Silvia dell’Orso
in Arte fantastica e incisione, Incisori visionari dal XV al XX secolo,
a cura di Paolo Bellini, Milano 1991, pp. 140 – 144.
Non doveva essere, questo breve saggio, uno sguardo retrospettivo all’opera di Jean-Pierre Velly, ma la constatazione, gradita, di un lavoro tuttora in fieri, continuamente alimentato da una vena di creatività felicissima e instancabile.
Così è stato sino all’inizio della scorsa estate, poi Velly è scomparso nel lago di Bracciano, durante una gita in barca, vittima di “una morte per acqua” di eliottiana memoria, che ha posto fine bruscamente alla sua vicenda di uomo e di artista.
Una vicenda iniziata nel 1943 a Audierne, sulla costa bretone, dove era nato, e che è svolta fra Parigi, Tolone, Roma, e Formello, piccolo borgo di fondazione etrusca nel quale Velly aveva voluto trasferirsi dopo il soggiorno romano come pensionnaire a Villa Medici.
All’Accademia di Francia Velly approdò nel 1967, vincitore del Grand Prix de Rome per l’incisione, quando direttore del glorioso istituto era Balthus. Tre anni e quattro mesi di strenuo esercizio, dopo un lungo tirocinio, sia come incisore sia come pittore, all’accademia delle Belle Arti di Tolone e di Parigi.
È stato grazie a La Clef des Songes (fig. 5, catalogo Bodart n°30) che Velly ha vinto il Gran premio di Roma, l’ultimo assegnato per l’incisione due prima della sua soppressione. Un grande bulino su rame eseguito nel 1966 che nella ricca articolazione compositiva e nella smagliante qualità tecnica, offre un saggio più che generoso della statura di questo artista.
E proprio la tecnica incisoria ha costituito il primo “medium” espressivo di Velly; l’essenzialità quasi ascetica del bianco e nero, ma anche la forza corrosiva del bulino si sono rivelate assolutamente congeniali alla sua natura visionaria, anche se negli ultimi anni Jean-Pierre Velly incideva molto meno, dedicandosi piuttosto alla pittura a olio e ad acquerello e alternando al colore solo qualche rara prova calcografica.
Dal 1979, anno a cui risale Les temples de la nuit (Bodart n. 81), acquaforte e bulino su rame che prelude iconograficamente ai temi del suo nuovo e floreale universo pittorico, Velly ha eseguito soltanto sei lastre,
Restes (1980),
Le rat mort (1986),
Fleurs d’hiver (1989),
Fiori (1989),
Arbre (1989),
L’ombre, la lumière (1990), e si ravvisa in queste una sintonia con quanto andava dipingendo, che mitiga di molto la cesura sino allora esistente tra opera grafica e opera pittorica. Una cesura generata essenzialmente dalla diversità delle tecniche; la pittura, certo più adatta alla visione d’insieme, l’incisione, tramite ideale per accedere al infinitamente piccolo, senza tuttavia precludere la pienezza rappresentativa. Un’arte tutta intellettuale l’incisione, che nasce dal cervello come Atena dalla testa di Zeus, e poi, attraverso percorsi interiori, si focalizza sulla lastra in segni minuti o ampi, lineari o tortuosi, leggeri o profondi, lieti o sofferti. Una scrittura in punta di bulino che, senza ricorrere al codice alfabetico, appronta di volta in volta un suo vocabolario, si fa descrittiva e talvolta narrativa, raccontando cose non sempre percepibile di primo acchito.
Così è stato per Jean-Pierre Velly la cui produzione grafica ha rivelato sin dall’inizio la volontà di far convivere entro uno stesso spazio il finito e l’infinito, la natura e la civiltà industriale, la bellezza e la mostruosità, con una sorprendente attitudine metamorfica che sembra quasi implicare una dimensione temporale.
In Maternité au chat, acquaforte e bulino del ’67, assistiamo alla genesi di un a possente figura femminile, ma anche alla sua progressiva trasformazione in chiave anatomico-tecnologica.
È così pure in Rosa au Soleil, di un anno successiva, dove la medesima donna, mollemente sdraiata nel primo piano della composizione, ha il suo alter ego in una sorta di autonoma da “wunderkammer”.
