La necessità del vero nell’ombrae la luce delle visioni di Jean-Pierre Velly
Pier Luigi Berto
L’idea di allestire una mostra può venire a un professore dell’Accademia di Belle Arti solo come conseguenza del suo lavoro con gli studenti. Insegno disegno dal vero all’Accademia di Roma e quotidianamente disegno con i miei allievi. Il disegno è un mezzo di comunicazione interpersonale fortissimo e non tanto perché quando si disegna dal vero si trasmette all’esterno una propria percezione visiva, quanto perché quella percezione non è mai riconducibile interamente all’oggetto esterno, ma è punto d’incontro tra l’io soggettivo e il mondo. Mostrare a un allievo il modo con il quale può disegnare una cosa, equivale un po’ a mostrargli come conoscere una parte di sé, e guardare un suo disegno equivale a entrare in contatto con quella parte di lui, come, più in generale, guardare i disegni di autori moderni o antichi assieme agli allievi significa condividere con loro una dimensione dell’essere che non attiene solo a quegli autori, ma si fa nostra all’atto stesso del percepirla. Per questo non seleziono mai con criteri storico-critici gli autori che mostro, e da Dürer a Rembrandt, da Giacometti a Balthus, scelgo quelli che entrano in sintonia con la mia dimensione estetica. Velly è un artista che ho molto spesso proposto in visione, proprio perché l’ho sempre amato come un pittore può amare un Maestro: in modo innanzitutto istintivo e sentimentale. Un modo che non solo trasforma l’ammirazione tecnica in affinità poetica, ma che “riconosce” nelle immagini delle sue opere situazioni tanto familiari da instaurare con esse quasi lo stesso legame che instaura con le proprie. E sarà forse per la natura contagiosa di questo mio innamoramento, che ho riscontrato, sempre, nei ragazzi, un’ammirazione particolare per l’opera di quest’artista bretone, fatta di seduzione immediata e d’istantanea sottomissione alla magia della sua dimensione espressiva.
Per questo ho pensato di proporre alla Direttrice dell’Accademia l’allestimento di una mostra di Velly, per ricondurre questo mio amore e quello dei miei allievi fuori dai sentieri segreti della nostra sensibilità, dove conoscendolo, ci siamo incontrati. Una mostra rappresenta, infatti, sempre una dimensione oggettivante della procedura tecnica di un autore, perché accosta opere da lui eseguite in tempi diversi e con diverse tecniche ricostruendo il significato complessivo della sua produzione, componendola secondo una griglia interpretativa determinata che diviene ipotesi di comprensione, poi proposta ai visitatori sotto forma di percorso di lettura. Ho quindi pensato che fossero maturi i tempi per tirar fuori dal nostro amore privato l’opera di Velly, collaborando a organizzare una sua mostra sulla scia di quella già allestita a Villa Medici, per procedere nell’impresa di far conoscere la sua opera ad un pubblico più ampio. Gran parte della produzione di quest’artista, infatti, consiste nella realizzazione d’incisioni, prevalentemente a bulino e ad acquaforte, e disegni di elaborazione raffinatissima, ma per genere ed esecuzione poco adatta a essere divulgata al di fuori di una ristretta cerchia di ammiratori, ed anche le sue realizzazioni pittoriche, al pari intimiste e poco spettacolari, non sono apprezzate nella giusta misura se non da un pubblico di intenditori. In particolare, tra tutte le sue tecniche quella della punta d’argento è uno degli strumenti espressivi che più mi affascina in quest’autore, che sa trarne effetti di dissolvenze poetiche nelle quali il realismo intenso della sua figurazione si stempera in una dimensione metafisica e surreale grazie all’interazione con il bianco del fondo. Questa tecnica grafica ha, infatti, come caratteristica principale quella che in essa il segno, lascia, sulla carta preparata, una traccia grigio chiara, compatta e lucente che, malgrado la sua leggerezza, non può essere cancellata, ed acquista perciò nella forza della sua permanenza una singolare autorità, che spesso intimorisce chi la usa per la prima volta, come i miei studenti, ai quali costantemente la insegno, perché esclude la possibilità di errore.
