Marisa Volpi
Jean-Pierre Velly
curato da Giuliano De Marsanich
catalogo della mostra alla Galleria “Don Chisciotte”aprile-maggio 1986
Dietro gli aspri e dolci mazzi d’erbe e di fiori che Velly dipinge con l’occhio curioso, indagatore di un botanico abusivo e di un poeta a dispetto del mondo, avevo sentito vibrare qualcosa di nero, di misterioso, di aggrovigliato.
Nello scritto di Jean Leymarie che lo presentava nel 1984 mi aveva colpito il commento ad un verso di Heine “perché le rose sono così pallide? Quando altri poeti intorno a lui le vedono ancora splendere”. Leymarie soggiungeva “La dispersione della luce è più grave oggi che allora”. In questa metafora mi sembra di poter cogliere una corrispondenza significativa con qualcosa che corrode l’esperienza di un arista moderno: la solitudine, non la necessaria solitudine creativa, ma la solitudine umana. Nessuno più dell’artista contemporaneo è costretto ad ascoltare ciò che è muto, a guardare ciò che è nel buio, a toccare ciò che è informe. E l’improba fatica di questo confronto è fonte di dispersione. Jean-Pierre Velly ha iniziato a lavorare e ad esporre incisioni di grande precisione onirica affidate alla perizia eccezionale del bulino. In seguito comincia ad eseguire acquarelli su una carta antica, stropicciata prima di venire usata, quasi che il materiale stesso, nella sua casuale vitalità avesse il potere di aiutare ad evocare le campanule, i fiori di lunaria, il glicine, i rovi, la buganvillea, che il pittore ha in animo di dipingere. I fiori sono però motivi di apertura a sfondi visionari di paesaggi notturni o crepuscolari, o magari ad albe burrascose. Mari, nuvolosità dense, grandi ampiezze di orizzonti, sia negli acquarelli che nei quadri, richiamano per affinità i pittori Friedrich e Runge.
Che strana storia dunque questa di Velly, approdato come “prix de Rome” all’Accademia di Francia e poi chiusosi a Formello, luogo deputato dell’arte del tour romantico!
Lì, in un’Italia desueta ormai per gli artisti, un’Italia alla quale né Runge né Friedrich arrivarono o vollero arrivare, un artista bretone sogna il sogno tedesco della pittura come riflessione dell’anima.
I riferimenti storico artistici citati dagli esegeti del pittore, Sciascia, Soavi, Leymarie, Moravia, ecc. sono tutti veri, ma torturati, piegati, usati solo in quanto rivissuti. È l’analogia della condizione romantica che li obbliga a rifarsi vivi.Invano nei quasi cento anni di storia dell’avanguardia ci siamo impegnati a superare il romanticismo. E superato come? Con quali strumenti, se le premesse che hanno scatenato l’inconscio e il sentimento della sperdutezza – lo sviluppo della tecnologia e dell’industria - hanno assunto nella cultura moderna proporzioni più che mai gigantesche?
Ora Velly, nel 1986, espone in questa mostra anche quadri ad olio realizzati negli ultimi due anni. Ancora fiori e paesaggi. Temi di una tradizione artistica quanto mai solare, essi hanno rappresentato nella pittura un acmè di felicità della visione e della percezione fisica della natura – penso soprattutto a Monet. Ma a Velly sono avvolti dalla magia dello sguardo interiore, malgrado l’ottica precisa e la vibrazione simbolica li animi di una vita bizzarra, autonoma, indimenticabile.
Con un processo molto diverso, per non dire opposto a quello di Velly, i fiori manifestarono anche in Odilon Redon, una vitalità notturna, i suoi bouquets appaiano ricchi di timbri chiari, squillanti, e tuttavia lontani dalla natura più di quelli di Velly. Il loro colore acceso viene, com’è noto da una specie di traduzione dai neri rembrandtiani della grafica, sono i colori delle pietre preziose più che dei cespugli all’aperto. Velly ha imboccato un’altra strada: quella di un dichiarato amore per le reliquie della bellezza, dunque l’aura sombre dei suoi paesaggi respinge il lirismo biedermeier in una lontana veramente remota, lasciando emergere una strana allusione apocalittica dalla profondità all’infinito cui le stratificazioni, le tortuosità, le densità della sua pittura conducono l’occhio dello spettatore.
In un punto del quadro infatti, come già negli acquarelli, si addensa un chiarore da dopo il diluvio. Quel chiarore profondissimo e localizzato, talvolta è costretto a rimanere lì fermo, talvolta invece si espande su un particolare del quadro; e quando ciò accade, quel particolare rivela una speciale malinconia.
Considerando le opere di Velly dal Settanta ad oggi, le illustrazioni per Corbière, il Bestiaire perdu, la grafica guidata da un’ottica ossessiva e ora questi paesaggi in cui la materia sembra quasi una trasfigurazione alchemica in metalli fosforescenti, o comunque in opalescenze inorganiche, mi viene in mente un testo famoso di Carl Gustav Carus: “Tutto ciò che lavora, crea, agisce, soffre, fermenta e cova nella Notte della nostra anima inconscia, tutto ciò che vi si manifesta, da un lato nella vita del nostro organismo, dall’altro negli influssi che riceviamo dalle altre anime e dall’intero universo… sale, con particolarissimo accento, alla luce della vita cosciente; e questo canto, questo meraviglioso confidarsi dell’Incoscio con il Cosciente, noi lo chiamiamo sentimento”. Si direbbe che i quadri di Velly e tutta la sua opera, anche quella che ci richiama il mostruoso Samsa di Kafka, sia un’illustrazione per così dire, del percorso dal sentimento alla materia che fermenta e cova nella notte , e viceversa. Voglio chiarire cioè che l’ artista più che suggestionare la nostra propensione emotiva verso il simbolo della nostalgia e la sua compiutezza immaginativa, cerca sempre di farci sapere da quali profondità guardate con fermo realismo, il suo incanto derivi. Cosicché la bellezza ci pervenga impregnata di presagi, di pensieri, di fisicità fatali e in tal modo si nasconda l’artificio della sua officina, che pure esiste e ha fatto autorevolmente citare nomi di altri artisti visionari; ci basti ricordare ancora Seghers e Bresdin, l’uno maestro ideale di Rembrandt, l’altro di Redon.
Attraverso la trasfigurazione formale Velly brucia ogni residuo autobiografico, ogni violenza sinistra radicata nella natura umana, ma insieme tale trasfigurazione, con accorgimenti e intensità inequivocabili, ci viene incontro come una testimonianza assolutamente moderna.
Marisa Volpi, 1986