Velly Panorama    Rosaria Fabrizio 

 
 

JPV. Il racconto di una mostra  a quasi 20 anni dalla scomparsa dell’artista


Rosaria Fabrizio


Giuliano de Marsanich e la Galleria Don Chisciotte


Entrammo nella galleria all’angolo di una viuzza romana a due passi della bellissima piazza del Popolo. Una bottega di altri tempi, non particolarmente grande. Alle pareti quadri di Piero Guccione, Giuseppe Modica, Jonathan Janson, Ana Kapor, Vladimir Pajević … e qualche incisione di Jean-Pierre Velly. Sparsi per la stanza giocattoli, teatrini, burattini altezza uomo fatti di cartapesta, modellati interamente a mano dal proprietario della galleria in un periodo in cui, messo da parte l’amore per la pittura, i disegni, gli acquerelli e le incisioni – forse per una frattura nell’anima e nel cuore – si era dedicato interamente a questa primigenia passione.
Lui entra, dopo un po’ che curiosavamo e ci dice: “Signor Lindner, signora Fabrizio come va?”   “Bene!”  rispondo io. Mi fissa dritto negli occhi, fa una lunga pausa di silenzio e poi dice: “Bene. E ora mi dica la verità … come va?”  Gettata immediatamente la maschera dei convenevoli futili e finti, entrammo nel vivo dei discorsi veri, reali, trovandoci davanti una persona straordinaria, particolare e molto profonda. I primi incontri sono sempre una sorta di farsa dove gioco e finzione si alternano, la verità è sempre un po’ celata e mai totalmente espressa, come delle marionette giochiamo il gioco della vita e fingere risulta quasi naturale. Iniziò invece diversamente, un discorso lungo e sincero. Il nostro primo incontro con Giuliano de Marsanich risale al maggio del 2008, quando la galleria ci aveva aiutato nel reperire alcuni proprietari di opere per la mostra che avremmo organizzato nell’autunno successivo. Ma in realtà non era quello l’unico motivo del nostro incontro. Ci spingeva la curiosità nel conoscere una persona così particolare che aveva incontrato una persona altrettanto fuori dal comune: Jean-Pierre Velly.
Quasi due anni prima, il direttore del Panorama Museum, facendo il punto della situazione, come abitualmente avviene, sulla programmazione delle mostre, mi disse che avrebbe fortemente voluto organizzare una mostra su di lui, del quale aveva visto delle cose straordinarie. Le prime sporadiche ricerche che feci risultarono fallimentari. Finché non iniziai a fare delle ricerche sulla Galleria Don Chisciotte e lì, nel lungo curriculum della galleria, mi resi conto di quanto questa fosse stata importante per l’artista che mi accingevo a scoprire.


Parlare con de Marsanich di JPV è stata una grande emozione. Lui accennava inconsci sorrisi e fissava lontano, mentre si lisciava la barba bianca. Ad ogni nostra domanda rispondeva in maniera decisa, benché laconica. Sapevamo che aveva tante e grandi cose da raccontarci. Le sue risposte giungevano secche e sintetiche. Raccontava di cose molto interessanti, ma percepivamo che i fatti e i pensieri, realmente importanti, erano strettamente celati. Parlava di JPV come di un Don Chisciotte dei tempi moderni, un eroe della follia bella, totalmente affascinato dalla figura del cavaliere spagnolo. Affinità elettive, poiché proprio lui veniva così dipinto da Fulvio Abbate: “Anche Giuliano de Marsanich, a suo modo, assomiglia a un Don Chisciotte, per il modo che ha di coltivare laicamente la memoria, gli scacchi, la conversazione, la rivolta, l’ironia, il sarcasmo, per le sue mani di artista e artigiano.”


L’incontro con de Marsanich fu il vero punto di partenza per questa avventura di cui mi accingo a scrivere. Ci raccontò gli esordi dell’artista, il loro incontro fortuito e fortunato che portò ad un sodalizio durato 20 anni ed interrotto solo dalla fatale morte dell’artista. Ci raccontò dei personaggi famosi del mondo del cinema e dello spettacolo che tra impegni di lavoro e passeggiate tra le vie della città eterna si affacciavano in quella piccola fucina per curiosare, ammirare e infine acquistare le opere di JPV. Alla prima personale partecipò gran parte del mondo del cinema di quegli anni d’oro: Gassman, Tognazzi, Zavattini … Ma era un fatto più di moda, ci dirà in seguito. JPV era piuttosto ignoto al grande pubblico, ma quelli che lo conoscevano se ne innamoravano visceralmente, a tal punto da collezionare molte sue opere. Ed è proprio percorrendo l’itinerario contrario, tracciando il percorso di coloro che hanno collezionato le opere di JPV, raccontando il loro amore incondizionato per i suoi quadri e le sue incisioni, che vogliamo cercare di delineare questa figura così affascinante di uomo e di artista.