E se certo Velly, non avrà mai avuto paura di sbagliare nel tracciare il segno con la punta d’argento, ciò non può essere messo in relazione con la sua indubbia abilità, ma con la consapevolezza che il segno non essendo mai in arte la definizione di una forma predefinita, non può mai essere sbagliato. Esso crea situazioni tramite le quali l’artista si chiarisce l’immagine che vuole rappresentare, seguendone tutti i percorsi come se affrontasse diversi sentieri in un bosco, certo del proprio senso dell’orientamento che può guidarlo nella giusta direzione, anche percorrendo itinerari tortuosi e traversi, al pari del senso estetico che può condurlo alla sua meta figurativa anche assecondando lo snodarsi apparentemente gratuito di una linea che descrive un ripensamento.
Una tecnica antica questa della punta d’argento, usata da maestri del passato quali Leonardo, e già citata nel XV secolo da Cennino Cennini, nel suo trattato della pittura (C. Cennini, Il libro dell’arte o trattato della pittura, a cura di F. Tempesti, Longanesi, 1984) del quale si hanno notizie fin dal tempo del Vasari, dove insiste sulla necessità di procedere tornando sul già fatto, per far apparire le cose definendole attraverso l’ombra “…E poi abbi uno stilo d’argento o d’ottone… e collo stile su per la tavoletta leggermente, che appena possi vedere quello che incominci a fare… più volte ritornando per fare l’ombre…” Un ritorno continuo su quello che all’inizio appena si poteva vedere, per chiarire la forma con l’ombra, come si chiarisce un pensiero dopo il suo primo nebuloso apparire nell’intuizione. Ecco il segreto profondo di questa tecnica, ed ecco la dinamica di apparizione e dissolvenze che Velly realizza in punte d’argento quali il Ritratto del figlio Arthur (fig. 3) o in étude pour Madame de Brisis (fig. 1), ma anche in altre come nello Studio su Rosa (fig. 2). La punta d’argento, al pari di altre tecniche dell’incisione usate da Velly, è una tecnica già nota dal Rinascimento, e il suo riutilizzo contemporaneo sembra voler rimanere tenacemente legato in lui anche alle iconografie antiche, sottomesse al principio generatore del disegno dal vero, procedura artistica che anch’io, come ho già detto, pratico, e che raccomando ai miei allievi, perché credo che il vero circoscritto dal disegno sia la forma più simile alla struttura dell’anima. È il disegnare, quindi, lo strumento più facile da usare per dar corpo all’immaginario. Nei disegni e nella grafica di Velly questo è evidente, e non solo per il riferimento diretto a certa produzione fantastica dell’iconografia nordica che da Bruegel arriva fino al visionarismo inquieto di Füssli, e che certo possiamo ritrovare in contemporanei quali Anselm Kiefer, ma anche per la capacità che in questa sua produzione si rivela di tra sfigurare il quotidiano senza ricorrere mai a nessuna deformazione. Ovvero il carattere spettrale e conturbante delle immagini disegnate da quest’artista non deriva da un suo allontanarsi dalla forma naturale delle persone e delle cose che ritrae, le quali sono, al contrario sempre puntualmente disegnate dal vero, ma dalla sostanza stessa della quale sono fatte. In esse è, infatti, il groviglio di segni che le definisce a conferir loro l’aspetto di visioni, perché il segno le fa sprofondare in neri abissali estranei a qualunque buio terrestre, o le innalza a una luminosità abbagliante che non descrive la luce del sole ed è surreale al pari dell’ombra. Tanto distanti da situazioni concrete quanto può esserlo un sogno, queste presenze quotidiane che abitano tutta la grafica di Velly sembrano letteralmente aggredite dal suo segno sicuro e inquieto, con il quale egli appunto intende strapparle dai luoghi comuni dove le ha incontrate per farle rivivere in una dimensione altra da quella consueta. Quella dove luce e ombra sono, esse stesse, passaggi di dimensione obbligati per un percorso di trascendimento spirituale dell’esperienza.
