Giorgio Soavi
Il quadro che mi manca
Garzanti, Milano
1986
Un pittore che imitava perfettamente i fiori dal vero si trovò un giorno senza più paragoni con la realtà. Perché ciò che vedeva era la copia di ciò che avrebbe successivamente dipinto. E ciò lo angosciava pensando che la propria bravura fosse una battaglia perduta in partenza. Cercò allora di avere rapporti più decisi con i suoi amati antagonisti e quando lavorava con l’occhio al mazzolino dei fiori infilati nel bicchiere e il foglio sul quale stendeva acqua e colori, aveva qualcosa da dire, a quei fiori di campo che ormai lo guardavano nella loro doppia immagine come se il primo fosse il siamese del disegno, e in definitiva egli fosse, a sua volta, una figura insopportabile che in qualità di padre dei due aveva messo al mondo la stessa creatura. Spesso, prima di addormentarsi si chiedeva chi, dei tre, fosse il più bravo e soltanto quando i fiori che stavano nel bicchiere si accasciavano su sé stessi perdendo la vita, l’uomo che li aveva ritratti riusciva a calmarsi anche se, l’indomani, la storia si sarebbe ripetuta: perché il suo destino, per il momento, era disegnare fiori.
Aveva anche provato a togliere anzitempo vita e colore a quei fiori di campo, lasciandoli stesi e recisi sul tavolo perché deperissero rapidamente. Ma i fiori, incuranti di questa crudeltà, erano ancora più belli e lanciavano verso il suo sguardo colori e pose struggenti e un odore particolare che gli faceva amare ancora di più. Quest’odore, che qualcuno potrebbe chiamare mortale, lo inebriava e gli suggeriva nuove aperture come se il loro stato febbrile di personaggi in via di deperimento gli mandassero a dire parole suoni e forme ancora più attraenti di quelle che aveva disegnato quando stavano recisi nei bicchieri.
L’uomo seguiva tutte le fasi e le prospettive di quel fascio d’erba posato sul tavolo e capì che la loro forma era ancora più affascinante quando i fiori recisi diventavano secchi. E adesso con quei rametti consunti sul tavolo inseguiva la nuova realtà che gli imponeva di creare nuove famiglie identiche tra loro perché la sua bravura non aveva vie di scampo se non quella di disegnare la copia, secca o bagnata, pallida o rugiadosa, tenue o carnosa, di quella natura che posava per lui.
A questo punto il pittore francese Jean-Pierre Velly si mise l’animo in pace, decise che questa sua vita era quella e che il suo mestiere di pittore era veramente inspiegabile. Per tanti anni aveva cercato di dare della propria arte, la metamorfosi di qualcosa che stava davanti ai suoi occhi nella sua perfetta bellezza. Non avevano fatto così i tanti pittori che lo avevano preceduto? Ciascuno a suo modo, aveva dato ai fiori caratteri violenti o tenui, Van Gogh aveva dipinto girasoli in battaglia con il sole cocente di quelle pianure in Provenza; Matisse gli aveva ritratti come se stessero sdraiati in compagnia di odalische estenuate da lunghi pomeriggi di silenzioso torpore, mentre Jean-Pierre Velly aveva semplicemente trovato il modo di disegnare la verità delle ombre riflesse sul foglio di carta. Un artificio che lui aumenta strappando i suoi fogli, torturandoli per farli sembrare vecchi di strappi, di macchie che per nessun motivo al mondo potrebbero restare separate dal disegno. La gente guardando i suoi acquarelli avrebbe detto che Velly era il più bravo a disegnare i fiori, perché il più incantato della natura: una perfetta replica della bravura del creato.
In una stanza del centro di Formello c’è lo studio di questo uomo di 40 anni, vestito con il giaccone dei marinai bretoni e gli zoccoli di legno, due grandi case di legno nelle quali entrano i suoi due piedi infilati nelle pantofole di panno perché fa freddo. Un’aria di gelo perenne quello che c’è in campagna e al quale la mia schiena di cittadino non è abituata che si annida subito nelle ossa per poi dilatarsi nella carne e spingersi nei vestiti. Fuori è primavera, i cani bianchi dormono al sole, i gatti non aprono neppure gli occhi. Nel suo studio due cartelli avvertono: qui dentro non si tocca niente. In una scatola di cartone c’è il rimasuglio fossile di un gattino morto con la bocca spalancata di chi ha miagolato o sbadigliato a lungo; sui tavoli relitti di insetti, di ossa, matite e temperini e finalmente i fiori che lui disegna. Sono quasi tutti piantati come chiodi nel muro, tra una pietra e l’altra e sporgono come ciuffi naturali. Nei vasetti le ortiche, le erbe dei campi, i fiori arancione che hanno dato la luce agli acquarelli fatti quest’anno. Posso affermare di aver visto la migrazione - emigrazione? - del pensiero tra i fiori e il loro pittore.
Questi qui dello studio di Formello si sono immedesimati in Jean-Pierre Velly che poi disegna su vecchie carte con aggiunte di pezzettini di carta, simili a piccoli rattoppi su una mappa e i loro colori anche se sono verdolini hanno un fondo color biscotto, pochissimo cotto.
Si tratta in generale di erbe posate su un tavolo o sistemate in un bicchiere d’acqua. Lo sfondo è talvolta grandioso perché dietro quei davanzali di fiori ci sono notti stellate, le onde di un mare di acque basse o si apre su un paesaggio luminoso e immenso che mi ricorda il celebre quadro di Altdorfer dove al di là delle figure dei soldati che combattono si apre il più straordinario paesaggio di sole bruciato nel tramonto. Una visione una apertura da togliere il fiato, il mio se non altro, che è il fiato di un semplice osservatore ammirato.
La luce diffusa che sta nella sua stanza una stanza piccolina piena di muri a secco. Per ottenere la luce diffusa da acquario che colpisce i fiori, Velly ha fabbricato una specie di telaio con una carta bianca, un altarino che accompagna l’interno dello studio.