Di un genio.


Giorgio Soavi, l’Olivetti e la Barilla


Un collezionista particolare fu Giorgio Soavi (1923–2008) che una volta conosciutolo si perdeva con lui in lunghe conversazioni telefoniche o andava a trovarlo per gustare dal vivo quello che dipingeva, ma soprattutto come lo faceva. Per percepire i movimenti alchemici che trasformavano fiori di campo in sublimi messaggi d’arte e di vita, proprio come raccontò ne Il quadro che mi manca del 1986.


Soavi, giornalista, romanziere, poeta, ma soprattutto appassionato delle opere d’arte figurativa contemporanea, era un grande ammiratore delle opere di JPV e più volte lo ha lasciato trapelare nei suoi scritti e nelle sue parole, nei suoi testi e negli articoli di giornale. Inoltre fu proprio lui che fece entrare alcune opere di JPV in due importanti aziende italiane: l’Olivetti e la Barilla. In questa mostra, così come nel catalogo, abbiamo la fortuna di poter ammirare le opere appartenenti a queste due collezioni, cosa difficilmente ottenibile data la filosofia di entrambe le società tesa a conservare con prudenza il proprio patrimonio artistico.


Due aziende estremamente diverse tra loro, ma accomunate da una passione, oltre che per il lavoro quotidiano anche per l’arte, specie quella figurativa contemporanea, legata al nostro tempo e ai passaggi di vita comune. Giorgio Soavi chiese a JPV di eseguire 13 acquerelli per l’agenda Olivetti del 1986, omaggio che solitamente soleva fare l’azienda ai suoi dipendenti, amici e clienti. L’Olivetti, anche grazie al lavoro indefesso del critico italiano, ha per anni preservato e perseverato la filosofia aziendale inaugurata dal fondatore, Adriano Olivetti, nato agli inizi del secolo scorso e inaspettatamente scomparso nel 1960, quando guidava una delle industrie più floride dell’Italia, almeno per quei tempi. Un’azienda che oltre alla crescita economica, si faceva carico anche della crescita culturale dei propri dipendenti. Ai tempi del fondatore, la fabbrica di Ivrea (TO) era un cenacolo frequentato dai nomi più illustri della cultura e dell’arte italiana, tra i quali Moravia e Pasolini, solo per citare alcuni esempi. Durante il normale orario di lavoro si organizzavano corsi sulla storia, proiezioni cinematografiche, mostre di pittura. E tutto questo per tener fede al principio che la ricerca della bellezza e dell’amore, della verità e della giustizia, rappresenta l’unica strada per un’autentica promozione spirituale. Per Adriano Olivetti si trattava di educare i giovani alla comprensione dei valori della cultura. »Vivere a contatto con la bellezza li aiuterà a dare il meglio nel lavoro che li aspetta.« Aveva dichiarato così in una delle sue ultime interviste.


E la bellezza è un concetto che Soavi ha sempre approfondito e portato con sé. Proprio quello lo aveva colpito in primis guardando gli acquerelli di JPV.


Poco dopo aver visto da vicino le opere dell’artista, Giorgio Soavi scriveva (in Epoca, a. XXXV, n. 1749, Milano, 13 aprile 1984): »[…] Credo che il suo erbario sia stato appena colto e in ogni caso l’occhio di Velly lo guarda come se si trovasse, lui adolescente, di fronte alla grande scoperta delle erbe che circondano il nostro pianeta. Ogni erba dritta in piedi parte, necessariamente, dalla zolla di Dürer, così come un coniglio è Dürer. Ciò che segue quel coniglio non è altro che la variante di quel tema. Ma i fiori o l’erbario di Velly non sono trasparenti come quelli del capolavoro di Dürer ma di carne, una carne verde, piena di filamenti odorosi, con dentro un’ acqua e i suoi fili d’erba li abbiamo masticati durante una gita migliaia di volte, sempre aspettando il momento in cui quel particolare sapore amaro si deposita sulla nostra bocca. […]


I suoi disegni suscitano in me lo stesso fervore con il quale si guardano le immagini della pittura cosiddetta sacra, l’annunciazione, la natività, la creazione. Stupore, fervore. Il mondo sta ribollendo ma non corre verso la catastrofe, è stato fermato o si è fermato un attimo per contemplare una creatura appena nata, e l’aria che sta sospesa intorno a quell’avvenimento è l’aria che si respira quando si guarda la bravura con la quale Jean-Pierre ha disegnato le sue erbe«.


