Vito Apuleo
Jean-Pierre Velly
in «Il Messaggero»
Roma, 11 dicembre 1980.
“Dall’alchimia al barocchismo di maniera. È una definizione che già altra volta ho avuto modo di usare a proposito del lavoro di Jean-Pierre Velly e che mi sembra possa riproporsi ora che l’artista francese, quasi romano d’adozione, si presenta con queste due mostre che tendono a riassumere il suo credo operativo: alla Don Chisciotte il «bestiario perduto», al Centro Culturale Francese (in piazza Navona) l’intero corpus della sua opera grafica.E non v’è frattura fra i due momenti. Questo Medioevo fantasioso e allucinatorio (come scrive Mario Praz) che serpeggia nella sua tematica; questa sorta di angoscia che popola la fantasia dell’artista di mostri usciti dalla memoria, mostri che alla luce del sole, poi, si riveleranno sostanzialmente innocui; questo bestiario che se raggela nel distacco ibernante nel quale è immerso, non rifiuta totalmente un certo gusto raffinato per la metafora evocatoria, sono tutte componenti che accompagnano costantemente l’indagine di Velly. In esse si innesta la sua prodigiosa abilità tecnica, cresce il tarlo del bulino, matura un addensarsi poetico di sentimenti che, lentamente, tendono alla scoperta di reattività emotive che, per la profondità dell’analisi, sembrano proporsi come la scelta alla quale l’artista affida il compito di esorcizzare questa sorta di «ossessione nordica» che affolla la visione a livello di inconscio.Da un lato, quindi, la pressione di un rifiuto della ragione quasi a difesa di un segreto tenuto sotto la coperta della coscienza, dall’altro l’ipotesi redentiva perseguita attraverso l’affermazione di una fisicità realizzata per via di una manualità tesa a ripristinare lo statuto dell’arte attraverso il suo etimo”.
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Vito Apuleo
Le mostre
Jean-Pierre Velly
in «Il Messaggero», Roma, 24 aprile 1984.
“Su fogli di carta antica spiegazzati Jean-Pierre Velly racconta con questi suoi acquerelli una lunga storia di piante, di foglie, di fiori minuti e preziosi nella loro delicata trasparenza. Una storia di trepidazioni, di suggestioni romantiche, di notturni abbandoni, di meditata poesia ma anche di inquietudini e di allarmi. Perché poi, a mio avviso, non è poi così rassicurante questo racconto dell’artista francese ormai romano d’adozione. Reperti di un mondo che tende a scomparire, questi fiori, per la patina di antico che li avvolge, non vogliono essere solo un inno alla natura ma anche un fatto di nostalgia, il senso di un qualcosa che via via non trova più spazio nella condizione dell’uomo tecnologico e che Velly cattura come brandelli di memoria immergendoli in una visionarietà addensata di trasalimenti. Lo spettacolo naturale, in tal modo, costituisce solo un’immagine-schermo. Dietro di essa si nasconde una realtà psichica, carica di affetti ambivalenti, riportabili a una realtà affascinante e contemporaneamente temibile, ostinatamente legata a un’idea di grandezza ma anche di morte".
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Vito Apuleo
Jean-Pierre Velly. Magia del tempo
in «Il Messaggero», Roma, 5 aprile 1988.
“Un artista, Velly, che al tarlo del bulino aggiunge il tarlo di una visione romanticamente tenebrosa, pronta a coniugare il magistero tecnico con la sensazione, come scrive in catalogo Vittorio Sgarbi, «di un cupio dissolvi come atteggiamento dinanzi al tempo», dalla cui emerge l’inquietudine esistenziale dell’artista. Donde i suoi autoritratti scavati, invecchiati, quasi letti in virtù di una forzatura alchemica capace di superare il torbido fluire del presente, nel desiderio di inventare un’immagine e un emozione sostitutiva dell’immagine stessa. O ancora suoi nudi distaccati e astratti nella loro apparente classicità, qui si contrappongono le tensioni di alcuni paesaggi strappati al mutismo della contemplazione e tradotti in uno spazio senza tempo”.
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Vito Apuleo
Nelle incisioni malinconia
in «Il Messaggero», Roma, 28 maggio 1990.
Tragica e improvvisa ci giunge la notizia della scomparsa di Jean-Pierre Velly.
Nato a Audierne, in Francia nel 1943 e perfezionatesi presso l'Istituto superiore di Belle Arti di Parigi, Velly era giunto in Italia nel 1966, vincitore del «Premier Grand Prix de Rome» per l'incisione. Borsista dell'Accademia di Francia fino al 1970, anno in cui gli viene assegnato il «Grand Prix des envois de Rome» al Petit Palais di Parigi, a quella data si stabilisce definitivamente a Roma, scegliendo come residenza Formello.