Non a caso, assieme agli altri curatori, abbiamo scandito la logica espositiva secondo il dispiegarsi di un processo alchemico, perché lo scopo della sapienza alchemica era attivare una successione di fenomeni atti a trasformare la materia dal suo stato più infimo a quello dello splendore dell’oro. Un procedimento di trasmutazione che doveva superare varie tappe: dall’annientamento alla rigenerazione, dal buio alla luce. Ma il prodigio dell’elaborazione alchemica della grafica di Velly si dà tutto in una materia che resiste a qualsiasi annientamento, una materia che non brucia, e non si decompone nel marasma vischioso della nigredo, né si trasforma in sostanze diverse da quelle del suo corpo originario. Il prodigio di tale materia è, infatti, provocato dall’immagine che di essa s’impossessa, e in tal modo la fa diventare il luogo del buio o della luce senza che per questo essa cessi di essere ciò che sempre è stata: inchiostro, traccia d’ottone o d’argento, colla di coniglio, vernice, carta. La carta sulla quale tutti abbiamo disegnato da bambini, quando eravamo tanto piccoli da non conoscere la differenza tra un disegno giusto e uno sbagliato. La stessa sulla quale Leonardo o Rembrandt hanno disegnato, con penne d’oca e inchiostri ferro-gallici, carboni, pietre nere, sanguigne e biacca, lasciando in essa i segni del gesto che li ha tracciati, senza curarsi della possibilità dell’errore. Quella che, anch’io, quotidianamente uso, e quella sulla quale i miei allievi, con me, passano ore a disegnare forme create dalla loro capacità d’immaginazione, che rende intellegibile l’aspetto delle cose del mondo.
La materia del disegno è molto più di un semplice supporto, è importante al pari della formula alchemica che trasformava tutte le materie in oro, perché è la sostanza preziosa nella quale la nostra percezione del reale si concretizza guidando la mano a tracciare segni dettati dal pensiero. Non credo quindi che nessuna tecnica possa essere trascesa nell’elaborazione artistica. Perché la tecnica interviene nel corpo stesso di ogni opera d’arte. E studiare le tecniche antiche equivale a riagganciare legami con un nostro passato nel quale solamente possiamo scoprire l’identità e la ragion d’essere del presente. Questo legame con il passato che, attraverso la dimensione tecnica e materica dell’opera lega ogni autore all’immanenza della sua produzione artistica, è stato certo sempre ben presente a Velly, che proprio a questo proposito scrive, in occasione di una sua mostra: “…Ma lo shock più forte l’ho avuto quando alla Biblioteca Nazionale di Parigi ho potuto vedere e toccare le stampe originali del grande, inarrivabile, sublime Dürer, è stata la rivelazione della mia vita.” (cfr., Franco Simongini, I miei maestri, in “Il Tempo”, Roma, 28 novembre 1980) Vedere e toccare equivale a conoscere con gli occhi e con le mani, ovvero, equivale a considerare l’opera nella sua oggettività fisica, per comprenderne da vicino la tecnica. E scoprendo il segreto dei fogli di Dürer, Velly ha certo scoperto anche il segreto più nascosto del disegno e del bianco e nero dell’incisione e ciò che lo lega alle profondità dell’essere, visto che in quello stesso brano continua dichiarando: “…perché la visione in bianco e nero è un fatto mentale, non esiste in natura, e nel bianco e nero si scatena tutta la mia ansia e sete di libertà espressiva, senza inseguire le mode senza voler essere contemporaneo in tutti i modi…” (ibidem).
Tutta l’opera di Velly dimostra quanto sia profonda la sua conoscenza di tutte le tecniche antiche, ma al tempo stesso tutta la sua opera rivela un sentimento del contemporaneo, fatto di tensione emotiva, di disperazione e incanto lirico tramite il quale l’animo di quest’artista si lega allo svolgersi della vita che osserva con occhio vigile e scrutatore, senza cessare di viverla con la passione del sentimento. Il mondo degli affetti in particolare può evidenziare come il quotidiano sia ciò che nella visione artistica diviene deposito di valenze affettive che si trasformano, sotto i nostri occhi, in immagini capaci di passare dal registro della sfera privata e biografica a quello della sublimazione assoluta di un livello spirituale, tratto fuori da ogni implicazione personale. Nello Studio per Rosa (fig. 