È sempre Soavi che fa conoscere le opere di JPV a Pietro Barilla (1913–1993), un industriale italiano famoso nel settore della pasta che amava collezionare opere di grandi artisti contemporanei. Il figlio dell’industriale, Luca, ricorda così l’esperienza dell’incontro tra il padre e l’artista: »Papà non ha fatto in tempo a conoscere bene JPV. Posso dire che la persona lo affascinava in particolar modo per la sensibilità e la delicatezza d’animo (lo intuì fin da subito) e che la sua morte improvvisa e tragica lo ha colpito moltissimo. Ricordo bene la sua costernazione e in lui percepii una sorta di rimpianto per non avere potuto fare niente per impedire che succedesse la tragedia.«


Pietro Barilla era un collezionista particolare, la cui peculiarità emerge da un racconto di Elisabeth Sciarretta pubblicato nella rivista AUREA PARMA del Settembre – Dicembre 2004: »›[…] Compravo nei momenti di gioia. Ognuno manifesta la felicità con segni diversi; io la fissavo in un quadro o in una scultura. Mi premiavo e premiavo chi viveva con me.‹ (Natalia Aspesi, Li ho comprati per allegria, La Repubblica, 15 aprile del 1993). […] Il suo collezionismo non deriva da un impulso critico, intellettuale, logico. In tutte le sue interviste Pietro ha sempre affermato che l’idea di portare l’arte in azienda, nei luoghi di produzione, nasce dal desiderio di condividere con gli altri e, nello specifico, con tutte le persone che lavoravano con lui, le proprie emozioni. Questa idea della condivisione e della partecipazione allargata delle proprie sensazioni ed emozioni è stata estesa a tutti i suoi concittadini, e non solo, grazie al progetto di esporre nel 1993 parte della sua raccolta nella mostra La Collezione Barilla di arte moderna alla Fondazione Magnani Rocca, cosicché il suo ottantesimo compleanno potesse rappresentare un momento di gioia per tutta la città. […]« Nella mostra parmense vennero esposti 4 tra i Velly più belli e significativi collezionati da Barilla e scelti da Roberto Tassi per l’occasione: La disperazione del pittore del 1987, l’Autoritratto del 1988, La quercia del 1989 e L’ora grande del 1989.


Sempre Giorgio Soavi racconta così alcuni di questi dipinti posseduti da Pietro Barilla. In La realtà oltre l’immagine del 2002 ci dice: »[…] il dipinto La disperazione del pittore, del 1987, dove l’universo appare spaccato in due: in alto una scena cosmica di lapilli che riempiono il cielo, in basso, ai nostri piedi, la ramificazione di quei lapilli, diventati una costellazione inquietante. Non sai quale delle due parti lo ecciti maggiormente. Ma certamente la disperazione del pittore stava in quel morbido, ma inquietante, cosmo luciferino.«


E ancora (in Il Giornale, La luce all’ombra della quercia, 30 maggio 1990): »La grande quercia che risplendeva nella sua ultima mostra a Parma (si riferisce alla mostra presso la Galleria Sanseverina della città ducale) apparteneva ad una villa che sta dalle parti di Sutri. Velly aveva fermato il momento in cui l’ombra e la luce cercano di stare dritte in piedi anche se tutta la luce della giornata si sta oramai coricando. I cuscini per guardarla non stavano dalla parte della villa né dall’altra dove c’era il sole al tramonto. Tra poco sarebbe arrivata un’ombra fitta, umida e gocciolante, un abisso senza coltivazioni. Quel quadro denso di ammonizioni sembrava uno dei suoi autoritratti, così severi, ma anche desiderosi di guardarsi nello specchio della pittura, di comunicare un po’ di terrore attraverso lo sguardo. Uno sguardo che JPV aveva individuato così bene, visto che riusciva ad esprimere la stessa tensione che corre tra l’ombra e la luce, serbatoio della paura che la vita se ne vada mentre siamo ancora lì.«