Italiano ormai di adozione, il suo è stato da allora un incontro costante con la nostra città, nell'incidenza di una espressione figurativa che nel l'incisione ha trovato i momenti di più alta espressività.
Schivo e solitario, romanticamente legato a una sensazione della natura vissuta con malinconica tensione, egli ha così attraversato le vicende dell'arte mai lasciandosi distogliere da mode o tendenze. E l'acquaforte, nelle sue infinite varianti tecniche, è stata il suo diario e la sua avventura.
Brandelli di paesaggio urbano, relitti, frammenti di un universo di piccole cose lentamente sottolineati là a far emergere un filo d'erba, là ancora i petali di un fiore, hanno animato la sua tematica sull'onda di una emozione che indubbiamente le antiche vie e la solitudine del piccolo borgo etrusco di Formello a mano a mano gli hanno suggerito. E quando il colore ha invaso il suo percorso esso si è espresso con un chiarore profondissimo, quasi materia trasformata da un impulso alchemico. Segnata da una inquietudine esistenziale, la sua visione dunque si è costantemente arricchita di emozioni creando, come scriveva Roberto Tassi, «una variabilità formale la cui ricchezza è quasi impossibile descrivere». A ciò si aggiungano però i suoi autoritratti scavati, invecchiati, veri specchi della sua malinconia. Quasi letti cioè in virtù di una forzatura capace di superare il torbido fluire del presente, nel desiderio di inventare un'immagine e una emozione sostitutive dell'immagine stessa.
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Vito Apuleo
Paesaggi e ombre lunghe in un crepuscolo di luce
in «Il Messaggero», Roma, 21 ottobre 1991
“Scomparso tragicamente nel maggio dello scorso anno, Jean-Pierre Velly viene ricordato con una scelta raccolta delle sue opere … Sono incisioni, acquarelli, dipinti ad olio che attraversano la vicenda dell’artista, offrono l’immagine della sua personalità. E ciò ottengono confermando l’incidenza di una visione che somma alla tensione emozionale la costante di una profonda inquietudine esistenziale. Tornano cosi i suoi paesaggi romantici calati in crepuscolo luminoso nei cui interspazi le ombre lunghe delineano contorni fantasmatici. Si definiscono i misteriosi equilibri che sorreggono la delicata calligrafia dei suoi fiori avvolti da una tenerezza che sembra voler bloccare un qualcosa destinato inevitabilmente a scomparire mentre il colore si addensa di infinita lontananza e di remota felicità.
Si circonda di cupi paesaggi la convulsa tensione di un’opera come «La burrasca», del 1990: specchio di una attrazione ripulsa per la terribilità della natura. Su tutto poi domina la forza magistrale di quel segno che nell’acquaforte trova il punto più alto di espressività, segnando l’insieme di un silenzio sospeso sopra il fluire della vita”.
L’Accademia di Francia ricorda Jean-Pierre Velly
di Vito Apuleo
Curata da Jean-Marie Drot e da Giuliano De Marsanich viene proposta una retrospettiva di Jean-Pierre Velly. Torna così in quell’Accademia di Francia che dal 1967 al 1970 lo ebbe borsista, l’opera di questo straordinaria artista la cui fantasia ha sempre scandagliato un mondo in bilico tra inquietudine visionaria e la romantica malinconia. La lezione di Dürer, un certo goticismo nordico, la luce avvolge di lampi sulfurei i suoi paesaggi sono, infatti, le componenti che confermano il temperamento di Velly. Ciò all’interno di un percorso narrativo che tenta di toccare le infinite corde del sentimento. Da qui le sue incisioni rese sensibile attraverso immagini dove tutto è spasimo e lacerazione; le vedute della campagna laziale con il cielo alto sulla linea dell’orizzonte che un’improvvisa brace di tramonto avvolge di un’atmosfera che sembra voler superare le barriere del sensibile; le sue “nature morte” in cui il fiore vive il miracolo dell’istante prima che lo scorrere delle ore possa farlo appassire. E poi gli autoritratti. Vale a dire gli eccessi di una tensione caratteriale che vede gli occhi ardere come asole di luce spalancate sulla realtà. Quasi a voler dire: badate che basta una minima scossa perché i misteriosi equilibri della natura vengano sconvolti. Presagio di quella scossa che lo ha visto tre anni fa trascinato tragicamente nel fondo delle acque del lago di Bracciano; aveva appena 47 anni.
Viale Trinità dei Monti 1, fino al 28 novembre.