Roberto Tassi
Prefazione al catalogo della Galleria Sanseverina di Parma
1989
Nel 1964 all’età di 21 anni Jean Pierre Velly incide una acquaforte intitolata Main crucifiée; apparentemente un frammento, il particolare di una crocifissione, e invece un'immagine completa, unita, totale, di sofferenza, di crudeltà e di fantasia. Sull’estremo braccio di legno grezzo, con le fessure, i nodi, le corrosioni dell’albero da cui è stato tagliato, è inchiodata una mano che gli spasimi del dolore e dell’agonia hanno contratto e rattrappito, mentre sull’avanbraccio le vene turgide rivelano che la vita ancora sostiene quelle sofferenze; il fondo è notturno, ma tutto movimentato da spirali, vortici o gorghi diaria spessa, tetra, come erano stati a volte per visionarietà i cieli di Van Gogh, qui per partecipazione cosmica alla tortura.
L’anno dopo Velly incide l’estremità inferiore della croce, Etude de pied en croix; e l'immagine è ancora più contorta, corrosa, la carne lacerata, la morte forse giunta a imputridire ossa, tendini, chiodo e legno. Non è detto, o lasciato intendere, se la mano e i piedi siano di Cristo, di un contadino tedesco nella guerra dei Trent'anni o di un partigiano francese nella guerra ultima nostra; ma la precisazione non conta molto, poiché quegli arti sono di tutti e tre, e di molti altri. Stanno tra il Grunewald di Isenheim e l’Otto Dix de La Guerra mostrano un artista dotato, fin dal suo inizio, di un grande talento, di una violenta forza di immagine, di una fantasia dolorosa; e soprattutto una capacità di fondere il particolare con l’universale, un frammento della realtà ridotta, minuta e un frammento della realtà immensa, di parlare per presenze reali, per simboli e per pensieri analogici, dando così uno spessore senza limiti all’immagine.
Mi limito a due opere scelte tra le prime, ma ciò che ho scritto ha valore, sebbene moltiplicato, per tutte le incisioni che formano l’opera grafica di Velly tra il 1961 e oggi. E si dovrebbe allargare tanto l’indagine, quanto ogni foglio contiene una molteplicità di particolari, di soggetti, di intuizioni, di significati e di pensieri. Ma quelle caratteristiche descritte non variano, si mantengono costanti; e si combinano con altre; con la tendenza a moltiplicare le cellule che compongono l’organismo dell’immagine, a perseguire le innumerevoli, minime entità prime e formare con esse l’entità ultima, immensa; a imbastire una trama di infinitamente piccolo per giungere a un infinitamente grande; a creare un rapporto tra grano o punto e cosmo, tra pullulare e ansimare, tra unità segnica e unità strutturale, tra polvere e spazio, tra frantumazione organica e uniformità universale. Basta a Velly seguire il corso della realtà, misurare il movimento del tempo, dal suo osservatorio silenzioso fissar gli occhi sugli oggetti, sulla natura e sugli uomini e vedere in essi come si muove la vita; basta questo per possedere il senso di un dramma, per cogliere la crudeltà, la violenza, la corruzione, vedere l’agguato della morte, e trasferir tutto nelle sue immagini, che ne restano come violentate, e arricchite di contrasti, soprattutto nella lotta e nella compenetrazione del bianco e del nero sui fogli delle incisioni.
Di solito chi ricorda Formello, il paese dove Velly vive, parla di piccolo borgo etrusco, di antiche vie, di atmosfera tranquilla; ma per raggiungere Formello si percorrono strade ai cui lati appaiono, a tratti, cumuli di rifiuti formati da ogni sorta di oggetti non più usabili, che deturpano il paesaggio, ma si stanno lentamente ad esso incorporando, poiché tra un oggetto e l’ altro cominciano a nascere fili d’erba, fiori selvatici, viticci, rovi. Questi ammassi irreali e pur naturalizzati si trovano in diverse acquaforti di Velly, completano e fan da contrappunto all’orizzonte, come i cimiteri d’automobili. Non si tratta di simboli, di denunce, di metafore della corruzione, ma di un modo di riprodurre la realtà, così com’è; di trarre ispirazione dalla vita che ci circonda. Velly è in questo modo crudamente realistico; ma mai abbandonato dalla fantasia, dal distacco, dall’intelligenza che trasformano la realtà in fantasmi poetici.
