Lorenza Trucchi
Jean-Pierre Velly ricordato a Roma a tre anni della tragica scomparsa
La spinta della luce
Il Giornale 7 novembre 1993
Dopo aver visto a Villa Medici l’emozionante retrospettiva di Jean-Pierre Velly (l’artista di rigine bretone, nato a Audierne nel 1943 e morto nel 1990 nel lago di Bracciano) dove anche alcune opere di troppo, minori e ripetetive, commuovono per il loro valore testimoniale, appena giunta a casa ho preso il libro di Henri Focillon sui Grandi maestri dell’incisione. Quasi un gesto automatico.
Sapevo che nel mirabile saggio su Dürer avrei trovato ancora una prova inconfutabile alla teoria sulle affinità elletive che spesso legano artisti di epoche diverse. “ Dürer, scrive Focillon, varcò le Alpi, discese verso il sud. Due passioni, ugualmente forti, lo possiedono: nessuno più di lui fu più sensibile alla particolarità dell’oggetto, al carattere della forma, alla violenza e alla complessità delle cose naturali, al vasto e poetico caos dell’universo, e nessuno tentò più energicamente di ridurli a pura intelligibilità.
Questo cesellatore di fiammeggianti fogliami, questo calligrafo ornamentale che si attarda in un labirinto di intrecci e di foglioline, ha voluto costruire un’immagine dell’uomo che fosse l’esempio e il modello dei procedimenti della ragione. Dürer è un poeta e un matematico dello spazio, un teorico e un ispirato ... Oggi cosa lo sollecita o lo turba; capace di dotare l’inanimato di una vita enigmatica ...”.
Che Velly si ispirasse a Dürer l’ho pensato, da quando, nell’aprile del 1971, vidi la prima personale dell’artista, allestita alla Galleria Don Chisciotte di Giuliano De Marsanich. Velly era da poco uscito dall’Accademia di Francia, dove aveva soggiornato per tre anni, Grand Prix de Rome per l’incisione, ma la mostra passò pressoché sotto silenzio.
E’ quasi ovvio ricordare che gli artisti hanno spesso un loro lume: più di un maestro, un privatissimo Dio, con il quale incessantemente colloquiano e del quale, soprattutto, percepiscono lo sguardo giudicante, esigente, implacabile. Un Dio che possono tradire, persino rinnegare, ma al quale nel profondo, restano legati. Qualche esempio. Per Ingres fu Raffaello; per Seurat, Piero della Francesca; per Duchamp, Leonardo; per Morandi, Cézannes; per Bacon, Michelangelo. Questo legame non impedisce agli artisti di essere se stessi, di esercitare il libero arbitro, elaborando, adattando, trasmutando questa misteriosa eredità non genetica e, tuttavia, concreta, fisica oltre che spirituale, alle proprie ricerche ed alle ineludibile sollecitazioni del proprio tempo.
Il referente, meglio la coscienza occulta di Velly, fu Dürer, una influenza diretta, quasi testuale che si manifestò sin dagli inizi quando l’artista praticava esclusivamente l’incisione: per lui non solo una tecnica ma una vocazione. Uomo del nord, neo-gotico, egli adottò il linguaggio di Dürer, minuzioso e limpido, pungente e fluido, basato su un sistema esatto, geometrico, e caratterizzato da un segno che tutto distingue pur puntando alla totalità ed alla simultaneità. Ricordo come Velly, nei primi anni Settanta, trasformasse le foreste dureriane gremite di simboli teologici e metafisici, in accumulazioni di oggetti, persino in discariche di rifiuti, quasi un pop anomalo, visionario e apocalittico. Trasferitosi definitivamente a Formello, Velly sente la suggestione della campagna romana e di una luce intensa e cangiante. Le sue incisioni presto si connotano per forti effetti di chiaroscuro: dilaganti bagliori lacerano la profondità dell’ombra. Si insinua una tentazione romantica che l’artista domina con esercitata perizia sino al limite del virtuosismo. Si vedano alla mostra «Massacre des innocents» ( 1970) , quasi un omaggio a Seghers ed ad Ensor, e «Les temples de la nuit» (1979) e «Qui sait?» (1973), che echeggiano il simbolismo di Redon. Ma ben presto Velly si rende conto che l’eccesso di mestiere può nuocergli sino a fame il manierista di se stesso e proprio per uscire da questa impasse incomincia a dipingere. A indicargli la strada è ancora Dürer, il Dürer intimo, delicato, fragrante degli acquerelli e dei guazzi che riproduce con umiltà le cose della natura «come sono». Nascono così, a partire dagli anni Ottanta, le mirabili serie degli acquarelli che costituiscono il fulcro della mostra di Villa Medici.
Velly si rivolge alla natura giacché in essa è la verità. Ricordiamo ora un passo degli scritti teorici di Dürer: «La vita della natura manifesta la verità. . . quindi osservala diligentemente ed attieniti ad essa». La verità, che già opportunamente il pittore tedesco distingueva dalla realtà, è dunque seppellita nella natura e solo chi può estrarla la possiede. Con diligente, scrupolosa manualità artigiana ed estremo rigore formale, Velly indaga la natura, spesso per brani, per campioni, scelti dal mondo animale e vegetale. Ogni particolare lo attrae, anche il più umile e scostante. Il suo pennello è affilato come un bisturi, il foglio si trasforma in un tavolo anatomico, c’è infatti qualcosa di crudele, spietato e, insieme, di amorevole e doloroso, nei suoi acquerelli di piccoli animali e insetti morti. Altre volte il pittore crea delle vedute decisamente romantiche, quasi alla Turner, collocando in primo piano mazzi di fiori dipinti con capillare e capzioso verismo. Elemento unificante e coibente è la luce: di fatto il vero soggetto del dipinto.
Osserva Marisa Volpi nella lucida e appassionata introduzione al catalogo: “Nei dipinti di Jean-Pierre Velly emoziona la spinta vibrante della luce; una luce che viene dal buio.” E anche questa luce, pur carica di valenze simboliche, il pittore vuole analizzare scomponendone il magma incandescente in miriadi di sottilissimi raggi, quasi un anomalo divisionismo. Un procedimento che raggiunge il massimo nel paesaggio del 1986 “Un peu plus de lumière” e nel “Tramonto verde” del 1989. Dunque, fino all’ultimo una ostinata precisione, una perseveranza artigiana che si fa ascesi, ma anche una sorta di dolcissima esaltazione: “ Con il colore, afferma in un dialogo con Jean-Marie Drot, avvenuto poco prima della tragica morte, mi piacerebbe raccontare che nulla è grave.”
Sarebbe tuttavia un errore pensare ad uno stato di leggerezza, di serenità. Velly è un temperamento “faustiano”, il suo travaglio interiore è insanabile, ne sono prova i molti, bellissimi autoritratti, dove ci appare come un personaggio remoto, fuori dal tempo. Come Dürer “un uomo di dolore” dominato e segnato da una “melancolia generosissima.”
Jean-Pierre Velly Roma, Accademia di Francia, villa Medici, fino al 28 novembre. Catalogo Palombi.
Lorenza Trucchi, La spinta della luce, in « Il Giornale nuovo», Milano, 7 Novembre 1993