Velly   Marco Di Capua  Un tramonto perfetto

 
 

Un tramonto perfetto


Marco Di Capua



I’m a blackstar... How many times does an angel fall

David Bowie


Mi ricordai di un lontano, nuvoloso giorno di inverno, quando la barca di un amico dei miei genitori – un grosso danese che passava per provetto velista e invece non lo era – si era capovolta al centro del lago di Bracciano. Ero caduto in un’acqua freddissima, finendo sotto la vela, e il blu quasi nero di quell’acqua mi era sembrato senza fine. Avevo 14 anni e sapevo nuotare, così mi salvai. Dunque mi tornò in mente, lenta e inesorabile proprio come una vela che si pieghi e poi si appoggi sulla superficie di un lago, quella scena lì, la volta che mi dissero che Jean-Pierre Velly era affogato a Bracciano, l’artista ombroso e burrascosamente segnato in volto che qualche volta avevo timidamente incontrato, di cui avevo entusiasticamente recensito i lavori, il bretone delle coste che però non sapeva nuotare.


Devo subito dire che quella fatalissima scomparsa “nelle acque più cupe e profonde” – come dolorosamente scrisse allora Franco Simongini, e accidenti se lo erano – quella specie di inghiottimento che di un uomo nulla aveva più restituito, aveva immediatamente aureolato con un alone di leggenda la figura di Velly, nella modulazione di quel suo magnifico e solenne autoritrarsi, costringendoci, a quel punto, a rivedere tutta la sua opera sotto il raggio obliquo della predestinazione, o quanto meno di una implacabile capacità premonitrice. Colui che aveva tanto desiderato che la pittura provocasse sentimenti ora ce ne consegnava forse il più strano, una sorta di sbigottimento ammirato. Era, come si sa, il 1990, e se mi accostai ancora di più al suo mondo fu perché nemmeno un anno dopo mi capitò di presentare la mostra di sua moglie, Rosa Estadella: la andai a trovare a Formello, visitai la casa e lo studio dai quali era passato Jean-Pierre, e tanto i quadri, gli acquarelli di Rosa somigliavano ai suoi che mi sembrò di scrivere per entrambi, come per una doppia celebrazione, di chi non c’era più, giacché si era fermato ai bordi, e di chi aveva continuato a camminare lungo quella strada. Passarono ancora degli anni, dieci per l’esattezza, e fu inevitabile per me includere Jean-Pierre in una collettiva curata a Bologna per un passionale gallerista come Tiziano Forni. Si intitolava, con un’evidente pensiero a Joseph Roth, Europei erranti, ben sapendo che l’erranza di Velly non era stata solo geografica (tanto “in Europa gli alberi sono tutti all’incirca gli stessi”, lui diceva così) ma terribilmente radicale, orientata, come al seguito di una chiamata, verso il vuoto. Velly lo si poteva incontrare con facilità alla Galleria Don Chisciotte – era il suo punto di riferimento, di sosta – in quella atmosfera preziosissima, in quell’autentico stato di grazia che Giuliano de Marsanich era riuscito con gli anni a generare e a proteggere. Così il pomeriggio di uno studente universitario romano poteva cominciare alle tre davanti alle immagini proiettate da Marisa Volpi, per formidabili lezioni su Redon, Moreau, Runge, Boecklin, e concludersi verso sera alla Don Chisciotte, magari proprio davanti ai quadri di Velly, con la naturalezza di chi scopre fili di connessione e evidentissimi tramandi tra ciò che era stato e ciò che accadeva, proprio lì.


Con quale piacere, in quei nostri romanticissimi anni Ottanta, fatti di scoperte visive e di sentieri intensamente letterari, si percepivano gli elementi di continuità, e non necessariamente di frattura, nelle vicende dell’arte; e così il perdurare dei talenti e di qualche genio certificato, il ricorrere confidenziale agli stessi mezzi per gli stessi gesti, fatti come da falene che girino, e talvolta si brucino, attorno al medesimo lume. Che piacere intellettuale e sensoriale riconoscere come un’eco l’estrazione, dalle cave di cieli avventurosi che attraverso le epoche sembravano così simili l’uno all’altro, di ricorrenti forme, foglie e rare essenze di colore aristocraticamente sciupate, che si trattasse di Friedrich o di qualche nuova apparizione di artista che sul fatto provava, a dispetto di tutto ciò che in tanti meccanicamente ripetevano, che no, la pittura non era morta: le persone che avevano occhi e cultura questo lo sapevano benissimo. E che sfizio contrapporre a ferraglie e catrami e cascami delle più riverite avanguardie, e con l’inevitabile fanatismo liberatorio e irridente di quel giovane periodo, i quadri di Vladimir Pajevic, Ana Kapor, Pedro Cano, Jonathan Janson, Michael Burdzelian, Piero Guccione, e dei due Carli, Guarienti e Cattaneo. E di Velly, naturalmente. Sullo sfondo, come su un solido muro grigio, si stagliava il profilo patriarcale di Balthus, la sua “sofferenza tranquilla”, parola di Jean-Pierre. Sono i tratti di un gusto che alla Don Chisciotte si era come addensato, di una complicità tra visionari che là si era stabilita.