Quando noi guardiamo gli acquarelli e i quadri di Velly, nei quali il colore ha portato nuove realtà, nuova emozione e nuova poesia, dobbiamo pensare che dietro a quelle superfici bellissime ed affascinanti, sta, come una oscura regione, tutto quel pullulare drammatico e crudele delle incisioni, quella vita colta nella sua indifferenza naturale, quel moltiplicarsi di ombre, di dolori, di metamorfosi di golfi, di apocalissi. Nel 1980 Velly ha pubblicato anche un Bestiaire perdu, fatto cioè di perdutezza, di vita perduta: apparizioni di coleotteri, di gufi, di pipistrelli, di topi, di cetonie, trafitti da spilli che li inchiodano sul foglio; un bestiario di morte, senza sole ne ombra: «Parti, le soleil./ Mon ombre avec», come dicono i due versi con cui esso ha inizio. Anche queste crudeltà, apparentemente minori, stanno dietro gli acquarelli i quadri di paesaggio e di fiori. Dietro nel senso che tutta questa materia, tutta questa realtà vista con occhi dolorosi ha contribuito alla loro formazione, alla loro nascita.
Per questo nell’insieme l’opera dell’ultimo decennio ha una dimensione di grande profondità; intessuta di bellezza, di malinconia, di fascino, racchiude però anche qualcosa di indicibile, una sottile angoscia, un’ombra nascosta, un presentimento di abisso, che le da un grande spessore, una complicazione non chiarita, una continuità oltre le apparenze, come hanno solo le grandi opere del moderno. Con tutta la sua apparente semplicità, l’opera di Velly è una delle più profonde che i nostri tempi abbiano visto nascere. Poiché essa sembra fragile e nasconde il sentimento umanissimo della morte; sembra immersa nel trascorrere del tempo e raggiunge l’assoluto, l’uscita dal tempo, sembra fuori dalla modernità ed è la più ricca di modernità, di presente. Per questo non è facile descrivere quanta originalità, e quanto pensiero ci siano nel scegliere alcuni fiori e porli su una spiaggia, o, entro un vaso, su una balaustra contro l’orizzonte; nel dipingere una villa tra gli alberi, o una grande quercia o un nudo di donna. Perché la realtà può essere così originale? così vista per la prima volta? Velly ha un foltissimo talento tecnico ed è un poeta: possiede le due condizioni che fanno un grande artista.
Negli Autoritratti del 1987 quel talento si rivela tutto: di rado ho visto uscire dall’uso della matita una figura così profondamente scolpita, e fatta vivere in tutte le idee, i pensieri, i sentimenti, i nodi psicologici che hanno segnato in ogni piccolo tratto il volto, illuminato gli occhi, scompigliato i capelli, dandogli l’età non del momento, ma di sempre, una specie di età ideale, mentale, quella che presiede, alta, superba e umile, su tutta l’opera. Quel volto, quegli occhi, quella mente, hanno vinto il tempo creando, unite, le opere, acquarelli, quadri, disegni, e questo stesso foglio, questa stessa figura in cui sono stati evocati; ma il tempo li perseguita e li domina, come dicono i due oggetti ai margini dell'immagine, l’orologio che segna il presente e il teschio sulla scansia che ricorda il futuro. Ottenere la vittoria sul tempo con il sentimento del tempo, tale è il destino dell'artista. E nell’Autoritratto ad olio del 1988, un capolavoro di Velly, tutto questo è implicito, riassorbito, internato nell'immagine che si è fatta ormai pura essenza e sublime presenza: entro la condizione serale, l’oscura ombra avvolgente e nella quale la massa dei capelli si allarga come più cupa ombra, solo il volto si svela, modellato dalla luce che vi si posa o vi affiora.
Conviene infine guardare le opere dipinte da Velly negli ultimi cinque anni sapendo tutto questo, ma dimenticandolo; avendone una coscienza incosciente. Immergersi allora nelle bellezze e nelle profondità di questi paesaggi, mari, cieli, fiori. In essi, ancor più che nelle opere grafiche, le due dimensioni del minuto, particolare, frammentario, e dell'immenso, del piccolo oggetto e del grande orizzonte, si contrappongono e si uniscono. Sono le due dimensioni secondo cui Velly accoglie la natura; qui i fiori, i rami, le foglie, le venature, le corrosioni, gli essicamenti, là sul fondo lo spazio illimitato della notte, le nuvole dense, la pianura agitata delle acque, e quasi sempre al centro uno splendore, un abbaglio di luce, sia la madreperla della luna, uno squarcio delle nuvole, il sorgere e il calare del sole. Ma nessuna delle due dimensioni è sperimentata direttamente, la prima nasce nel chiuso dello studio, la seconda nel chiuso della memoria. Velly è un bretone della costa e vive nella campagna romana: gli arbusti, i fiori sono quelli raccolti durante il vagabondaggio nei campi, e portati nello studio di Formello; i mari sono quelli dell’infanzia; l’immagine nella sua totalità è una struttura fantastica creata dal coicidere della passione e dell’intelletto, costruita mentalmente sull’amore. C'è un distacco tra l’artista e il suo soggetto, necessario alla rielaborazione: e l’opera vive poi in un'altra distanza, incontaminata, in una essenza assoluta, non provoca coinvolgimento, ma fascinazione.