2) ad esempio, il volto femminile della moglie dell’autore, appena tracciato dalla punta d’argento, è in grado di definire il chiaroscuro dei capelli non segnandone le masse d’ombra ma accentuandone l’intensificarsi luminoso che, espandendosi verso l’esterno del disegno, coinvolge il bianco del foglio come parte integrante della luminosità totale dell’immagine. E lo sguardo, reso intenso dal sottile delinearsi dello scuro nelle linee inferiori delle palpebre, sembra assumere il valore di una profondità che, attraverso gli occhi, penetra nell’anima di questa giovane donna, compagna di vita e d’arte di Velly, quasi a farci intuire il mistero che per tutta la vita hanno condiviso nella comune consuetudine con l’esperienza estetica. Lo stesso procedere da un livello all’altro di definizione fisionomica delle persone a lui più vicine s’incontra a mio avviso nel Ritratto del figlio Arthur, (fig. 3) dove il contrasto tra tracciati scuri e linee sottilissime della punta d’argento è più marcato rispetto allo studio su Rosa. La riconoscibilità della testa del bambino appare in modo fugace e istantaneo, tanto al minimo è resa la definizione della parte inferiore del viso e del busto della figura, che sembrano sul punto di dissolversi nel vuoto della pagina. Mentre la massa sfumata dei capelli, abilmente tracciati nella piccola porzione del ritratto chiaroscurata con decisa volumetria, ci rivela, con una commovente nota realistica, il particolare di riccioli intricati, senza scendere in una definizione leziosa del bambino. Questi è, anzi, presentato in un momento di particolare intensità psicologica, che lo rende serio e corrucciato, lontano dalla leggiadria dell’infanzia: in modo tale che il disegno stesso è il tentativo di Velly di catturare uno dei tanti pensieri segreti che attraversano la mente nell’infanzia, incomunicabili agli adulti tramite parole, perché estranei al dispiegarsi inflessibile della logica dei grandi. Ed è proprio ciò che si cela dietro la serietà dell’espressione del piccolo Arthur a essere, credo, quello che suo padre ha voluto imprigionare nelle linee intricate del disegno a punta d’argento, senza cercare di comprendere lo stato d’animo del bimbo con l’intelletto, ma condividendolo nell’atto stesso del disegnare. Con la modalità tipica di certo procedere del disegno dal vero, quando la mano che traccia i segni sul foglio sembra, a volte, correre da sola nell’istante in cui l’occhio ha visto ciò che la mente non ha ancora messo a fuoco. Per questo non tutto ciò che Velly ha certamente notato nell’immagine nota di suo figlio deve essere raccontata in modo paritario dai contorni dell’immagine. Ciò che è superfluo vedere non serve a un artista che disegna dal vero, perché lo sforzo per lui sarà sempre quello di concentrarsi su ciò che il vedere rivela sotto l’illuminazione di una spinta interiore, come la misteriosa figura riflessa nell’occhio sinistro del bambino. Cosicché anche quando Velly guarda chi è sempre intorno a lui nell’intimità della vita di tutti i giorni per ritrarlo, vede ciò che solo attraverso l’esperienza estetica può vedere, ovvero il punto nel quale miracolosamente coincidono l’essere spirituale e l’essere fisico di una persona. Per cui, anche se non conosciamo l’identità delle persone da lui ritratte, e non sappiamo quanto egli stesso le possa aver conosciute, notiamo comunque nei loro ritratti il rivelarsi istantaneo di quella particolare conoscenza che, come ho cercato di spiegare, si rivela attraverso l’esecuzione di un primo disegno per un ritratto dal vero.
Ciò risalta appunto nel Ritratto di vecchio (fig. 4) dove la sapienza grafica di Velly può essere paragonata solo a quella di un grande maestro come Giacometti, citato dall’artista bretone tra i principali riferimenti della sua formazione (cfr., Dialogo tra Jean-Marie Drot e Jean-Pierre Velly, settembre 1989, in cat. Fratelli Palombi, Roma, 1993). Qui egli ci rivela la vecchiaia del soggetto negli scuri erosivi del volto che ne corrompono l’immagine, come la devastazione delle rughe corrode la forma dei lineamenti. Ma, ce ne mostra, al contempo, la gentilezza, nell’assottigliarsi leggero del corpo, dove, una linea sottilissima evidenzia l’eleganza della figura come segno distintivodi un carattere interiore.
