Roberto Tassi
Opera al Nero
la Repubblica 22 ottobre 1993
Nel quarto capitolo di quel capolavoro sterminato e appasionante che è il film Heimat 2 di Edgar Reitz, si trova un personaggio, Angscar, di cui è detto, dalla voce fuori campo del protagonista Hermann, che se avessimo potuto conoscere in anticipo la sua prematura e accidentale morte, ormai imminente, avremmo allora colto i piccoli segnali, di quella morte, sparsi nella sua vita. E pressapoco ciò che si intende con la parola destino. Infatti in una scena successiva Angscar chiede a Evelyne, la sua ragazza, se crede nel destino e ieri, con tutta la quella grande libertà di cui è ricca, dice no; ma Angscar ci crede, se lo sente addosso. Mi sembra che qualcosa di simile si possa dire del pittore Jean-Pierre Velly, che è morto improvvisamente tre anni fa entro le acque del lago di Bracciano, lasciando interdetto chi lo sapeva felicemente lavorante nel pieno delle forze, e non aveva raccolto e interpretato quei segni premonitori che ora si vedono nella sua vita e nella sua opera.
Di lui si inaugura una mostra commemorativa e riassuntiva a Roma, all’Accademia di Francia, dove Velly fu ospite e lavorò quando la dirigeva Balthus (presentata da Jean-Marie Drot e da Marisa Volpi, organizzata da Giuliano De Marsanich, dedicata a Pietro Barilla); mostra bellissima, incantante e quasi completa, cui la morte ha conferito una distanza che sembra collocarla in una sua, appena iniziata, eternità. Ma vi manca proprio, poiché è rimasto appeso alle pareti della Fondazione Magnani dove è ancora esposta la Collezione Barilla, quell’Autoritratto del 1988, che, così drammatico, sconvolgente e alonato di buio, nero capelli, neri occhi contro il nero nulla del fondo, appare ora come uno dei più esebiti tra quei segnali. Alla mostra di Roma ci sono altri stupendi e tragici autoritratti, per lo più disegni; ma due, Autoritratto alla mano sinistra e Autoritratto con orologio, con l’oggetto in primo piano che indica il tempo fuggitivo e determinato, il teschio sulla scansia dietro la testa fatto di pochi segni come se stesso in uno spazio diverso e simbolico, sembrano toccati, ancor più che il dipinto, all’ombra della morte.
E ad entrare nello studio, che Velly aveva a Formello, dove era andato a vivere uscito dall’Accademia, quei segni, a volerli vedere, si mostravano accompagnatori anche della sua vita; l’atmosfera, senza luce, era di antro, ma non per il lavoro di un magno bensi di un uomo ferito; teschi e bucrani occhieggiavano per le vuote orbite dalle scansie, ossa pulite stavano qua e la, appese a corde o entro scatole aperte; fiori ed erbe, morti e secchi o moribondi e impalliditi, sparsi ovunque. Velly era un vero poeta, un uomo umile, dolcissimo e dolente; era, come lui aveva scritto, un locataire, un ospite di passaggio, sulla terra. E’ stato incisore, disegnatore, acquarellista e pittore di una grandezza che pochi hanno voluto riconoscere, ma almeno Mario Praz per le incisioni, Jean Leymarie e Alberto Moravia per il resto, e poi noi tutti suoi stimatori e amici: di una grandezza che ora, con l’avanzare lento delle cose profonde e difficili, si sta riconoscendo e più sarà riconosciuta per merito e conseguenza di questa mostra.
Marisa Volpi, nel corso della sua introduzione, fa, tra gli altri, i nomi di Jean-Paul, di Schelling, di Otto Runge, e ci riporta subito in quelle piaghe dove il romanticismo è più perduto, drammatico, ontologico e luminoso. Ci indirizza verso l’atmosfera giusta o almeno fornisce un fondo contro il quale possiamo collocare l’opera di Velly. Un quadro come Après sta su quella difficile sponda, nell’incerta luce a fatica morente del crepuscolo o a fatica nascente dell’alba, appunto il “giorno notturno o notte diurna” di Schelling, con quel cielo altissimo percorso di scuri vapori che pur si tingono di azzuro, con quei fiori che appasiscono e tremano nel buio.
Ma ci sono giorni che nello studio di Formello entra la luce quasi gioisa della speranza, e la melancolia si fa esilissima, quasi piacevole, compagna: un quadro come Fiori sul mare sembra accogliere una disposizione opposta ad Après; tra il cielo e il mare prevale l’azzuro e gli steli sottili di erbe, dei fiori, entro il vaso, sono dipinti con una luce che li indora; tutto è lieve, aereo, tremulo; ma quel nativo sentimento romantico in fondo è lo stesso, non si può modificare poiché è la radice dell’ispirazione. Fiori e mare sono il soggetto frequente degli anni fra il 1983 e il 1988: il mare che sta nella memoria come un ricordo infantile della Bretagna, dove Velly è nato; i fiori che sono le vestigia del presente, alchechengi, narcisi, acquilege, bolle celesti dei cardi, e le erbe, gli arbusti esili, raccolti nelle passeggiate mattitine lungo le prode, deposti sul davanzale delle finestre, sulle spiagge, divenuti a volte nervature intrise di luce lunare contro il cielo notturno, a volte colorati vessili, a volte relitti, preziosi abbandonati dalla marea.
L’acquerello, tecnica tanto più difficile da portare alla poesia quanto più piacevole a vedersi, tecnica in cui Velly è maestro, uno dei pochi che conosca, con tale magistero nei nostri anni, prevale nella sua opera di questo periodo. Mentre in precendenza, per circa un decennio da metà anni Sessanta e metà anni Settanta, l’incisione aveva tenuto quasi tutto il campo del suo lavoro; ed era nel bianco e nero, frantumato, visionario, a volte feroce, di quei fogli numerosi e impressionanti che Velly aveva versato le sue angoscie, la sua disperazione e il suo giudizio, quasi una condanna, sui tempi. Negli acquerelli quel dramma è riscattato, come riassorbito, ma non tanto che non ne resti una nascosta ombra, un’oscura tensione, deposta e da ricercare come in filigrana, nei recessi della loro bellezza.
Negli ultimi anni, Velly aveva cominciato a dipingere paesaggi di orizzonte vasto anche sulla terra, oltre che sul mare; terra del Lazio, con digradare di colli, dirupi, ville nascoste entro il folto degli alberi; e anche grandi alberi isolati, antiche querce, tronchi contorti e nodosi, cortecce tormentate e aride. La sua visione si allargava, raccoglieva spazio, portava a una nuova misura il suo tormento e il suo senso romantico; senza abbandonare, ma tenendola come un nuovo prodigio, la precizione dei tratti, degli oggetti, di ogni foglia, di ogni raggio, delle nuvole e dei rami. Ed è proprio a questa unione tra la minuzia delle piccole parti, quasi delle cellule, e il trasfigurarsi grandioso della luce, tra la micrografia e l’ampio spazio, che è affidato l’ultimo misterioso lascito di Velly.