Tremano pallidi gli anemoni sotto la foschia della notte marina; il ramo di alchechengi sta appoggiato, luminoso e rossastro, sul davanzale, tra le pieghe della tovaglia e della tenda; steli esili e secchi per corolle minute ricevono entro il vaso in cui sono stati sapientemente composti ora la luce diffusa dell’alba, ora la luce vana della luna; da un ramo abbandonato sulla spiaggia si erge una foglia già toccata dalla corruzione dell’autunno; un mazzo di fiorellini bianchi, invernali, fitti come bolle di schiuma o fiocchi di neve, si spande contro l’ampio ansimare di un agitato cielo notturno. E quando, aboliti i fiori, si apre davanti a noi un puro paesaggio,allora lo spazio ancor più si dilata fino a un illimitato orizzonte, si distendono i colli nella lontananza e un tramonto invade di luce un poco tenebrosa, di una nebbia quasi sanguigna, ogni punto della terra.
Nelle ultime opere Velly sembra esser disceso dalle contrade del nord ai boschi e ai dirupi del Lazio, ma senza mutare la sua inquietudine, la sua angoscia romantica, la bellezza incontaminata delle sue immagini. Tra la primavera e l'estate del 1989 ha creato alcuni capolavori: Grande tramonto, Sutri II, Tramonto verde, La Quercia.
Tramonto verde è una opera di essenzialità assoluta, di un sentimento intensissimo e triste, romantica e profonda come poteva essere una sera di Runge. La Quercia è un'opera possente che vibra di una immensa pullulazione, foglia a foglia, ombra a ombra, ramo a ramo, protettiva come un grande abbraccio o un grande manto e infinita nella profondità della sua materia; sembra riassorbire in sé altre grandi quercie, quella di Ruisdael, quella di Courbet, quella di Théodore Rousseau, come fosse l’ultima di una gloriosa stirpe; ma si apre nuova nella gran massa di buio verde come se nessuno l’avesse dipinta prima e qui fosse svelata l’originarietà della natura.
Come nelle incisioni, dove il segno si moltiplica e si frantuma in una miriade di frammenti, di linee, di incroci, di nodi, creando una variabilità formale la cui ricchezza è quasi impossibile descrivere, anche negli acquarelli e nei quadri, per una trasposizione che mantiene fedeltà alla voce originaria e interiore, il linguaggio è fatto di minutissimi movimenti, di tratti sottili e molteplici, fascie di trame cromatiche, fili intrecciati ed esili come capelli, sciami di linee, minuzie lenticolari. Negli «studi d'alberi», nelle foglie della quercia, nei petali, negli stami, nelle onde, nelle stelle, nei raggi della luna, la vista e l’indagine di Velly vanno così a fondo come se volessero sgranare la materia, esaminare le molecole, rendere conto di quanto sia fragile e minuta ogni struttura.
Velly ama l’analisi, la penetrazione, il ripetersi infinito di ogni frammento e tratto, la molteplicità dell’esistente. Sa che quando ogni più sottile pennellata avrà trovata la sua misura e ottenuto il suo spazio nascerà dall’insieme il miracolo finale dell’immagine. Dall’unione dei particolari si formerà il tutto, dal piccolo il grande, dalla pazienza la poesia. Allora sulle notti, sulle marine, sui vasi di fiori, sui boschi passerà l’ala di un ansimare eterno, un respiro senza tempo. E alla fine avviene un altro fenomeno: questo alito si trasforma in luce, nella luce che si condensa quasi sempre al centro del quadro.Soavi ha scritto di «una luce che scende dal cielo con la stessa misteriosa forza con la quale i pittori antichi illuminavano i soggetti religiosi, l’Annunciazione in particolare». Questa luce, scoppio, apocalissi, evento naturale, memoria fantastica o segnale psicologico che sia, non richiede commento, è appunto misteriosa; è come l’anima materiale di una grande arte.
Roberto Tassi