Giuseppe Appella
JEAN-PIERRE VELLY E IL PIÙ POVERO DEI LINGUAGGI: L’INCISIONE
in Jean-Pierre Velly
Edizioni della Cometa, Roma, 2002
Il n’est plus de nuits, il n’est plus de jours
TRISTAN CORBIERE
In una intervista del 1989, Jean-Pierre Velly dichiara: “Ho cominciato il mio cammino nell’arte disegnando, dipingendo, ma finalmente, ho scelto il più povero dei linguaggi, l’incisione, il nero, il bianco, il punto. Il bianco è l’accettazione di tutti i raggi solari; il nero è la loro negazione totale. Il punto, per l’incisione, è l’impatto della punta secca su una lastra di rame, se si intende l’incisione classica. Che cosa è il tratto? Si fa scivolare questo punto sulla superficie di rame e si ottiene un tratto che può essere (oh, magia) curvo, spezzato, continuo e discontinuo. A lungo mi sono costretto a quest’ascesi rifiutando ogni artificio”.
A parte le annotazioni di carattere tecnico, rivolte all’essenziale, a una maniera di forti affinità con la tecnica niellistica, c’è molto del Velly sul quale, per alcuni lustri, si è esercitata la critica d’arte, e il tanto che fa dell’incisione il luogo prediletto dell’espressione dei fantasmi e dei sogni, un esercizio dello spirito teso, attraverso la mortificazione della stessa tecnica, negli anni sessanta attenta se non soggiogata dalle esperienze di Stanley William Hayter, di Johnny Friedlaender e di Henri Goetz, alla perfezione interiore.
C’è anche lo stupore, mai completamente offuscato, di scoprire nel segno le forze occulte della natura affidate alla sua capacità di sottoporle, in modo diretto e immediato, a uno scopo che non è il dominio del mondo fisima l’incanto della poesia. E la certezza che scavando nei grandi incisori d’ogni tempo e paese sia possibile appropriarsi di quelle basi umanistiche necessarie per andare a fondo negli effetti straordinari che connotano ogni visione magica. Perciò, Velly indica subito le tappe del suo cammino, da Dürer a Schongauer, da Rembrandt a Seghers, da Bresdin a Redon, intramezzate da scelte e suggestioni che coprono le punte d’eccellenza creativa o di significazione storica dell’incisione europea: il maestro E. S. o il maestro del Libro di Casa, Lucas Cranach il vecchio, Bruegel il Vecchio o Fragonard, dove nella non totalmente esplorata miniera di temi grandeggia una esclusiva visione della vita e del particolare rapporto umano con le cose, la traduzione realistico-lirica di aspetti e momenti quotidiani della natura, la qualità della perizia grafica, un preminente interesse disegnativo, l’aristocratica sottigliezza espressiva, il deciso timbro poetico.
E tutto questo, che in un modo o nell’altro fissa una posizione morale nel percorso lineare dell’opera incisa coordinata per soggetti sacri o profani, figurali o paesaggistici, a spiegare, sin dalle prime due acqueforti schedate nel 1980 dal Bodart, Paysage à l’arbre mort, del 1961, e Main crucifiée, del 1964, quella sorta di precarietà e di incoerenza dei corpi, propria dell’arte gotica ma attiva fino al ‘500 inoltrato, nei quali raccogliere tensioni emozionali, sofferti dissidi e la costante tentazione del paesaggio attraverso cui immergersi in invenzioni di realissime forme fantastiche costruite, disgregate e riorganizzate, tra macerazioni e ansie, sulla spinta di stimoli interiori, come emanazione passionale di cariche emotive.
Velly, da buon latino, sente fortissimo ma non inconciliabile il contrasto con il mondo nordico, anzi ne sfrutta di continuo le situazioni decorative, e la vitalità naturale (cfr. Groupe de six hommes, 1964), che da questo provengono, trasferendo in una crescente e metodica maturazione tecnica del segno inciso, nel passaggio e nelle graduazioni di trapasso dalla “maniera fine” (da orafo) alla “maniera larga” (da disegnatore-pittore), attraverso il lento sfarsi del paesaggio in luce piena, l’apparizione e il movimento delle figure nello spazio della lastra (cfr. Vague, del 1965).
Agli atteggiamenti che le figure assumono Velly dedica, tra il 1964 e il 1965, una serie di sei bulini, ai quali bisogna aggiungere l’Illustrazione per un racconto e quel E. T. ante-litteram che è il Bébé vieillard, dichiarati grotteschi per l’esagerazione fisica che li contrassegna, tanto da assorbire l’ambiente circostante costretto a subite prospettive dilatate dall’energia dei corpi tortuosamente contratti.