Allo stesso modo, nello Studio per Rosa (fig. 2), tutto giocato sull’uso di una linea trasparente, il grigio del chiaroscuro appare come una velatura affiorante dal profondo dell’immagine, il condensarsi di un umore interiore, l’ombra di un sentimento che trova via d’espressione attraverso la forma artistica. E il grigio del suo spessore sottile vela infatti con una nota di riservata timidezza i lineamenti del personaggio. Tale abilità di sovrapporre fisionomie e caratteri psicologici è particolarmente evidente nei ritratti, e in modo speciale in quelli che si avvalgono della delicatezza della punta d’argento, ma certo un analogo intrecciarsi del piano del visibile con quello dell’immagine interiore si produce anche quando Velly elabora il tema del prender forma dei suoi riferimenti affettivi insieme ad elementi più enigmatici e fantasiosi, che si saldano in soggetti uniti insieme da intrecci formali meno legati alla volontà di fermare un attimo del visibile, e più stretti intorno alla necessità di espressione di fantasie recuperate dalla memoria della pittura. è questo il caso di molte incisioni a bulino o all’acquaforte presenti in mostra, nelle quali, le specificità tecniche di questi diversi procedimenti offrono all’artista la possibilità di definire superfici più elaborate a livello di tessitura dei segni, che egli può mirabilmente contrapporre, come effetti pittorici, alla semplicità di alcuni percorsi lineari elaborati nella stessa immagine.
Tra queste opere è degna di particolare nota Trinità dei Monti (fig. 5) un’incisione a bulino e acquaforte su matrice di rame realizzata con la perizia dei maestri antichi, nella quale però si concentra un’inquietudine tanto moderna e contemporanea da entrarci dentro immediatamente come il suono di una musica conosciuta. Gli elementi dell’immagine, malgrado la loro quotidianità, non sono semplicemente tratti dalla realtà contingente, perché ricomposti sulla falsariga di un’iconografia nota, vicina al tema della Vanitas che molti artisti, da Tiziano a Velázquez, da Goya a contemporanei quali Picasso o Kirchner, hanno interpretato tramite l’immagine di una donna davanti allo specchio. Ed è certo che tutti, compreso Velly, con tale iconografia, a prescindere dalle tematiche mitologiche od esistenziali alle quali alludono i vari soggetti, hanno in essi voluto esprimere la quintessenza dell’eros legato al corpo femminile, del quale una donna può prendere coscienza come elemento di seduzione o autoidentificazione. Nel nudo che in questa incisione viene posto in primo piano di spalle, possiamo riconoscere ancora la moglie dell’autore, dall’immagine del suo viso riflesso nello specchio, ma la chiarezza della sua definizione si contrappone al grigio dominante con il quale è resa la veduta di Trinità dei Monti sul lato sinistro del foglio. Lo scorcio della piazza romana è, infatti, realizzato attraverso il bruno profondo dei fitti solchi del bulino, e la sua collocazione è singolarmente messa al centro di un inestricabile groviglio di forme rese con segni fittissimi e impenetrabili alla luce del bianco. Tanto che quest’angolo elegante di Roma sembra essere assediato da un’oscura massa materica, simile all’intricato groviglio di una foresta. Mentre, invece, lo specchio sul quale si definisce l’improbabile riflesso della donna è bianco come un foglio o una tela, privo dei segni rivelatori del luccicare di una superficie specchiante. Uno specchio, questo, che non mi sembra riflettere la donna ma comporla come il disegno o la pittura possono riflettere la persona da ritrarre: senza il vincolo della rispondenza simmetrica e con l’assoluta libertà che ha l’arte nel costruire il rapporto tra corpo e spazio. Il soggetto non è leggiadro, e certo non è ricollegabile alle note sensuali delle donnevenere di Tiziano, anche se mantiene una saldezza plastica lontana dalle scomposizioni deformanti di Picasso. La sua torsione è semmai derivata dal linearismo incisivo di Dürer o da certe pose del manierismo, la cui impronta ho riscontrato in molti disegni di Velly. Ma la tensione drammatica del deformarsi del corpo e lo sguardo corrucciato con il quale dallo specchio la donna sembra prendere coscienza del suo essere nel mondo, la ricollegano anche, in qualche modo alle espressioni angosciate delle figure allo specchio di Kirchner ed altri espressionisti tedeschi. Una tale similitudine ancora una volta riconduce alla modernità con la quale quest’artista s’impossessa e fa coincidere forme diverse della storia dell’arte saldandole in un’unica iconografia. Al punto che il Manierismo e l’Espressionismo, in questa, come in altre opere, possono sovrapporsi in una sintesi arbitraria che è da considerarsi, a mio avviso, non solo un processo di riacquisizione di significato dell’antico, ma l’essenza più profonda e originale della sua produzione artistica.
