama Albrecht Dürer , bello come un Dio, in pelliccia perché l’inverno non è ancora finito,e trasalisce. E senza far rumore, ma mordendosi le labbra dalla disperazione, Velly cambia rotta, prende un’altra strada, anche se non appena quello stelo di fiore o erba si era alzato sul suo foglio di carta, Velly pensava di costruire una zolla pura e semplice, una porzione del creato così come lo vedono tutti: isolata dal mondo sterminato di un campo pieno di fiori; isolata perché, se vuoi veder bene, devi fissare una piccola parte. Una zolla, non l’eternità. A volte, quando va al bar a bersi un caffè, Jean-Pierre Velly vede, seduto accanto a lui quel tedesco di Germania che beve un caffè e sta zitto. Velly lo imita solo in questo: nello stare zitto. Per tutto il resto il francese sa di non potere, di non volere di non dovere imitare il tedesco. Primo: perché non si fa una cosa simile; secondo perché Dürer è morto mentre Velly è lì, palpitante, elettrico, bravo a competere, bravo a riuscire in quello che fa.
Questo è il modo in cui un’artista di oggi, che sa benissimo di amare la pittura amica,segue la propria strada, inflessibile, quasi senza piegarsi alla attrazione di un’erba che si è inclinata o sia dritta, e gli rivela che la luce delle sue giornate è diversa da quella di coloro che lo hanno preceduto.
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Giorgio Soavi
Bellezza antica
in “il Giornale nuovo», Milano, 6 gennaio 1991.
Dopo che Picasso ha distrutto la bellezza, cosa resta della bellezza? Noi accettiamo quella antica greca o romana e Picasso si fa ammirare proprio nella Suite Vollard quando incide come un vasaio greco. Ma adesso che tutto è spezzato, cosa salviamo della bellezza che non sia antica?
Andiamo in giro con il naso per aria, annusando le nuove forme. Siamo passati attraverso la bruttezza, le forme dell’Africa nera, ci siamo affezionati ai feticci per essere un poco devoti anche ad altre divinità: non si può amare soltanto l’arte italiana: Antonello, Piero, Giotto, Cimabue e decidere che la religione è tutta là. La religione è anche - più che mai- in Grünewald, in Altdorfer, Cranach, nei tedeschi e negli olandesi, la religione ha talmente bisogno di noi – siamo qui, infatti - che spalanca la propria pittura indicandoci nuove orme di bellezza e di dolore: più che di forme si tratta di eresie, cambiamenti, irregolarità. Eppure, tutto questo è bello come scrisse Ben Shahn sotto un proprio disegno di un paesaggio di tetti pieno zeppo di antenne televisive.
Siamo qua. Abbiamo sempre un gran bisogno, di respirare guardando la pittura. Ma non sappiamo dove cominciare per dire: la bellezza è qua, e l’artista che l’ha inventata era vivo, fino a pochi mesi fa viveva in Italia, no non è italiano è francese, ma stava da noi e faceva esattamente come noi provava a rimettere insieme la bellezza. Era convinto che un albero fosse una fonte di luce e di ombra: e che disegnando le mille foglie della parte bassa di quell’albero sarebbe riuscito a mettere in ombra, la parte bassa delle foglie, esattamente come è l’interno di una mano: sempre un poco più chiara, più pallida e anche più debole del dorso.
L’albero che lo aveva attratto tanto circonda una villa che sta dalle parti di Sutri. Mi piace pronunciare la parola Sutri, perché quel nome si lega alla storia antica, evoca monete antiche, e il suono che possiamo immaginare tra gente che parla un incomprensibile dialetto e si scambia delle monete non può non inondarci di emozioni che credevamo perdute.