E’ un modo per mettere in campo, tra i vari richiami culturali dell’immagine tradizionalmente elaborata, una concezione plastica della figura e una sintesi compositiva poggiata su frequenti ritorni sul medesimo tema che, variato di sequenza in sequenza, sviluppa l’organizzazione dei segni sottratti al decorativismo degli sfondi. L’insistenza, nel medesimo periodo o a distanza di tempo, sulla composizione che muta nel titolo ma è concentrata sulla metamorfosi del segno (cfr. Equisse triptyque, del 1967, Faux carnaval, del 1968, Senza rumore II, del 1969, Enfin, del 1973), testimonia l’originaria curiosità di ricerca attiva in Velly, anche quando si appoggia a schemi necessari per dare solidità alla struttura dell’incisione, rianimati nel corso della preparazione della lastra, mediante interventi di tecniche accostate, fuse, diversificate o contrapposte con estrema perizia (cfr. Suzanne au bain, del 1970), sostituendo lo zinco col rame, partecipando col bulino e con la puntasecca nell’acquaforte, tentando la via del colore (cfr. Rondels pour Après, del 1978), deviando con la maniera nera, costruendo trittici mediante lastre di diverse misure ma di eguale tracciato (cfr. Valse lente pour l’Anaon, del 1967), esercitandosi, en plein air, al trasferimento di un vaso di fiori posto sul davanzale dello studio (cfr. Fleurs, del 1971), occupando integralmente ogni minimo spazio, quasi a voler stendere un pavimento, alzare una murata, muovere un gorgo di corpi o di oggetti (cfr. Ville détruite, del 1971 e Enfin, del 1973), descrivendo accessori (cfr. Escargot et compte-fil, del 1971), personalizzando al massimo il discorso figurativo che ha, cronologicamente, i suoi punti più eminenti in La clef des Songes, del 1966, in Rechute, del 1968, in Le ciel et la mer, del 1969, in Massacre des innocents, del 1970-1971, in N’amassez pas les trésors, del 1975, in Les temples de la nuit, del 1979, in Le rat mort, del 1986, in L’ombre, la lumière, del 1990.
Quest’ultima, pur nella diversità tecnica, si riallaccia, tre decenni dopo, a Paysage à l’arbre mort, del 1961. Uguale è la sintesi delle possibilità espressive di partenza e di arrivo, il tracciato grafico incrociato o parallelo qui tende a modellare il paesaggio, là le cose (fiori e rami secchi, bacche, foglie) che del paesaggio sono parte viva.
La necessaria revisione dei mezzi espressivi si compie con una ostinata rigenerazione di stile e tecnica e una feconda fermentazione di impulsi che cala, lungo la Germania (dimenticheremo Feuerbach, von Marées, Schirmer?), da Parigi a Roma, sempre con l’assunzione di un clima più che di schemi e formule, anche quando sono evidenti dettagli puntuali che da Dürer pervengono a Rembrandt.
Tali suggerimenti sono fondamentali nei momenti in cui Velly, sceso in quella “specie di convento laico” che è Villa Medici, s’avvia a trovare una nuova dimensione del mondo e, una volta a Formello, quell’energetica attivazione della forma che, sollecitata dalla poetica del sublime e da molteplici intuizioni psicologiche trasmutate in fattori umani, religiosi e decorativi, almeno per quanto riguarda la pittura prima, l’incisione poi, si identifica nella rigorosa sistematicità e nella disciplina ferrea del mestiere (cfr. Métamorphose IV de 1970 e Nocturne, del 1971).
Il mestiere, nella sua dinamicità, è la possibilità quotidiana offertagli per sciogliere qualsiasi pulsante nodo passionale, tutte le tensioni, tutti i moduli e i patetismi presenti nella grafica francese dei suoi anni giovani, non esclusi l’atmosfera letterario-simbolista e quel figurativismo carico di inafferrabilità assorbiti nei musei.
Il segno che si aggira senza soste sulla lastra, e vive sulla carta che ha ricevuto l’acquarello, ghermisce ebbrezze e malinconie, abbandoni lirici e acri aspetti reali al loro primo apparire (cfr. Paysage plante, del 1971). Il suo fine è pervenire a una osmosi di tante contraddittorie forze, di tempi e problemi sovrapposti, sollecitando l‘azione interna delle figure e degli elementi vegetali, provocando quel “horror vacui” che impregna lo spazio nel quale ha costruito la sua nicchia arredandola con i simboli della precarietà dell’esistenza, dell’ineluttabilità della condizione umana (cfr. Qui sait?, del 1973).
