Anna Colliva
Jean-Pierre Velly, un ipotesi di lettura
Milano, marzo 1994
Numero 17 di “Grafica d’Arte”
Nei mesi di ottobre-novembre (1993) è stata allestita a Roma, a Villa Medici, presso l’Accademia di Francia, una grande mostra dedicata a Jean-Pierre Velly, con l’esposizione di 125 dipinti e disegni (dal 1972 al 1990), e una scelta di 47 incisioni, anch’essa estesa lungo l’intero arco della sua vicenda artistica. A commento di questa esposizione e della mirabile e non facile arte di Velly, proponiamo ai lettori questo scritto di Anna Colliva, che tenta di suggerine alcune chiavi di lettura.
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Dopo aver visto la mostra romana di Villa Medici, che ha presentato una vasta rassegna antologica dell’opera di J.-P. Velly, viene naturale parlare, sopra di tutto, di un’esperienza umana. Più che mai in questa occasione sono venuti in risalto i modi formali di quel’ “andare al limite estremo di se stessi”, che è un carattere esplicitamente dichiarato da Velly come individuale condizione di vita, o di lavoro artistico, indistitamente. Più in particolare, esso si concreta in Velly nell’attrazione costante, attraverso l’arco delle sue opere, verso il momento di trasformazione delle sembianze.
Una condizione, che, in sintesi, si trova configurata nel punto. Un punto di variabile determinazione, dove il disfacimento si risolve nella germinazione convulsa di nuove sembianze.
Ora, la mostra di Villa Medici ha consentito di constatare, nella sua più ampia espressione, il manifestarsi di questa metamorfosi, e ha svelato proprio nella pratica vitale della metamorfosi sta la chiave per ricercare la verità, nell’arte. Vi è un passo logico intermedio di questo processo, che la pienezza dell’opera d’arte consente di tenere implicito. Tuttavia, a volerlo esplicitare, come forse richiede a un discorso, è chiaro che la metamorfosi è per Velly la conseguenza di un indagare nella condizione retrostante la coscienza, ove si può cogliere il pensiero allo stato più vero. E l’arte che aspiri a tanto è un’arte che vuole esprimere una verità e non un’esplicitazione della coscienza.
Non credo che né critici, né amatori avvertiti abbiano mai aderito con troppa convinzione alla semplificazione in sigle dei caratteri espressivi dei vari artisti; e non c’è dubbio quindi che già fossero abbastanza implicitamente d’accordo sul fatto che parlare di Velly come di un pittore “figurativo” non era che una convenzione interpretativa. Tuttavia, per evitare gli equivoci, che con il tempo possono nascere dall’uso convenzionale di un termine, sarà utile considerare che conseguenza di questa ricerca di verità da parte di Velly, al di là dell’apparenza del pensiero ricevuto, comporta la certezza che la profondità del vero non sia nel visibile ma in una intensità soggettiva nella quale si annodano il vedere ed il pensare, in quel meraviglioso confidarsi dell’inconscio con il cosciente che chiamiamo sentimento, secondo la parola di C.G. Carus, che opportunatamente Marisa Volpi aveva richiamato in suo testo del 1986, proprio per spiegare l’ispirazione di Velly. Questo nodo interiore è figurabile come un punto, “un point c’est tout” dice Velly stesso a titolo di un’incisione, dove una metamorfosi di microscopie esasperatamente definite si confonde nell’instinzione del proprio vorticoso accumularsi. Un punto magmatico, generatore di moltitudini e trasformazioni, inafferrabile in sé, poiché la propria semplicità è un’astrazione: quale paradigma elementare della percezione o piuttosto dell’immaginazione di un universo costituito da pulviscolo del “sentimento”.