Dunque: è una villa che sta da quelle parti ed è circondata da un bosco e da uno strapiombo. Di fianco a lei c’è una specie di vallata inondata dalle ombre e dai raggi del sole che laggiù in fondo è al tramonto. J.P. Velly aveva fermato il momento in cui l’ombra e la luce cercano di stare diritte in piedi anche se tutta la giornata si sta coricando. I cuscini per guardarla non stanno né dalla parte della villa ne dall’altra, dove c’è il sole al tramonto. E meno che mai potrebbero stare nell’orrido di quello strapiombo che circonda la casa. Là sotto, ormai, è ombra fitta, c’è umido tutto è gocciolante. Fosse coltivata sarebbe una serra. Ma gli abissi non hanno coltivazioni- e meno che mai i cuscini sui quali sdraiarsi per guardare la fine di una giornata. Unico posto dove possono stare è davanti al quadro. Deve essere per questo motivo che il suo autore Jean-Pierre Velly, francese, in Italia, aveva costruito un quadro così lungo perché chi lo guardasi possa mettere comodo a guardarlo. La vittoria della pittura sulla vita sta in questa possibilità: di restare sdraiati a guardare, di tornare il giorno dopo se eravamo stanchi, o di immaginare tutto.
Mi succede spesso di immaginare un paesaggio e credo che l’immaginazione sia l’elemento che mi convince sopra tutti: credere di essere stato in un luogo. Ricordare, senza avere sotto il naso un bel niente. In relazione all’esistenza del sole e dell’ombra mi viene in mente che le corride dividevano gli spettatori con lo stesso concetto. I biglietti dividevano il pubblico secondo l’ombra e la luce. I tori, il matador, il suo bel vestito, le macchie di sangue, erano il terrificante contorno.Ma la vera sorpresa stava nella luce e nell’ombra contenuta, raccolta in quel cestino di sabbia e di polvere che è l’arena, la plaza de toros.
Gli ultimi quadri senza tori inventati da Velly,- e come potrebbe un francese, anzi un bretone che viene dal Finis terrae osare di misurarsi con un toro? - ha tuttavia la sua brava quantità di spavento. Anzi: lo spavento corre lungo tutto il percorso e questo potrebbe essere il dettaglio che rende indispensabile il lavoro di un artista a noi contemporaneo. Velly sapeva disegnare la bellezza antica perché disegnava volti piante e fiori alla maniera di un pittore antico. Come faceva allora a essere uno dei nostri? Come ha fatto per farci sapere che lui non scrive su pergamena e non va a cavallo ma usa il telefono e l’auto, beve vino buono o cattivo come tutti i contemporanei e quando ha il mal di testa butta giù un paio di aspirine? Semplice: comunica il terrore dell’esistenza in un paesaggio correttamente antico. Attacca il filo spinato o quello della corrente elettrica ai nostri cuscini e ci lascia lì. Sapremo bene come fare. Staremo attaccati alla bellezza del creato - gli elementi sono eterni: l’ombra e la luce, gli alberi e il sole, il verde della campagna, le curve e gli anfratti, lo strapiombo proprio accanto alla casa - increduli che sia proprio vero.
A quel punto, ci chiederemo: sembra un grande pittore. Ma come fa ad essere un grande pittore se è nostro contemporaneo? I pittori non avevano - hanno – distrutto la bellezza perché non si credesse che questa messa in piedi da uno come Velly sia semplicemente la replica; la replica beata dell’ordine delle cose, la replica di un paesaggio che ci è stato offerto, tanto tempo fa, da altri pittori che rispettavano resistenza del creato così com’era?
Allora: è mai possibile essere contemporanei quando si è bravi come un pittore antico? Semplice, sembrano avvertirci i quadri di J.P. Velly. Basta esprimere disagio e paura, indicare che stiamo guardando la fine di qualcosa che l’artista ha individuato bene: la tensione che c’è nello spazio che corre tra l’ombra e la luce, la paura o il disagio che tutto sparisca mentre noi siamo ancora là. La paura o il disagio di non essere andati via prima, prima che tutto finisse, nei paraggi di quella cosa sepolcrale che è il buio totale.