Non è priva di sottile e grottesca crudeltà l’operazione che Velly compie quando compone e lega, con ritmo e disciplina, curiosità archeologiche, masse infinitesimali di corpi e di oggetti memori di modi e temperamenti infiltratisi nel suo linguaggio, con folgorazioni interiori, per renderlo “unicum” (cfr. L’ange et linceul, del 1973, e Torre di Guardia, del 1977).
Il suo rapporto, il suo atteggiamento, con la cultura formale e con la tecnica dell’incisione su metallo - luci frante, organizzazione delle ombre, densità o meno di tratteggio, equilibri compositivi, limpida distribuzione dei chiaroscuri, toni, morbidezze evanescenti o pittoriche, dettagli curiosi, scene di folla, qualità procedurali di stampa - è tale da non considerare la possibilità di non affiancare l’esperienza pratica alla fantasia, di compenetrarle, pena l‘inaridimento inventivo, in modo che l’una rinnovi l’altra. Infatti, quando Velly si immerge nella difficile avventura del bulino, nei suoi arditi percorsi, nelle sue incredibili audacie, e, capace di virtuosismi dimenticati, ne arricciola e uncina i segni con quelli dell’acquaforte e della puntasecca, l’elaborazione del pensiero insegue il fantastico gioco delle dita che stringono l’ago divagante sulla lastra nitida, senza sfrenatezze ma una meditazione profonda, modulata nella disposizione degli elementi primari delle figure e nei risalti di dettaglio che non disdegnano, in molti casi, un sobrio ordinamento classico per accentuate virtuosità decorative (cfr. Les temples de la nuit, del 1979).
L’uno e le altre ribadiscono, in più occasioni, le folgorazioni liriche derivate dalle meditate sovversioni formali che la grafica gli offre con più ampie e inedite possibilità inventive e tecniche. Quella che i teorici dell’arte tornano a considerare con rinnovato interesse e che i tardi umanisti italiani chiamavano invenzione, assilla Velly che cerca temi inconsueti se non inediti, tali da mettere in subbuglio la storia della grafica del dopoguerra.
Riunisce nello studio di Formello tutte le fasi del fare incisorio, apparendogli qualsiasi artigiano esecutore inadeguato alla traduzione. Si intestardisce sulle pure qualità grafiche dell’incisione su rame. Attribuisce al segno la leggerezza e la flessibilità che rimarca il mordente del taglio ma al tempo stesso lo rende scorrevole, omogeneo, vivo, ira delicatezze e resistenze, tipiche della modellazione palpitante nello spazio.
Ecco perché converge spontaneamente nel suo lavoro l’espressione dinamica di Dürer e i soggetti mitologici o biblici si susseguono assumendo titoli apparentemente pretestuosi di fronte all’apocalisse che sulla lastra si consuma, con libera immaginazione e rinnovati spunti tematici bruciati da una fantasia incandescente (cfr. Métamorphose I, II, III, del 1970).
Gli attraversamenti operati dall’incisione classica, in alcuni casi fondamentali, per Velly altro non sono che un modo inconsueto di accostarsi al mondo reale passato dalle ridondanze compositive dei primi anni agli approfondimenti prospettici, pervenendo, infime, con la maniera nera, a ciò che per Dürer fu l’esperienza dell’incisione su rame sostitutiva della xilografia. Lo schema primitivo viene avvolto dalle vibrazioni d’un anica sostanza pittorica e da una nuova struttura spaziale, di linfa tutta italiana, che progressivamente, dagli inizi degli anni Ottanta, prendono il sopravvento sullo spirito flessibile della puntasecca, sui tratti sottili del bulino dispersi negli incroci di colore. Fiori lunari, rovi, ortiche, ranuncoli, tralci di rose, anemoni, bucrani, melograni, cardi occupano i davanzali delle finestre aperte, prima che calino le ombre, sul paesaggio o sul mare, per Un peu plus de lumière. Le cascate d’alberi, le vecchie querce, i ruderi si animano dei primi animali (topi, civette, pipistrelli), gli interni delle stanze mutano nell’oscurità che avvolge i nudi distesi sui letti disfatti, condensano la disperazione del pittore, prima della grande burrasca, sul turgore delle forme, sullo specchio che rimanda la propria immagine con l’orologio.