L’ora grande


I quattro dipinti mostrati nel percorso espositivo dedicato a Barilla, sono stati selezionati, scelti e fortemente voluti per questa mostra. Ma uno su tutti li sovrasta: è L’ora grande. L’ora in cui tutto è possibile. L’ora in cui tutto avviene. L’ora che non c’è. È l’alba come il tramonto, la nascita come la morte. Uno dei suoi più grandi autoritratti, presagio e speranza di quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Quel cielo burrascoso con nuvole intense di grigio e di azzurro che si rischiara all’orizzonte, si apre per cedere lo spazio ad una luce forte e accecante che illumina paesaggi lontani. Mentre solitaria e abbandonata, una casa di campagna, fiera per aver resistito e superato le intemperie del tempo, guarda, muta e silenziosa, il susseguirsi delle nuvole. Solo una presenza ascosa e nervosa si aggira tra le stanze e si lascia, di tanto in tanto, intravedere alla finestra. Attorniata da cipressi boeckleniani, la casa integra è nel mezzo: da un lato il bosco, il verde selvaggio e incontaminato, la natura riccia e rigogliosa, dall’altro un baratro senza fondo, che non da tregua, che non da respiro … cadere è un attimo …


Molti parlano del pessimismo di JPV. Ma come lui stesso affermava al direttore di Villa Medici Jean-Marie Drot nel 1989 in una delle sue poche interviste: »Anziché di pessimismo, parlerei volentieri di realismo. Lo dico spesso: ›La vita è una storia meravigliosa che finisce terribilmente male.‹ Noi viviamo; Roma è presente; l’aria è tersa; e qualunque sia il perché e il come in questa misteriosa vicenda, un giorno si muore. La morte d’un individuo è molto drammatica per l’individuo che muore, e relativamente poco per tutti gli altri. […] Con i colori mi piace poter raccontare che nulla è grave, che un giorno morirò ma l’umanità continuerà e anche se la vita sparisse un giorno sulla Terra … e un tipo di realismo che sembra drammatico ma che in realtà non lo è


JPV aveva un rapporto diretto con la morte. Sapeva che era parte integrante della vita. Il cerchio che si compie. Tutto è un inizio e una fine. Dal concepimento, accadimento misterioso e grandioso ha inizio la nostra vita, in un tempo che ci affanniamo a rincorrere una volta alzato il sipario. Tempo che non ci basta mai. Per far cosa? Il pensiero della morte disturba i nostri impegni, distrugge i nostri piani, lo rimuoviamo, lo allontaniamo, evitiamo di meditarlo … Al contrario, la morte era per JPV una speranza. La speranza di una riconciliazione con sé stessi, dove le sofferenze tacciono per sempre e l’inutile peso del corpo t’abbandona definitivamente. Per assurdo e giocando al gioco vellyniano del rovescio, dove ad esempio una bellissima e ammaliatrice Rosa al Sole si specchia in un cumulo di rottami – due facce di un’unica medaglia – mi viene da dire che JPV fosse conscio del segreto della vita: non temere la morte.


Pierre Higonnet e l’incontro magico con JPV


Scovato il sito dedicato a JPV e leggendo dell’Associazione degli Amici a lui dedicata, fondata da Pierre e Julie Higonnet scrissi una mail, breve, poche righe per dire che ci sarebbe piaciuto organizzare per il Panorama Museum una mostra dedicata all’artista.


Nel giro di poche ore fui inondata da un mare di domande e osservazioni. L’irruenza bonaria di Higonnet ci catapultò immediatamente nel cuore pulsante dell’opera di JPV, dell’artista e dell’organizzazione della mostra che ne sarebbe seguita. Capelli arruffati, completamente bianchi, sguardo sornione, viso paffuto e quel suo accento buffo lasciavano solo intravedere la profondità di animo del personaggio. Aveva conosciuto JPV solo due settimane prima della sua morte in un’età giovane, quando si è ancora inesperti della vita e di quello che essa riserva, eppure – così scrive nel suo sito – fu un’esperienza indelebile che lo ha profondamente segnato. Il suo racconto è affascinante, grazie ad un incontro fortuito, quasi di passaggio, la sua vita sterza dirompente verso l’incontro e l’amore per le opere di JPV.


Da due mie domande scaturisce il fiume in piena delle sue risposte. Pierre Higonnet:   “L’incisione è da sempre stata una delle mie più grandi passioni. La famiglia di mia madre era composta da antiquari, più legata all’arte della stampa quella di mio padre; pertanto l’incisione mi è sembrata da subito il punto di incontro naturale tra queste due culture. Da bambino, tutti i mercoledì di ogni settimana, andavo con mia madre a visitare il Louvre e ricordo che facevo molta fatica a percepire l’arte contemporanea. Questa mi pareva brutta e di poco interesse. Facevo fatica ad intuire perché il XX Secolo avesse prodotto così poca arte valida, finché non capii che le proposte fatte dalle gallerie erano legate più ad esigenze di mercato che votate alla bellezza”.


