GUIDO ALMANSI
LE TRAGEDIE DEGLI ARTISTI
Sperava di scoprire il buio universale
Pittore e acquafortista di strabiliante abilità, il francese Jean-Pierre Velly pareva aver segnato sul volto il suo destino. Cercava il senso cosmico della natura.
Al limite, l’apocalisse
in «Arte», a. XXIII, n. 244, Milano, ottobre 1993, pp. 66-69.
Succede che la chiave di volta per avvicinarsi al mondo di un artista la si trovi per caso, in un verso che gli ruota in testa e che inavvertitamente ci ha comunicato, o in una poesia che lui ha illustrato. Nel caso del pittore francese Jean-Pierre Velly, penso a un suo verso, in una poesia compresa in una plaquette, “Bestaire perdu”, Roma, 1980. Il verso dice. “Le clair que tu hais vient du noir qui te manque”, “Dal nero che ti manca nasce l’odiato chiaro” nella traduzione di Luca Valerio nello stesso volumetto. Il ritmo delle sillabe ha una sua melodia suasiva che ostacola il pensiero. Tendiamo ad accettare l’espressione poetica ben prima di averla capita. Pure, a soffermarsi un secondo sul significato, si è assaliti da un brivido di terrore.
Come sarebbe a dire, “Le noir qui te manque”, come se qualcuno potesse lamentare la privazione di quella scura disperazione? E “le clair que tu hais”? Perché odiare quel chiarore? Sarebbe soltanto momentanea assenza di quel fondo buio che ti costituisce? E un verso di un pessimismo cosmico assoluto, che noi associamo ai grandi cantori della negatività, non a quei queruli frignoni che si lamentano della natura matrigna, come Leopardi. Qui invece tocchiamo la base universale della disperazione stoica, che risale all’origine all’atto di creazione che dice beatamente “Fiat Lux” con l’ottimismo di un ministro del bilancio che annuncia il nuovo piano quinquennale. “Fiat Lux”: e allora? Sarà forse la luce preferibile al buio confortante del nulla, del caos?
La natura è minacciata dall’apocalisse, suggerisce un critico di Velly. Io andrei ancora più in là. La natura è già apocalisse, e il creare è solo una premessa inevitabile della distruzione. È un’apocalisse quotidiana, in cui il pittore sembra essersi crogiolato, magari con un pizzico di snobismo. “Vedere l’infinito in un grano di sabbia e un cielo fiorito in un fiore selvatico”, diceva un altro artista che anche lui ha giocato con l’assoluto, sia pure sul versante opposto, William Blake. Velly ha sperato di scoprire il buio universale, il dolore indiscriminato, “le noir qui nous manque”, in un ramo d’albero. Dürer, suggeriscono tutti, e sensibilità nordica o gotica, diceva Alberto Moravia in un vecchio saggio su Velly; e Mario Praz risale per gli stessi rami culturali: entrambi sono abbastanza propensi a trovare una soluzione nella più vecchiotta “Volkspsychologie”.
Ma la cosa è strana: ecco un pittore di origine francese, che è arrivato a Villa Medici e, dopo aver vinto un celebre premio di pittura, innamorato della luce e del colore dell’Italia del Sud (che però ha influenzato la sua vita più che la sua pittura, come afferma giustamente un critico), ha deciso di stabilirsi nel Lazio per arrivare a Dürer? Non è un po’ curioso? Perché Dürer? Perché certi rami d’albero di Velly (anch’io partirei da lì), osservati maniacalmente dall’artista in tutto il prepotente valore analogico del loro essere contorti, sofferti ad ogni ramificazione e biforcazione, come se la deviazione dalla linea maestra del tronco rappresentasse uno sforzo atroce che segnala lacerazione e tormento, ricordano, alla mente del critico assuefatta alla somiglianza universale, i fili d’erba di Dürer. Forse, forse. Ma “il nero che ti manca” sembra un peso logorantemente personale, nell’illusione che la psicologia individuale possa portarci un po’ più lontano di quella del “Volk”, di un popolo intero. E qui viene la tentazione di scivolare da una scienza fasulla, la “Volkspsychologie”, a una scienza altrettanto fasulla, la fisionomica.
