Giorgio Soavi
Com’era tragico il mio tramonto
Incisioni e dipinti ricordano l’opera di Velly
(27/10/1991 in Giornale nuovo)
Il pittore e incisore francese Jean-Pierre Velly è morte annegato l’anno scorso nel lago di Bracciano e per ricordarlo un suo amico e mercante Giuliano De Marsanich, d'accordo con la vedova ha presentato gli acquerelli e i disegni rimasti nello studio che l'artista bretone aveva a Formello, poco lontano da Roma, dove viveva da una ventina di anni.
La sera dell’inaugurazione, mercoledì 16 ottobre, c'era un’aria abbastanza strana, perché il suo mercante, più ansioso e trasognato che mai, continuava a ripetere che Velly sarebbe arrivato da un momento all’altro; mentre chi scrive queste righe, seduto in un bar poco lontano in compagnia di Ottaviano Del Turco, affermava la propria immaginaria versione dei fatti, secondo la quale, una volta precipitato in acqua dalla piccola barca a vela sulla quale si trovava in compagnia del figlio, il pittore non sarebbe affatto annegato - e qui bisogna dire che il suo corpo non fu mai più ritrovato - ma, nuotando sott'acqua per un certo tratto, sarebbe riemerso dall’altra parte, in un anfratto paludoso pieno di canne e da lì, una volta fuori, avrebbe fatto perdere le proprie tracce. A quale scopo? Al solito scopo di perdersi, di sparire, che è una delle soluzioni dolorose, ma proprio per questo non irrinunciabili che un uomo, forse sfinito da tutti gli apparati che si sono incrostati intorno alla sua vita, sceglie per riprendere a vivere in un modo che lui crede diverso.
Certo, ci vuole molta immaginazione ed io, che insieme a un amico speciale come Del Turco ho molto amato Jean-Pierre, mi invento che le cose siano andate così. Del resto gli acquarelli appesi nella sala della Galleria Don Chisciotte sono belli ma minacciosi, non simulano nessun tramonto di colore che non sia tragedia; e le nubi non sono ingannevoli e non si stanno spostando per lasciare spazio alla serenità ma stanno li, ferme immobili, precise e nette, calamitate da quella forza che apparteneva in pieno al nostro amico scomparso: la raffigurazione della tragedia, sia pure colorata, che sta nella natura, completata dall'altra tragedia, non meno eloquente, della storia vivacissima e dolente che si abbatto sugli uomini quando vengono al mondo.
Uno dei testimoni principali di questo disastro raccontato magistralmente da Velly sta nella incisione della «Strage degli innocenti» (o «Massacro degli Innocenti» come è indicato sul catalogo), una acquaforte del 1970 che rappresenta un paesaggio aperto su una vallata a perdita d’occhio seminata dai corpi in fuga di qualche decina di migliaia di esseri che scappano da tutte le parti. Difficile non riconoscere in quelle figure alte pochi millimetri lo stesso artista che sta ancora scappando.
Velly non era sempre così tragico, certo non scherzava se non amaramente e quando apriva bocca o scriveva una dedica a un disegno o a una acquaforte, le sue parole, spesso poetiche quando non erano frammenti di poesie alate erano e appartenevano al puro dramma della parola che non ha scampo se non quello di essere una lapide.
Poetica, certo, ma sempre lapide e quindi definitiva. Non c'era speranza nella sua vita se non nella superba composizione delle sue invenzioni. In questa mostra, per fare i conti di ciò che era rimasto nello studio c'è una scelta di undici acqueforti, sette acquarelli di paesaggi tra grandi e piccoli, un grande disegno di nudo femminile sdraiato in modo classico, che tuttavia di classico ha soltanto l’aria che gli sta intorno, perché l’interno di quel corpo e di quel volto non sono per niente tranquilli; due disegni di grandi alberi i cui tronchi sono descritti con la minugia di un costruttore antico il quale sa in che modo i rami saliranno nel cielo e contorcendosi, offriranno alla vista di chi guarda il loro emblema di sacrificio: e anche qui, evidentemente, la descrizione non scherza.
Ma la presenza che più di ogni altra inquieta lo spettatore ammirato è rappresentata dall’autoritratto più famoso, quello detto della mano destra; perché quella non è una mano, ma un artiglio che, se la vita potesse qualche volta seguire l’ispirazione di chi la inventa, avrebbe dovuto servirgli per non scivolare da quella barca e salvarsi.
«Jean-Pierre Velly», Galleria Don Chisciotte, Roma, via Angelo Brunetti, fino al 15 novembre. *