E una immagine, attenta ai minimi particolari del volto o delle mani, che si immerge nel respiro universale condizionando con la prospettiva degli ambienti architettonici, con i campi lunghi, con la modellazione densa, con l’estensione delle dimensioni che, al contrario, si restringono nell’incisione (cfr. Arbre, del 1989, e L’ombre, la lumière, del 1990), luce e ombre.
Nasce l’incanto di una coralità distesa che l‘uso continuato della matita, della punta d’argento, dell’inchiostro, dell’acquarello, dell’olio su tavola, della tecnica mista, accorda morbidamente, con tratti paralleli, focalizzati in punti dove sia necessario modulare in armonia i passaggi luminosi mediante un sistema alternato di bianchi e di neri, e un lento rarefarsi dei bianchi in grigi che accentuano la sospensione e il tono visionario. Ne deriva un dissolvimento dello spazio come rappresentazione e il tentativo, subito riuscito, di condensarlo in un punto luce, in un unico brivido luministico, dall’intenso sentimento mistico. L’equilibrio di Dürer, l’intuizione cosmica di Altdorfer, il segno e la luce di Rembrandt, la tensione di Grunewald, si sono finalmente fusi. Da questo momento, il linearismo verrà risolto pittoricamente, pulserà come un respiro.
Non poteva essere altrimenti per il Velly che, agli inizi degli anni Ottanta, assillato dalla necessità di una rinnovata terminologia e da crisi esistenziali, si era imposto una epurazione dell’incisione iconograficamente ferma a un naturalismo carico di introspezioni e di simboli.
L’irrequietezza latente fin dal 1974, quando con Arbre et coquillage indica come la pratica del pensiero incida sulla sua coscienza e in che modo il segno segua l’osservazione fatta di sé stesso (“natura nativam faciem”), è alla base di ogni successivo sviluppo, dello slancio lineare come dell’ariosità pittorica affini agli acquarelli e agli inchiostri coevi che Velly realizza dal 1976, con minute precisazioni descrittive e atmosfere concentrate.
Le opere ispirate dalle poesie di Tristan Corbière sono un esempio in tal senso e trovano il loro corrispettivo nell’incisione che accompagna il volume edito da Giuliano de Marsanich con un commento di Leonardo Sciascia. Invenzioni e sollecitazioni prodotte dall’accesa visionarietà del poeta maledetto, risultano di una travolgente istintività negli acquarelli che s’impennano in sconcertanti impaginazioni di sapore barocco tutte scorci e spazi misurati che nel bulino, coaudiuvato dall’acquatinta e dalla maniera a zucchero, non assorbe quella quantità d’aria trasmutante la fisicità del soggetto. Una tecnica agguerrita e sapiente, attenta ad equilibri di valori, trova nel colore un mezzo inadatto a esprimere mondi opposti, pensieri macerati in arroventate fantasie, allegorie, vibrazioni cosmiche, vitalità brulicanti negli infiniti fremiti del paesaggio laziale, moralità latenti e quella penetrazione cosi acremente e immensamente umana presente in Petit Crâne e Débris, del 1970, in Nocturne, del 1971.
Rondels pour après, in realtà, resta un caso isolato nella grafica di Velly, una frattura di linguaggio che rende possibile una nuova consapevolezza. La sua cultura larga e sottile sorvola, senza tentennamenti, sui richiami del colore che lo condurrebbe verso rese pre-impressioniste e torna a immergersi nel tessuto dialettico luce-ombra. Non per presunto accordo atmosferico. Sente i valori del colore nella realtà, non nelle incisioni “povere” che assumerebbero effetti pittorici cari ai non amati peintres-graveurs di tradizione francese. Ama, al contrario, le puntinature rugiadose che, gradualmente, in dimensioni medie o piccole, estraggono dalla lastra forze ignote, dubbi, sussulti, e quella scabrosità smorta che d’improvviso muta in abbaglio, in emozione-luce vagante, in neri filamentati, qui e là graniti, in dolore stagnante in rifugio silenzioso d’ombra (cfr. Restes, del 1980) che non sgretola le tante faville incrostate sui fondi irreali o le figure simili a parvenze stregate, evocate come spettri.
Incidere, per Velly, è come spogliarsi della vita. Alza o distende segni per arrivare alla rappresentazione dell’energia della figura che, fin dagli inizi, formicolante di atmosfere misteriose, è il multiforme ritratto interno di sé e della tragica sua disgregazione.