Dopo gli studi fatti all’Università mi interessai di fotografia e lavorai per cinque anni nel campo della pubblicità, un settore che tuttavia ho sempre considerato di basso profilo. Eppure avevo avuto anche dei riscontri positivi in questo campo, però non mi interessava molto e sentivo di voler lasciare Parigi. Mi ero innamorato dell’Italia e in particolar modo di Venezia. Fu lì che mi trasferii nel luglio del 1989. Una delle prime persone che conobbi fu Edo Janich, incisore e scultore, con lo studio d’artista proprio accanto alla mia abitazione. A Parigi avevo fatto un po’ di incisione da dilettante, più per conoscere la tecnica che per creare arte e quando incontrai Janich iniziai a collaborare con lui nello studio. I primi giorni di maggio del 1990 si svolgeva alla Galleria Don Chisciotte di Roma una sua personale e volli andare con lui al vernissage. Fu quella sera che conobbi JPV, di cui avevo solo sentito parlare da Janich che lo frequentava da circa vent’anni e aveva rispetto ed ammirazione per la sua opera. Arrivati alla Don Chisciotte Giuliano de Marsanich me lo presentò. All’epoca dell’incontro con JPV coltivavo una vaga idea di aprire una galleria d’arte, per fare delle proposte diverse dalle altre. Ma avevo 23 anni, la medesima età di Velly quando venne in Italia, niente mezzi, né nome, né un fondo, né tanto meno artisti, mi fidavo solo del mio giudizio e del mio istinto. Così iniziai a girare per le gallerie alla ricerca non di ciò che meglio si vendeva, ma semplicemente di quello che a me piaceva. Saputolo, de Marsanich mi diede dei cataloghi, tra i quali ricordo benissimo il Bestiaire perdu.


Dopo andammo a cena presso un ristorante vicino alla Don Chisciotte. Quella sera fu speciale. Ero seduto proprio accanto a JPV e con lui parlai tutta la sera, anche perché ancora non avevo molta dimestichezza con l’italiano. JPV era minuto, magro, aveva dei capelli folti e ricci piuttosto impressionanti. Parlava poco, però emanava un’energia così forte, quasi fosse un’aurea, una forza difficile da descrivere. È un’esperienza rara nella vita incontrare una persona che, anche se non dice molto, non parla, o esprime poco a parole, evidenzia nel suo intimo una fonte così ricca e  profonda, talvolta molto triste, melanconica, che produce una fortissima impressione nell’interlocutore. Chiacchierammo per tutta la serata, ma in realtà non avevo idea di chi fosse, ero unicamente consapevole di aver dinanzi una persona speciale. Tornato a Venezia, qualche settimana dopo venni a sapere da un artista di origine svizzera con il quale avevo legato, Serge d’Urach, che JPV era annegato tragicamente nel lago di Bracciano. La notizia mi provocò un effetto profondo. Poi d’Urach, parlando di JPV, che aveva conosciuto molto bene intorno agli anni ‘80, mi disse una frase che per parecchio tempo mi è riecheggiata in testa: “Caro Pierre, JPV era la Rolls-Royce dell’incisione!” Queste parole mi hanno segnato enormemente. Successivamente aprii una galleria sull’isola della Giudecca a Venezia, la Galleria del Leone, dedicata in generale alle opere su carta, all’incisione, ma anche al disegno e all’acquerello. Avevo diversi artisti, ma quelle parole non mi avevano mai abbandonato. Tra il 1993–94 mi volli avvicinare al mondo di Velly, approfittando di una fiera d’arte contemporanea che si svolgeva proprio a Venezia, nel Convento delle Zitelle, intitolata Du Fantastique au Visionnaire di cui uno dei curatori era Michel Random, grande amico di JPV. Ricordo che Random insistette particolarmente per avere una presenza di JPV alla fiera e così proposi di occuparmene. Presi contatto con la moglie Rosa Estadella a Formello e l’invitai a presentare sia i suoi lavori che una serie di incisioni di JPV.


