Per quindici anni Jean-Pierre Velly fu più che un amico, un vero fratello. Fu sempre presente in quell’avventura che fu la creazione dell’Arte Visionaria, fu anche un grande amico dei bambini e della famiglia.
Velly ha lasciato un doppio messaggio: la venerazione illimitata della bellezza, della luce, e la visione di una distruzione irreversibile della natura. Ha costruito la sua vita e la sua opera tra amore e disperazione.
Un’opera di una forza straordinaria, di un’intensità e di una nobiltà indescrivibili dove talvolta appare l’insondabile mistero della vita e della morte. Una dignità implacabile del tratto, un maestro della vibrazione luminosa, una dimensione d’essere che non smetterà mai di innalzarsi.
“Memento mori”. L’immagine della morte era fra tutti il suo tema preferito. Ha disegnato, inciso, dipinto un simbolismo della morte attraverso crani, insetti trafitti, oggetti inanimati.
Velly ha costruito la sua morte giorno dopo giorno, a volte chiamandola coscientemente e, a forza di tentarla, di chiamarla, lei arriva inesorabilmente e senza dubbio prima del tempo. È la qualità visionaria che si incarna a colpo sicuro.
“Guardo cio che è, non ho problemi di coscienza, ci sono una vita e una morte: in entrambe c’è un modo di stimolare, di essere vivo, di vedere l’esteriorità delle cose e, al di là di essa, di dare –attraverso cio che è- una forma che crea probabilmente quella che tu chiami la visione”.
“Guarda Grünewald e Cranach: ‘Il mondo distorto delle forme è un mondo dove la vita scopre la sua caricatura, smorfia nelle sue ultime contorsioni. Tutti questi corpi nodosi, fatti di arabeschi selvaggi, dove la natura si riappropria dei suoi diritti caotici, dove il mondo si mostra alla rovescia. Diavoli dall’espressione contratta si impadroniscono delle forme e conferiscono loro una bellezza perversa, l’orrore che l’occhio contempla è quello della dissoluzione finale. E da questo fascino della morte, del disfacimento delle cose prende forma la vita come un estremo grido ’”.
Velly è un gran pittore, non perché egli tradisca la natura, ma la ricompone restandole fedele, aggiungendo l’anima della sua visione alla visione della natura.
Questa luce non è più quella del sole, quest’altra luce che egli talvolta dipinge come una luce nera non è altro che la luce della sua visione. Una luce interiore che si somma a quella naturale, una bellezza dello sguardo che libera la bellezza e le vibrazioni di mondi invisibili. La luce diviene un’anima viva, imprigionata sulla tela essa risplende impalpabile, conservando tutto il suo inesauribile mistero.
Si, quest’altra luce esiste ben oltre le apparenze. Ha attirato Velly nel suo mondo dal fascino ambiguo dove l’uomo deve nascere attraverso la propria luce interiore.
Una luce così potente da plasmare l’essere e le cose.
Eppure quando gli esseri e le cose si cancellano, questa luce, questo sguardo che abbiamo portato dentro di noi, rimane. È senza dubbio l’unico modo di esistere in questa realtà, di lasciarvi una traccia duratura. È l’occhio interiore che descrive i nostri segni, ovvero le nostre ferite e i nostri amori. Subito dopo questa traccia si arresta e inizia un altro viaggio.
Per i creatori la morte è il momento che interrompe bruscamente una scrittura incompiuta, una morte che “arriva come un ladro”, un momento che scandaglia il cuore e il corpo prima che ci si possa porre la domanda: cosa abbiamo fatto della nostra vita?
La scomparsa di Jean-Pierre Velly fa parte di quella logica insopportabile degli eventi irriducibili e inaccettabili che ci fanno perdere una parte essenziale della vita. La vita continua eppure qualcosa è scomparso, niente sarà più come prima. Le ragioni del cuore non conoscono altre ragione che la propria, esse restano intraducibili.
Se non ci percepisce la poca importanza che si dà alla propria scomparsa mentre quella di coloro che si amano intensamente è peggio della propria morte, si rimane là coscienti, inebetiti da non poter rifiutare questa evidenza.
(Traduzione di Isabella Ceccarini)