Jean-Marie Drot
Jean-Pierre Velly o il tempo dominato
in Jean-Pierre Velly, Accademia di Francia 1993 Fratelli Palombi
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Jean-Marie Drot
Direttore dell’Accademia di Francia a Roma 1983-1993
(Traduzione di Romeo Lucchese, rivitato da P.H, 2020)
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Simile ad un marinaio della sua nativa Bretagna, Jean-Pierre Velly fu inghiottito, non nell'oceano che, ad Audierne, aveva affascinato la sua infanzia, ma nelle acque subdole di un lago italiano. A Bracciano.
Ma forse Velly non è morto? Si è ritirato. Da qualche parte. Ha voltato le spalle. Senza una parola di spiegazione, è scomparso, ha lasciato il nostro mondo di apparenze. Ha attraversato la superficie dello specchio acquatico così simile a quelle lastre di rame su cui, per molti anni, pazientemente, ha inciso i segni del suo universo.
In questa scia marina, negli schizzi liquidi che lo ricoprono, al margine delle acque, Velly ci lascia i suoi autoritratti che sempre – e più che mai- ci interrogano, osservando, al di là delle nostre fragili, effimere presenze, lo scorrimento impercettibile del tempo.
Oggi mi colpisce per la cura con cui questi autoritratti sono stati disegnati, consapevolmente da Velly, per essere decifrati, dopo l'incidente e darci di lui un'immagine accuratamente scelta e preferita rispetto a qualsiasi altra.
Quindi, oltre la sua morte, Velly attesta che un vero artista, attraverso il suo lavoro come Penelope, grazie al suo dono di metamorfosi e alla messa in orbita al di sopra delle devastazioni della vecchiaia e della putrefazione, può trionfare sul tempo, e anche, a fine corsa, prevalere sulla morte, ridicolizzarla, strapparle una vittoria più certa, più definitiva di quella promessa dai sacerdoti ...
Insomma, l'antico sogno degli Egizi ripreso da Velly nella sua fucina di Formello. Tutto intorno, in questo studio che era quello di un alchimista più che di un incisore, rivedo questo ambiente caotico che Velly aveva raccolto: ali di libellule pendenti, ossa sbiancate di talpe e di topi campagnoli, scheletri di pizzo di uccelli di campi. . .
Un giorno là, avevo ascoltato il minuscolo rumore di un metronomo che copriva i grattiti testardi del bulino di Velly dedito a regolare il suo conto alla morte con la stessa sicurezza con cui l’acido solforico distrugge la carne…
Chi fissa così aspramente L'Autoritratto a colori del 1988, gli occhi negli occhi, con la forza terribile d’uno sguardo che raggiunge l’osservatore dopo aver attraversato spazi siderali? Si…, chi fissa…?
Quasi mascherato, l'occhio sinistro di Velly è ancora velato da una foschia autunnale, ma sotto l’arcata nera del sopracciglio ad accento circonflesso il destro non batte ciglio e, senza confronti affronta, per dettare i suoi ordini, una morte timorosa, rattrappita, che si cela dietro le quinte, con i piedi forcuti presi nelle pieghe della tunica…Sullo sfondo di una notte senza tempo, questo ritratto di Velly è quello di una sorta di Robur il conquistatore, un astronauta vincitore che ritorna a noi dai confini della Via Lattea, dopo aver contemplato il pianeta Terra e sapendo da una buona fonte ch’esso è proprio, come afferma il poeta, “un’arancia blu…”.
Pensando molto amichevole di Velly, aprendogli la porta a della Villa Medici che l'ex borsista conosceva nei suoi minimi recessi, e dove, fra poco, si unirà ai suoi veri antenati; voglio guardarlo ancora mentre mi guarda, ma questa volta, nell’Autoritratto del 1987: si è rappresentato senza compiacimenti con una certa severità; i capelli fluttuano, il busto è dritto, la bocca un po 'amara; gli occhi di Velly scrutano, fissano con alterigia, ma chi? Cosa? Qualcuno?
L’avvicinarsi d’un nemico? D’un pericolo? Sempre lo stesso? Eppure su questo volto di Condottiere (nel senso in cui lo intendeva André Suarès nel bel libro sul suo viaggio in Italia) io non leggo la minima paura. Se c'è ansia, si nasconde dentro. In fondo. Se vi è angoscia, essa si nasconde all’interno. Nel profondo. Dietro la scorza. Soltanto per sé.
Jean-Pierre Velly o il tempo dominato.
Velly o “il cavaliere senza macchia e senza paura”. Le sue armi, il pennello e il bulino, sono rimasti sul banco, serbando ancora un po’ del calore della sua mano. Alcuni diranno e, naturalmente, durante il nostro colloquio avevo posto a Jean-Pierre Velly questa inevitabile domanda… che il suo lavoro è per eccellenza "controcorrente". Ma controcorrente di cosa? Al guazzabuglio ridicolo che ingombra – ci si chiede per quante lune? gallerie e musei di Francia e di Navarra? per la più grande esultanza di un Marcel Duchamp in fondo alla sua tomba normanna ...
Contro corrente?
O meglio, un'affermazione di un'arte voluta, scelta, intessuta be aldilà della moda? Secondo un’esigenza strettamente personale e tanto morale quanto estetica.
Inoltre, i può essere ancora in anticipo o in ritardo sulle manifestazioni lugubri che programmano tristemente i funzionari delle pompe funebri delle arti concettuali internazionali? Cioè di nessun luogo…
Perché il nulla implica nient'altro che se stesso. Niente è niente. Niente di più. Niente di meno. Noi siamo sempre più numerosi a pensare che tutto dovrà essere riconquistato, un giorno. Al di là di queste macerie. La clessidra è stata frantumata, sbriciolata.Restano soltanto i rottami di un mondo che ha vergogna di se stesso.
Di Jean-Pierre Velly, al contrario, all’estremo confine del visibile, io ammiro il talento per afferrare l'interno e l'esterno, la pelle e l'anima, la notte e la luce, le rovine e il presagio di un rinnovamento.
Di un Rinascimento.