Lei mi portò un nucleo di 40 incisioni del marito che decisi di esporre separatamente creando una sorta di mini-personale dell’artista. In quella fiera ebbi modo di approfondire la conoscenza con Michel Random, caloroso ammiratore di JPV. Tuttavia alla fine della fiera non avevo venduto nemmeno un’incisione. Ero così pronto a restituirle tutte. Rosa invece insistette affinché tenessi io quel nucleo di incisioni e mi propose di acquistarle un po’ per volta. Nell’arco di cinque o sei anni arrivai a comprarle tutte. Ne presentai alcune alla fiera di Bologna, ma (per fortuna) non riuscii a vendere nemmeno un pezzo. Verso la fine degli anni ‘90 avevo capito che il momento di JPV non era ancora arrivato, almeno per me. Decisi quindi di ritirare tutte le opere dalla Galleria e le misi a casa mia. Avevo la casa interamente tappezzata da quelle incisioni, affascinanti, estremamente misteriose, opere che in un certo senso non avevo ancora compreso del tutto. Le ammiravo, ogni tanto mi soffermavo a ripercorrerle con lo sguardo. Come erano difficili!


Passarono gli anni, finché un giorno – e siamo nel 2002 – Gianni Scatafassi, mio vicino di casa alla Giudecca e fervido ammiratore delle opere di JPV mi informò di una sua grande mostra a Formello. Ci andai per vedere l’antologica e lì potei ammirare molte incisioni che io non possedevo. A dire il vero gli affari in galleria in quel periodo andavano tutt’altro che a gonfie vele, ma avevo un po’ di soldi da parte, perché non ho mai voluto arricchirmi con le opere d’arte e ho sempre cercato di investire i guadagni acquistando altri pezzi. Proprio alla mostra di Formello curata da Giuseppe Appella decisi che mi sarebbe piaciuto acquistare le incisioni che mancavano alla mia collezione. All’epoca Rosa era scomparsa in seguito ad una lunga malattia. Così inviai un elenco a de Marsanich che mi mise da parte 17 incisioni. Le acquistai tutte di un colpo. Quel giorno avevo preso una stanza d’albergo nei pressi di Piazza Navona. Avevo comunque speso un piccolo patrimonio e all’interno di quella camera d’albergo mi dissi che era arrivato il momento di guardare quelle opere sul serio. Accesi la luce, aprii la cartella. Fu proprio lì che mi è accadde una cosa unica, meravigliosa, direi magica. Rimasi come pietrificato! Guardando quelle incisioni ebbi l’impressione che emanassero una luce così forte, più abbagliante di quella solare. Erano delle immagini magiche, impregnate di una sostanza di mistero. In quella piccola camera d’albergo trascorsi ore ed ore, osservando una ad una le mie incisioni e scoprendo una miriade di dettagli, oggetti, figure, visi nascosti. Non finivo mai di contarli e non riuscivo proprio a staccarmi dalla visione. Vicino all’estasi capii che avevo fra le mani un’opera unica al mondo. Nessuno mi aveva mai così affascinato, incuriosito, preso, colpito, per tecnica e genio, immaginazione e profondità del messaggio filosofico e metafisico. Fui travolto da un sentimento potentissimo.


Di ritorno a Venezia con le incisioni gelosamente strette sotto il braccio, cominciai a ripensare da capo la mia visione delle opere di JPV. Quel giorno presi un impegno con me stesso: non avrei avuto tregua, perché avevo capito che quell’opera era di una densità enorme e mi sarei dedicato a JPV per molti anni a venire, forse per tutta la vita. Anche grazie a dei soldi di famiglia, oltre quelli che avevo messo da parte, cominciai a rastrellare il mercato. Con degli elenchi messi insieme nel tempo, cominciai ad andare da Parigi a Quimper, da Ginevra a Milano, passando per Roma e Brescia e acquistai non solo altre incisioni, ma più copie della stessa incisione, nonché opere uniche.
Piano piano mi informavo, chiedevo alle persone che avevano conosciuto JPV, ai suoi amici, ai suoi familiari, ai suoi collezionisti, tutti contatti e nominativi fornitimi da de Marsanich, che considero come un padre professionale oppure da Michèle Broutta la gallerista di JPV in Francia, con cui ho un profondo legame. A loro chiesi di raccontarmi dell’artista, dell’uomo, del compagno, in testa avevo l’idea di scrivere un giorno la biografia completa e un catalogo ragionato delle opere uniche di JPV. Volevo mettere insieme tutti i piccoli pezzi di un puzzle molto complesso, ulteriormente frammentatosi dopo la scomparsa dell’artista.


Ogni volta tornavo a guardare le sue opere e succedeva qualcosa di magico, ciò accade solo per i grandi artisti e i grandi capolavori. Ogni volta che tornavo a guardare le incisioni scoprivo qualcosa di nuovo, talmente il microcosmo di quelle opere era ricco di simboli, di immagini nascoste, di piccole scritte. E tutt’oggi continuo a scoprire cose importanti, non solo qualche particolare in più, ma vere e proprie nuove chiavi di lettura.