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la tragica scomparsa del pittore bretone Jean-Pierre Velly
La luce all’ombra della quercia
di Giorgio Soavi (in Il Giornale, 30 maggio 1990)
(serve anche da presentazione del catalogo della Galleria dell’Incisione, 1998)
Un uomo di 47 anni sale in compagnia del figlio su una barca a vela per fare un giretto sul lago di Bracciano e quando la barca compie una virata forse brusca o inaspettata, l’uomo cade a picco nell’acqua e non lo vedono più. Con questo agghiacciante tipo di soluzione è morto domenica il pittore francese Jean- Pierre Velly, uno dei più straordinari disegnatori, pittori e acquafortisti apparsi in questi anni. Era arrivato in Italia come borsista a Villa Medici sede dell’Accademia di Francia a Roma al tempo in cui Villa Medici era guidata dal leggendario pittore Balthazar Klossowski de Rola detto Balthus. Velly, come tutti gli allievi di quei corsi, non vedeva quasi mai l’illustrissimo direttore, ma ne respirava l’aria.
A differenza di altri studenti che si ispiravano, anche nei lavori al clima balthussiano di ritrarre giovinette semiaddormentate ma profondamente turbate nei confronti della vita, Velly descriveva un altro lato della catastrofe che sovrastava il nostro pianeta. Per qualche anno fece così: il suo modo di sezionare l’esistenza ritraendola nelle sue eccezionali acqueforti aveva un aspetto decisamente funebre dal quale l’artista bretone - era nato a Audierne nel 1943 - si staccò abbastanza presto perché la sua visione del mondo fu invasa da una serie di ritratti della natura meno tragici che riguardavano la bellezza dei fiori, soprattutto la bellezza e la grazia dei fiori secchi o appassiti.
Il suo modo di stare attento alla fisionomia della natura aveva un antenato di tutto rispetto perché è lecito dire che a Velly non dispiaceva di compiere un omaggio a Dürer quasi tutte le volte che un insieme di fiori stava dritto nell’aria come una zolla. Negli ultimi anni, con una serie di mostre a Roma presso la galleria Don Chisciotte, a Milano da Gianferrari e in seguito alla Sanseverina a Parma, l’occhio del pittore si allargò su una serie di paesaggi romani che potremmo definire classici o romantici: grandi piante che nascondevano ville altrettanto in ombra ma proiettate nel riverbero di quella luce che dalle parti di Roma non ha mai scherzato in quanto a bellezza. Ci saranno anche state devastazioni nel paesaggio, ma la luce non è certo peggiorata. E Velly guardava attentamente quella luce dorata come se fosse l’unica al mondo. Era convinto che un albero fosse una fonte inesauribile di luce e di ombra; e che disegnando le migliaia di foglie della parte bassa di quell’albero fosse come guardare l’interno di una mano: sempre un poco più chiara, più pallida e anche un poco più debole del dorso.
La Grande Quercia che risplendeva nella sua ultima mostra a Parma apparteneva a una villa che sta dalle parti di Sutri. Velly aveva fermato il momento in cui l’ombra e la luce cercano di stare dritte in piedi anche se tutta la luce della giornata si sta ormai coricando. I cuscini per guardarla non stavano dalla parte della villa né dall’altra dove c’ era il sole al tramonto. Tra poco sarebbe arrivata un’ombra fitta, umida e gocciolante, un abisso senza coltivazioni. Quel quadro denso di ammonizioni sembrava uno dei suoi autoritratti, così severi ma anche desiderosi di guardarsi nello specchio della pittura, di comunicare un po’ di terrore attraverso lo sguardo. Uno sguardo che Jean Pierre Velly aveva individuato così bene, visto che riusciva ad esprimere la stessa tensione che corre tra l’ombra e la luce, serbatoio della paura che la vita se ne vada mentre siamo ancora li.
A poca distanza da Formello, dove aveva scelto di vivere, la luce dorata e inquietante di quel paesaggio inondava l’esistenza: la sua, più che mai. E sparito facendo quel tuffo nell’acqua, a sorpresa, lasciandoci di stucco per la rapidità con la quale tutto si è svolto. Ma il suo lavoro di pittore, di inventore dei migliori acquerelli che io abbia visto in questi ultimi dieci anni, quello resta al disopra di quell’acqua che gli ha teso una trappola mortale.
Il Giornale, 30 maggio 1990