Perché, ultima illusione, il destino di Velly sembra segnato sul suo volto. È un volto tragico, che noi associamo ai più cupi profeti, o al maledettissimo ottocentesco. E non per niente il suo poeta favorito, di cui aveva illustrato le poesie in un’altra plaquette con prefazione di Leonardo Sciascia, è Tristan Corbière, suo conterraneo della Bretagna, uno dei poètes maudits scelti da Verlaine. Non è che Velly sia disperato e quindi il suo volto riveli la sua disperazione: Velly segue fedelmente il vessillo che lui porta sopra il collo, i segni dell’angoscia marcati sulle sue guance e sul valore spettrale del suo aspetto scarmigliato. Trovo la cosa particolarmente commovente perché il volto di Velly mi ricorda quello di un amico, a me molto caro, morto recentemente, le cui opere letterarie vengono ora pubblicate, postume, con un successo fatalmente tardivo. E anche lì bisogna seguire la pista delle fattezze del volto: poco contano le origini etniche (nel caso del mio amico, siciliane) o culturali (la filosofia medievale): uno si guarda nello specchio e il suo destino è fissato: o viceversa? Nessuno può saperlo e gli spiegazionisti, come me, cascano sempre col naso per terra.
Pittore e acquafortista di strabiliante abilità, interessato soprattutto al mondo naturale in un disprezzo aristocratico (o forse un po’ snob, anche qui) per i segni della civiltà industriale, Velly non ha cercato ne il paesaggio (italiano) nella sua crudele luminosità, ne i documenti della sua distruzione, ma un senso cosmico dello spettacolo della natura al limite tra l’essere e il non essere, che è immagine precipua dell’apocalisse. Non mi sembra un artista controcorrente, ma un pittore che nuota lungo un corso d’acqua parallelo; che non è ne quello degli esaltatori ne quello dei denigratori. Noi tutti nuotiamo nella corrente della vita; lui altrove. Ed è quasi, no, non oserei dire “giusto”, che Velly sia morto annegato, ancora relativamente giovane, durante una gita in barca sul lago di Bracciano. Non giusto ma quasi prevedibile. Se si cerca il “noir” dentro di sé per tutta la vita, prima o poi lo si trova. E Velly l’ha trovato durante la tragica spedizione lacustre, ma anche prima, nei suoi sconfortanti acquerelli e acqueforti, nel suo aspetto fisico, in particolare nelle linee del volto, così teso al dissolvimento, alla consumazione, alla morte.
Sconfortanti? In un certo senso, sì. Non c’è molto “conforto” nei suoi lavori. In un altro senso, no, perché la lucidità della sua visione ci rafforza e ci consola. Anche se noi non siamo in grado di osservare il mondo e la natura con occhio così spietato, qualcuno l’ha fatto per noi.
Guido Almansi
in «Arte», a. XXIII, n. 244, Milano, ottobre 1993, pp. 66-69.
Una vita breve
Jean-Pierre Velly nasce a Audierne, sulla costa bretone, nel 1943. Frequenta l’Accademia delle Belle arti di Tolone e di Parigi. Nel 1966 con un’opera dal titolo “La clef des songes” vince il Grand Prix de Rome, l’ultimo assegnato per l’incisione, due anni prima della sua soppressione, e si trasferisce all’Accademia di Francia, a Roma, nel periodo in cui quell’istituzione era diretta da Balthus. Nel 1970, lasciata Roma, va a vivere a Formello, nella campagna laziale, dove risiederà fino alla fine dei suoi giorni, dedicandosi alla pittura oltre che alla sua prima vocazione, l’incisione, che ormai affronta solo in rare incursioni. Nel 1990, all’età di 47 anni, durante una gita in barca con il figlio sul lago di Bracciano, Velly (che non sapeva nuotare) annega. Il suo corpo non è mai stato ritrovato.