Questa ricerca attorno all’opera di JPV ha completamente segnato la mia vita. All’inizio del 2003 fui interpellato dall’amico Slobo, artista di origine yugoslava che gestiva la triennale dell’incisione di piccolo formato a Chamalières e di cui ero consigliere già da anni. Slobo aveva conosciuto JPV e ne era stato molto colpito. Saputo che possedevo la sua opera incisoria completa ci permise di utilizzare la rotonda del museo d’Arte di Clermont-Ferrand per una mostra personale di JPV. Compito arduo!
Ovviamente le opere già le avevo, avevo iniziato le mie ricerche, ma non mi sentivo ancora pronto per fare un catalogo o scrivere. Avevo bisogno di un appoggio, di una persona che avesse lavorato nel sistema museale, sia per definire le tematiche sia per una presentazione decente per il catalogo. In quel momento pensai ad una giovane donna che avevo conosciuto a Parigi, Julie Grislain, presentatami tempo addietro da un amico.


Era una giovane storica dell’arte, molto simpatica, e durante uno dei miei soggiorni parigini decisi di incontrarla. Con mio grande stupore anche lei aveva deciso di lasciar tutto e andar a vivere in Italia dopo aver lavorato presso alla Reggia di Versailles e al Museo Cernuschi. E quindi decisi di coinvolgerla esclusivamente nella preparazione della mostra che sarebbe avvenuta alla fine 2003. Il primo maggio di quell’anno, Julie arrivò a Venezia e iniziò a lavorare al progetto. Era l’anno della Biennale, avevo molto lavoro da svolgere e con Julie lavorammo moltissimo, giorno e notte ininterrottamente, d’altronde il tempo stringeva. 


Al MARQ di Clermont-Ferrand allestimmo la mostra insieme e subito dopo l’inaugurazione ci dicemmo che avremmo dovuto portare il catalogo alla madre di JPV. Ci demmo dunque appuntamento in Bretagna. La signora Velly era molto malata e non potemmo incontrarla, ma lì scoprimmo il nostro amore reciproco. Da quel momento siamo stati sempre insieme.




Dal 2003 abbiamo fatto molti progressi e siamo riusciti ad individuare diverse opere di JPV. Sappiamo che ha realizzato circa 300 opere uniche, ha inciso 97 lastre di cui una quindicina purtroppo scomparse. Abbiamo girato circa 300 ore di video intervistando amici, parenti e collezionisti. Abbiamo raccolto un’ampia mole di materiale per il catalogo ragionato.


Mi piacerebbe far conoscere questo grande artista anche in altri paesi europei. Penso molto alla Francia, alla Germania, all’Austria, ma anche alla Svizzera e ovviamente all’America. L’opera di JPV lo meriterebbe perché a confronto di quella di molti altri artisti è completamente libera.
Lui non fu mai condizionato da nessuno. Mai fu un artista commerciale. Ha sempre fatto quello che voleva. Viceversa, spesso, gli artisti per motivi di carriera si lasciano andare. Per JPV l’arte era una sorta di religione, una fede, pertanto completamente libera da ogni condizionamento, autentica, vissuta, autobiografica. Eppure non strettamente personale. Non solo. Se lo fosse infatti non mostrerebbe altro che sé stesso. In verità, come nel bellissimo romanzo di Camus, descrivendosi, l’artista mostra l’umanità intera. È un messaggio di grande portata, non solo filosofica. Il suo lascito ci insegna che qualsiasi cosa, anche la più modesta, anche la più insignificante, è degna di attenzione. Un insetto, un filo d’erba, piuttosto che qualsiasi oggetto, si trasformano nel mondo. Osservandoli attentamente, con la necessaria dovizia, con meticolosa cautela, si comprende da dove provengono, la vita che conducono e quella che avranno. E infine quale sarà la loro morte. Racchiudono un inizio e una fine in continua evoluzione, un rinnovamento perenne. Questa eterna metamorfosi mi ha colpito nel mio intimo più profondo. Se guardo alla mia vita, c’è ne è una prima e un dopo JPV. La mia visione del mondo è stata radicalmente cambiata. Adesso sono continuamente affascinato dalla ricchezza straordinaria delle cose, delle persone, delle nuvole, dal paesaggio, dalla conchiglia di una lumaca. Tutto grazie a JPV è diventato una sorta di miracolo. Questa evoluzione biologica di cui siamo il frutto ci consente una contemplazione totale e magnifica del mondo che ci circonda. Viviamo questa esistenza piena di meraviglie e le meraviglie sono quotidianamente davanti ai nostri occhi. Ho acquistato la consapevolezza della ricchezza, della densità, della profondità e della bellezza di ogni momento che dobbiamo trascorre in vita su questo pianeta. Partecipando all’esistenza in un modo rispettoso della natura e delle persone. Con questo non pretendo di imporre ad altri alcuna visione, vorrei solo condividere, far partecipe il prossimo di questa visione globale.”