È questo che mi richiama alla mente quella particolare presenza dell’inquietudine nel sentimento della malinconia che Panofsky considera l’essenza della moderna evoluzione della concezione melanconica del Medioevo. La malinconia è, infatti, considerata da lui, sotto questo aspetto, come un’accentuata coscienza di sé, una particolare consapevolezza della coscienza, la quale non estranea più il soggetto dal mondo, ma, al contrario, gli permette di dedurre dall’osservazione delle cose particolari la nozione del loro significato esoterico, il cui contenuto si riversa nell’assolutezza dell’infinito. E gli rende, perciò, possibile coniugare il reale con il suo trascendimento, ovvero la vita con la morte. Scrive, infatti, Panofsky “Inoltre tutte le idee connesse con la melanconia e con Saturno (amore, infelicità, malattia e morte) vennero anch’esse ad aggiungersi a questa mistura, per cui non sorprende che il nuovo sentimento del dolore, nato da una sintesi di tristesse e mélancholie, fosse destinato a divenire un tipo particolare di emozione, tragico per l’accentuata consapevolezza dell’io (infatti questa consapevolezza non è che correlativa alla consapevolezza della morte)”. (R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melancolia, Einaudi, Piacenza, 2002, pag. 219) Una sintesi particolare di vari sentimenti che si configura secondo Panofsky nell’accezione di una “melanconia romantica”, la quale era “...essenzialmente sconfinata sia nel senso di incommensurabile, sia in quello di indefinibile, e proprio per questo non si limitava a crogiolarsi nell’autocontemplazione, ma cercava ancora una volta per realizzarsi, la concretezza della comprensione diretta e l’esattezza di un linguaggio preciso“ (ibidem, pp. 224-225).
Una simile atmosfera romantica è proprio ciò che regna nella compresenza di verismo e visionarismo in questa incisione, dove al gusto romantico mi fa stranamente pensare la fiabesca atmosfera della sua ambientazione, nella quale, malgrado la riconoscibilità dei suoi dettagli metropolitani, sembra che tutto sia collocato in nordiche foreste stregate. Quasi che Velly avesse voluto trascrivere la percezione di una Roma minacciata da sinistre presenze, in un’atmosfera oscura e misteriosa come quella dei boschi in certi racconti di fate, nella quale, infatti, per incantesimo, l’obelisco di Trinità dei Monti non svetta verso il cielo ma si interra in una voragine del suolo. L’aspetto enigmatico dell’apparire dei monumenti romani nelle visioni cupe e tragiche è messo in relazione, da Leonardo Sciascia, con certi aspetti inquietanti e visionari del barocco romano che l’artista bretone naturalmente percepisce.
Si veda a tale proposito la prefazione scritta da Sciascia nel catalogo della mostra (Velly pour Corbière, Edizioni Don Chisciotte, Roma, 1978) dove tra l’altro scrive: “ma nelle sue cose trascorre anche un’aria da Promenades dans Rome. E non per la presenza, abbastanza frequente, di elementi che sono della città; ma per la presenza, direi, di una nozione del barocco appunto romana, di un barocco che si integra all’apocalittico, alla Apocalisse che costantemente e variamente Velly rappresenta e interpreta, dai rifiuti cittadini alla Valle di Giosafat”.Di nuovo quindi realtà e sogno, sapienza del passato dell’Arte e presenze quotidiane s’incontrano, s’intrecciano e si neutralizzano a vicenda, rendendosi incomprensibili in virtù del mistero implicito in ogni immagine artistica. Per cui, ciò che alla fine rimane impresso e chiaro in un’opera come questa e in tutti gli altri disegni ed incisioni che si possono ammirare nella mostra, è la potenza di un segno che incanta, che raggruma e scioglie figure apparenti, dietro le quali l’artista non può che continuare a nascondere se stesso, nel tentativo di trovare la parte oscura di sé dietro l’immagine delle presenze che nel mondo lo circondano.
E noi, infine, non possiamo che riconoscere dietro queste figure ciò che in noi somiglia a questo visionario artista bretone, ovvero, la capacità di elaborare dei sogni che non sono desideri e che non dobbiamo perciò inseguire nella nostra vita reale, perché esistono solo nello spazio effimero dell’immaginazione, dove il loro apparire diviene a volte presagio. Come sembra essere stato il caso di tutta la produzione artistica di Velly che, al pari di quanto accade nelle immagini di un sogno premonitore, ha in modo misterioso e inquietante prefigurato il concludersi della sua vita nella profondità di un abisso sconosciuto e impenetrabile che si cela sotto la calma e specchiata superficie di un lago del tranquillo mondo reale.