Velly ha scoperto la sostanza pulviscolare come sabbia di questo sentimento, e nell’apparenza di un magma sabbioso, formicolante di vibrazioni, le forme si intravedono nel loro sforzo drammatico di distinzione, vittime ed eroi della metamorfosi progredente. Come un divenire universale, in cui con analoga drammaticità di quanto accade nelle sembianze, anche , simboli e memorie, si configurano e accavallano, si trasformano e dissolvono. E’ un tale fenomeno che Moravia percepì, descrivendo, con grande trasparenza, “il particolare definito con gotica esattezza e l’universale evocato con romantica vaghezza.”
Quest’identità poetica, che non ha mancato di imporsi subito come il carattere di maggiore evidenza nell’opera di Velly, risalta ora, dopo la mostra di Villa Medici, proposta con una completezza che l’ha resa ancor più coinvolgente e convincente; ad esempio nella raccolta di incisioni esposte, dalle prime acqueforti del 1965-66 agli ultimi fogli. A partire dalla produzione acquafortista si è manifestato nella mostra il sopravvenire del colore nel disegno ed il suo apporto espressivo con il segno grafico. Soprattutto è stato possibile considerare complessivamente, cioè attraverso i diversi periodi dell’artista e le diverse innovazioni tecniche successivamente affrontate, il confronto artistico di Velly con l’indistinta vitalità del sentimento; tale confronto, che è poi la sua esistenza artistica, comporta un intervento d’ordine, quello artistico, che non uccida l’entità magmatica, sabbiosa e puviscolare in cui Velly ritiene consistere l’ispirazione.
Da tutto ciò si comprende come lo strumento di Velly non sia tanto l’occhio, individualmente e distintamente, bensì l’esistenza nel suo complesso. All’esistenza della natura e delle cose Velly è legato con un’intensità panica e di totale coinvolgimento, senza che alcuna funzione vi sia privilegiata distintamente rispetto alle altre. Questa intensità nel riportare ogni cosa a se stesso, a un se stesso spinto al proprio limite estremo, pone ogni cosa in una condizione di relatività soggettiva, per cui cade, come priva di senso, la distinzione tra il reale e l’irreale, così come quella tra l’organico e l’inorganico: tutto vive, giacché tutto nella sua fantasia riceve forma e Velly possiede una concezione esasperantemente vitale della forma, e tutto è pertanto riconducibile all’esistenza del soggetto, e tutto infine prende vita dall’essere percepito e sentito dal soggetto. Questo totale coinvolgimento, questo intenso procedere nei terreni della coscienza e della subconscienza attraverso i quali l’esistenza trascorre, senza una ragione prederminata, ma ricollegando a posteriori finanche ogni vibrazione in una coerenza di ciò che è stato vissuto, forse spiega come mai gli esegeti di Jean-Pierre Velly, o i suoi quasi compagni di viaggio siano stati soprattutto letterati, uomini insomma che alla scrittura attribuirono un intreseco ed autonomo valore di ricerca nell’espressione di un’identità interiore ( e letterati in questo senzo possono considerarsi, a fianco a Leonardo Sciascia o Alberto Moravia, anche tra gli esegeti, M. Volpi o J. Leymarie). Ed infine, ancora per questa identità di coivolgimento essenziale, il modo in cui si pone alla conoscenza è quello di un colloquio suggestivo che coinvolge l’osservazione in una totalità di communicazione che ne fa un’esperienza umana, prima che visiva o estetica.
Nota biografica
Jean-Pierre Velly è nato a Audierne, in Francia, nel 1943. Ha compiuto i suoi studi alla Scuola di Belle Arti di Tolone e alla Scuola di Arti applicate di Parigi. Dal 1967 al 1970 ha lavorato all’Accademia di Francia di Villa Medici, a Roma. Dopo questo anno si è trasferito a Formello, in provincia di Roma. E’ deceduto, in seguito a una disgrazia sul Lago di Bracciano, in località Trevignano, nel 1990.
(Anna Colliva, Jean-Pierre Velly Un’ipotesi di lettura, in “Grafica d’arte”, a. V, n. 17, Milano, gennaio-marzo, pp.28-30).