Storie senza un inizio e una fine le incisioni di Velly: è come se l’autore ci rendesse partecipi delle fantasie talvolta inquietanti, della sua mente fortemente immaginifica. La lettura di una sua tavola richiede insieme tempo e flessibilità dinnanzi a scoperte sempre nuove, che modificano ad ogni approccio la percezione dell’immagine.
Alle spalle la schiera cospicua degli interpreti del “sublime”, esploratori temerari dei territori dell’immaginario – Fussli, Blake, Friedrich, Runge, Moreau, Bocklin - ma con un occhio sempre vigile ai maestri di Noriemberga, Schongauer e Dürer inanzi tutto, a creatori di immagini misteriose come Bresdin, e ancora ad artisti qui Hercules Pieterz Seghers e Rembrandt. Nordici come Velly, per il quale il lungo soggiorno romano ha comportato semmai una nuova sensibilità cromatica negli ultimi anni paesaggi dipinti all’acquarello, lasciando indenne la produzione, tenacemente ancorata ad un mondo di visioni chiamate a esprimere, con dovizia di invenzioni, i temi della nascita, della vita, della morte. Sono questi i “leit-motiv” delle composizioni di Jean-Pierre Velly, le sue incisioni alludono sempre e inesorabilmente alla vanità della vita. Non c’è bisogno di teschi, che pure non mancano, né di clessidre, come per i pittori fiamminghi del XVII secolo, basta il presente, che per definizione non esiste, tradotto sulla lastra con un senso di religiosità laica, che dichiara l’impossibilità dell’uomo a comprendere appieno il mistero della vita.
Dalle prime lastre, permeate di toni vagamente surrealistici, Velly è passato alla dimensione del racconto allucinato nel quale l’uomo esercita un ruolo che è pari a quello di qualunque altro essere animato o inamidato. La Main Crucifée (fig. 1, Bodart n.2), in un’acquaforte dell’64, rattrappita nello spasimo dell’agonia e resa simile all’aridità del legno, è la prima della serie intitolata
Grotesques (fig.7, Bodart nn. 6-11), eseguita fra il 1964 e il 1965, dove le stesse tormentate contorsioni della linea danno forma questa volta a un ampio ventaglio di mostruosità umane. Immagini che potrebbero popolare le pagine in un miniato medioevale, far parte della complessa architettura di un’iniziale figurata o dello zooforo del Battistero di Parma, il fregio decorativo pullulante di figure grottesche che connota quello come tanti altri edifici romani e gotici.
Il caos insieme a un senso di horror vacui, ancora una volta tipicamente medievali, sfondano il muro delle sue visioni, in
Tour tuyau (Bodart n.19) per esempio, un’acquaforte del ’65, o in
Paysage rocheux (Bodart n.26), dello stesso anno, con piccoli uomini confusi in mezzo a funghi giganti, alberi e cirri.
Vieille femme (fig.4, Bodart n.27) e la La Clef des Songes (fig.5, Bodart n.30) del ’66 ci parlano insieme del tempo e delle età della vita. Lo sguardo rimbalza la giovane donna dai tratti düreriani de la Clef des Songes al corpo disfatto della Vieille femme, testimone impassibile di una vita ormai priva di fascino. Maestria esecutiva che non è mai fine a se stessa. La tecnica in Velly è mero strumento, come le lettere dell’alfabeto o la grammatica per un poeta. Obiettivo primo della sua formazione artistica, l’abilità tecnica è entrata a far parte del patrimonio genetico di Jean-Pierre Velly, piegandosi accondiscendente ai suoi capricci saturnini.
Ecco perché in un’incisione quale Massacre des Innocents (1970-1971, tav.12, Bodart n.64) la sorpresa non è semplicemente suscitata dalla preziosità dei dettagli, ma dal fatto che se la si guarda da una certa distanza sembra di scivolare lungo paesaggi privi di orizzonte, se ci si avvicina si realizza come l’effetto d’insieme di questa lastra sia il frutto di un autentico delirio di minuscole figure e ci si allontana nuovamente si è colpiti da ulteriori informazioni visive.Macchine e corpi sventrati, teste beffarde di vegliardi che fluttuano nel cielo come fossero nuvole.
In Maternità I e II (1967, fig.3, Bodart n.35-36) il mistero della vita si fa più che mai inquietante con quelle sfere compatte che sembrano lacerare il ventre di donne agonizzanti.