Alla qualità delle immagini corrispondeva quella delle parole. Non sto parlando di letteratura, benché siano note le circostanze che hanno visto più di uno scrittore fermarsi dalle parti di Velly, gente come Leonardo Sciascia, Alberto Moravia, Giorgio Soavi. No, parlo della critica d’arte, quella vera, che c’era all’epoca della sua non riproducibilità curatoriale, e che di fatto era anche letteratura. Altrimenti che nome dare agli interventi di quei critici che l’opera di Jean-Pierre avevano attraversato, mobilitando tutte le loro energie? Come definire se non da scrittori i testi della Volpi (la quale proprio allora cominciò a scrivere racconti), di Vittorio Sgarbi, percepito come un nostro fratello maggiore, o di un appartato, formidabile interprete come Roberto Tassi? Con quale chiarezza e intensità egli aveva percepito la “violenta forza d’immagine” del pittore, la sua “fantasia dolorosa”, per staccare altre frasi e pensieri così: “Come tutti i veri poeti Velly è fuori dal suo tempo, lontano, rintanato, perduto, insonne; ma quella febbre che lo rende vigile, quel distacco che dissolve la speranza, quella malinconia che lo nutre, lo spingono entro il cuore del tempo (…). E quando i giochi saranno fatti e la giustizia degli anni avrà cancellato tanta arte poco misteriosa e molto compresa, le avanguardie, i finti realismi e i finti formalismi, gli acquarelli di Velly resteranno a raccontare come nasceva la struggente poesia della nostra epoca” (Tassi 1988). Giù il cappello.


In effetti Jean-Pierre irrompeva sulla scena dell’arte come un’anomalia, un disguido nel piano di omologazione delle arti contemporanee. In più pareva braccato da una domanda di fondo: come far ascoltare agli altri, in un sistema della cultura che si sta ormai definitivamente

e rumorosamente strutturando, questa pittura per ‘voce sola’, fatta di respiro e silenzio, di dilatazione, contemplazione, ascolto e attesa? Posta così la questione, le cose oggi potrebbero essere ancora più complicate, se non fosse che l’opera di Velly può adesso paradossalmente contare proprio sul grado di saturazione, massificazione, evanescenza e incomprensibilità raggiunto dall’indefinibile “creatività” attuale. Può contare sul nostro bisogno di un qualche antidoto.


Vediamolo quindi così, in prospettiva, il ritorno di questo investigatore di crepuscoli, di questo maestro sottile che sapeva perlustrare, quasi fossero tutti organi vitali, grovigli e intrecci di linee esili come capillari, come le rughe della sua faccia, vene per il sangue che irrora lo spirito dell’immaginazione, o altrimenti vie di scorrimento adatte a linfe indebolite, estremo infoltirsi di mazzetti stropicciati, steli spezzati e corolle declinanti ma risolute nel mostrarci quanta bravura accanita e destrezza erano occorse per filarne e infine tesserne la trama. Che avesse o meno, come sua propria fonte, un qualche dispiacere, ma come sbocco certo la compassione, apprezziamo lo sguardo di chi ha equiparato il nostro destino e i nostri corpi a quelli delle piante, e nulla ha considerato indegno di attenzione: non un filo d’erba né una lumaca,né un topo o un qualsiasi altro piccolo animale (Insetti senza frontiere, commenterebbe e titolerebbe oggi Guido Ceronetti) singolarmente gloriosi in questa loro esalazione di ultima vita, così come nella loro precisa forma, infittita da una tale, densa moltitudine di tratti e sciami di molecole da doversi meritare spettacolari, silenziose fratellanze con bagliori lontani, remote costellazioni. In corrispondenze offerte, ogni volta ritualisticamente, al niente. D’altra parte non c’è civiltà che possa reggersi solo sull’evidenza di ciò che è visibile. È questo il terreno – di un allarme, di una segnalazione? – sul quale Velly gioca ancora la sua partita solitaria. Lui pattuglia i confini tra un qui e un laggiù, sta sulla soglia, sempre, tra ciò che si vede e ciò che non si può vedere, ma che pure si cerca.


Una volta, intervistato da Jean-Marie Drot, Velly ha detto: “La condizione umana è il tempo. Se cerchiamo di far astrazione dal tempo, noi siamo già un po’ più liberi. Con i colori mi piacerebbe raccontare che nulla è grave, che un giorno morirò ma l’umanità continuerà e anche se la vita sparisse un giorno sulla Terra… È un tipo di realismo che sembra drammatico ma che in realtà non lo è” (Drot 1989).


Interessante, ti fa guardare da un’altra angolazione, senza tristezza, l’adorazione di Velly per l’esistenza che sfiorisce. Ci sintonizza con ciò che aveva compreso Rainer Maria Rilke, come folgorato da un’illuminazione, alla fine delle sue Elegie duinesi: “E noi che pensiamo la felicità/ come un’ascesa, ne avremmo/ l’emozione/quasi sconcertante/ di quando cosa ch’è felice, cade”. A proposito di poeti, vogliamo fornire Velly di uno specchio tutto nuovo in cui riflettersi? D’accordo, al netto di questa importante mostra, del lavoro collettivo che ha richiesto e dell’ammirazione che giustamente si attirerà su di sé. Però sembra davvero perfetta e così adatta a lui l’intonazione e lo slancio di una poetessa come Mariangela Gualtieri, che ha da poco pubblicato una raccolta di versi intitolata Le giovani parole (Einaudi, 2015) in un capitolo della quale, Esercizi al microscopio, si trova questa poesia:


Ogni granello. Ogni millimetro di foglia.

Ogni estremità di zampa d’ape

tutto ha siffatto marchio d’una cura

che lo sostiene

come fosse ogni specie prediletta

e prescelta, ognuna, nella fattispecie sua

che a guardarla per bene ogni particella

è centro universale, bella

d’una bellezza unica e abbagliante

commovente per quanto ci è vicina

e somigliante.


Nemmeno l’avesse scritta Jean-Pierre.

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