Mentre non si può non ricordare Bosch in opere come Tête flottante (1966, Bodart n.31) e
Mascarade pour un rire jaune (1967, Bodart n.38).
La suite del 1970 dal titolo Métamorphose ( Bodart n.60-63), incisa con le tecniche del bulino, dell’acquaforte e della puntasecca, che insieme o singolarmente ricorrono in tutto il repertorio grafico di Velly, equipara in un’inesorabile vicenda metamorfica gli uomini alle piante, le piante agli animali, gli animali agli oggetti, in quanto esponenti di un medesimo universo in cui tutto si trasforma.
E in albero si trasforma anche la donna sdraiata su un fianco de Les Temples de la nuit (1979, Bodart n.81): novella Dafne, lascia generosa il posto al mondo vegetale che si sta appropriando in quegli anni dell’immaginario pittorico di Velly, annunciandone ad un tempo lo schema iconografico.
Il percorso è ormai quasi alla fine, con i fiori di campo in mutuo dialogo con i temi della pittura, ma c’è anche con Le rat mort (fig n.8) che richiama il crudo realismo del Bestiaire perdu e Restes un’incisione del 1980 che ripropone il duplice registro percettivo del finito e dell’infinito, laddove all’informe ammasso di carcasse, relitti, insetti, malinconica contraffazione della natura, fa riscontro un cielo percorso da nuvole fatte di alberi dai rami adunchi e spogli.
Silvia Dell’Orso
Bibliografia essenziale
Jean-Pierre Velly, l’Oeuvre Gravé 1961-1980, a cura di D. Bodart
Prefazione di M. Praz, Roma-Milano 1980
J. Leymarie e A. Moravia, Au-delà du temps, Acquarelli di Jean-Pierre Velly, Galleria Don Chisciotte, Roma 1988
R. Tassi e G. Soavi, Jean-Pierre Velly, Milano 1988
R. Tassi, Jean-Pierre Velly, Parma 1989
I. Rossi, le incisioni di Jean Pierre Velly, in Annuario della grafica in Italia, numero 1989.
Il testo di questa introduzione, salvo leggere variazioni, è già stato pubblicato dalla sottoscritta in Arte fantastica e incisione, Incisori visionari dal XV al XX secolo, a cura di Paolo Bellini, Milano 1991, pp. 140 – 144.
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Silvia dell'Orso
Dalla Bretagna
Geniale vittima del Malinconico Saturno
in «Arte», a. XIX, n. 196, Mondadori, Milano, maggio 1989, p. 95
Jean-Pierre Velly passa disinvolto da una tecnica all’altra per spiegare in ogni particolare un mondo di fiori, animali e figure, pervaso da un senso di profonda religiosità
Se Rudolf Wittkower, autore, assieme alla moglie Margot, di quel libro straordinario che è “Nati sotto Saturno”, si fosse spinto sino al secolo ventesimo nella sua esplorazione di temperamenti artistici, avrebbe potuto includere Jean Pierre Velly nel novero delle vittime geniali del pianeta dei melanconici. Per far parte di tale schiera bisogna essere contemplativi, assorti, cogitabondi, solitari e soprattutto creatori, prerogative delle quali non difetta questo bretone romanizzato.
La sua vita appartata e la produzione rarefatta, peraltro esposta periodicamente a Roma, alla Galleria Don Chisciotte, ma passata anche per Milano, alla Gian Ferrari, e per Parigi, alla mostra mercato FIAC, non gli hanno certo impedito di essere notato. Dalla Olivetti per esempio, che quattro anni fa ha acquistato 13 opere, pubblicandole sull’agenda 1986, mentre è recentissimo un incontro fra Velly e l'industriale Pietro Barilla, che ha fra l'altro promosso una pregevole pubblicazione a cura di Giorgio Soavi e Roberto Tassi.
Per familiarizzate con l'immagine fisica di Velly è consigliabile non fidarsi troppo dei suoi autoritratti. Bellissimi, ma esageratamente seri ed inflessibili, non rendono giustizia dei frequenti lampi di ironia che si disegnano sul suo volto.
Velly è nato 46 anni fa a Audierne, in Francia, ed è approdato a Roma nel 1967 come vincitore per l'incisione del Grand Prix de Rome. È stato proprio il lungo soggiorno a Villa Medici ad averlo indotto a scegliere come patria adottiva Formello, un antico borgo a pochi chilometri da Roma. "Unica soluzione concepibile", osserva, "dopo aver abituato i propri occhi a 6 ettari di verde, e senz'altro preferibile ad una casetta in città". Là si trova il suo studio, luogo di lavoro e rifugio ad un tempo, affollato di oggetti di varia natura, ognuno dei quali potrebbe essere uno di quei "memento mori" che fanno di tante nature morte fiamminghe delle inesorabili "vanità": bucrani (ornamenti a cranio di bue) levigati, gusci di tartaruga, mazzi di fiori essiccati, uccelli imbalsamati, ali di farfalle, ma anche un piccolo affresco seicentesco che sta affiorando sotto l’intonaco e due riproduzioni di disegni, uno di Michelangelo e l’altro di Leonardo.
"Sono due disegni stupendi che avevo sotto mano, ma li ho appesi senza un motivo particolare", si affretta a precisare Velly, quasi schermendosi nel sentore di un ennesimo confronto, alla ricerca di una genealogia che ha già suggerito i nomi illustri di Schongauer, Dürer, Bosch, Spranger, Seghers ed altri.
Destino di nordico del resto, nordico come può essere un bretone, naturalmente, con tutte le peculiarità del caso, ma che, quando maneggia pennelli e bulini, non sa frenare i suoi impulsi visionari, offrendo il destro a saporosissime letture critiche. Ma per una volta il merito è tutto dell'artista, sono le due opere a parlare e a porsi subito nella giusta angolazione. Qualunque sia la tecnica adottata, il mondo di Velly, fatto indifferentemente di fiori, animali, paesaggi, figure, risulta perfettamente conchiuso, espresso in ogni dettaglio e soprattutto dotato di un senso profondo di religiosità. "Ci sono momenti", spiega, "nei quali mi sento attratto da una tecnica piuttosto che da un'altra, ed è la volta che mi dedico solo a quella. È come se l’incisione, l’olio, l’acquerello fossero tre mondi con il medesimo scopo, ma con linguaggi specifici; le chiavi del vocabolario, insomma, sono abbastanza stagne".
E questo passare disinvolto da una tecnica all’altra Velly se lo può permettere. Alle spalle ha un tirocinio intensissimo e variegato, sebbene gli anni di studio a Tolone e poi a Parigi, quindi la lunga esperienza professionale, non abbiano mai risolto la sua abilità in riduttivo virtuosismo. "La tecnica", dichiara, "è solo uno strumento da possedere, per quanto non sia mai completamente acquisita, ma non è il vero scopo dell’arte. Quello che mi interessa, ad esempio, in un'incisione come “La strage degli innocenti” (1970-71), che è un coacervo di migliaia di piccole figure, non è la bravura tecnica, ma il fatto che se la si guarda a due metri di distanza si ha la visione di un paesaggio, ravvivato da un bagliore sul fondo, che avvicinandosi si ha invece l’informazione del contenuto effettivo e che indietreggiando nuovamente l’immagine risulta ulteriormente modificata".
È singolare notare come negli oli e negli acquerelli di Velly domini una sostanziale essenzialità compositiva mentre nelle acqueforti si inneschi un'inarrestabile proliferare di immagini, quasi seguendo il principio della metamorfosi caleidoscopica, proprio di tante iniziali figurate nei codici miniati medievali. "Con l’incisione", egli spiega,"si può lavorare di punta, il che corrisponde più ad una scrittura, permettendomi quindi di andare nell’infinitamente piccolo, di essere descrittivo e qualche volta, soprattutto nelle vecchie lastre, persino narrativo, ma senza mai perdere di vista l’unita dell’insieme".
Non ama raccontare come nascono questi suoi lavori ai quali dedica l’intera giornata, lavorando di giorno o di notte, anche per 12 o 14 ore di fila, preparandone scrupolosamente i supporti. Preferisce lasciar parlare la sua pittura, "altrimenti", dice, "sarei stato un poeta o uno scrittore". In autunno Jean-Pierre Velly tornerà "allo scoperto" con una mostra alla Galleria Sanseverina di Parma, dove esporrà oli, acquerelli, incisioni e disegni.
Silvia Dell’Orso