Quando mi avvicino alle opere di JPV mi viene sempre un po’ in mente l’opera scritta da Lewis Carroll Alice nel Paese delle Meraviglie. JPV è certamente piuttosto distante dallo scrittore inglese dell’ottocento, ma la sua è una visione con gli occhi curiosi e sinceri di un bambino. Piccole cose, oggetti, animaletti che improvvisamente si trasformano. Minuscoli fili d’erba che parlano, teneri fiori che nascondo un’anima, una vita propria.


Un’infinità di oggetti immaginari e reali al contempo che si affannano a rincorrersi. Un gioco di fantasia e di logica illogicità, di divertimento e poesia, dove ogni singolo oggetto rimanda all’altro per assonanza di nome, per ricordi, per similitudini, per passaggi mentali strani ed inconsueti. Moltitudini di microscopici oggetti, apparentemente lontani e distaccati l’uno dall’altro, si concatenano tra loro in una danza vorticosa ed inebriante fonte di originali visioni. Quei così tanti oggetti danno vita ad una forma che li racchiude e comprende tutti, qualcosa che tutto contiene e tutto rappresenta: Un point, c’est tout. Come nell’opera di Carroll così nell’opera vellyniana inoltre le stesse cose visibili e quotidiane ci trascinano in una dimensione diversa. Riferendosi a ciò che è noto e percepibile ammiccano a messaggi esoterici, comprensibili solo agli iniziati.


Minuscoli corpi erranti, completamente nudi, spogliati dei loro averi e vestiti così come si viene al mondo, stretti, ammucchiati, in fuga. In Massacre des Innocents, formano visti da lontano un paesaggio sublime. È come si fosse sulla cima di un monte ad ammirare le verdi colline dolcemente illuminate dal sole. In un cielo apocalittico. Nulla è come appare. La realtà si trasforma a seconda della posizione da dove si volge il guardo. Le certezze vacillano alla luce del sole per poi tornare forti nel tempo e nella profondità della notte. Il cielo e il mare capovolti sono l’uno lo specchio dell’altro. Si confondono, si alterano. Come lo yin e yang. Un metà incastrata nell’altra e solo insieme esse formano il cosmo. L’uomo diventa parte integrante del paesaggio. Polvere siamo e polvere ritorneremo, mentre nel frattempo si compie il grande miracolo della vita. C’è chi lo attende e mai arriva, per chi invece ha capito quel miracolo avviene ogni istante sotto gli occhi di ciascuno. La grande verità che immaginiamo essere altrove, è invece piccola, accessibile, vicina ai nostri occhi.


È un’esperienza bellissima poter organizzare una mostra di un artista che ti colpisce così nel profondo. Le ricerche, i lunghi elenchi di opere continuamente scarabocchiati, visti e rivisti, ti permettono di entrare in contatto con le opere stesse dell’artista. Scivolano nell’anima e entrano nel cervello, s’accasano nel cuore. Poi accadono cose strane e particolari. Parlare con i prestatori, che non sono solo proprietari di opere accumulate nel tempo e nello spazio, ma persone che avvertono, sentono, intuiscono la grandezza e la meraviglia del messaggio vellyniano permette di penetrare ancora di più nell’intimo dell’artista. Come ascoltare testimonianze commoventi, profonde e intense che si mescolano nella vita quotidiana tra faccende da sbrigare e problemi da risolvere. E la luce fioca di una piccola candela che si accende ogni volta. Così come capita di leggere lettere ricevute per caso, come è successo a me, solo pochi istanti prima di concludere il testo. Pensavo di chiudere in un altro modo, ma preferisco farlo così, lasciando ad una lettera improvvisa il compito di esser chiosa.


»Gentili amici di JPV,

sono un musicista e produttore che vive a due passi da Formello e che,

quando ero poco più che bambino, ho avuto il piacere di conoscere e frequentare JPV. Lui è stato un caro amico di famiglia.

Le mie memorie sono legate non tanto al personaggio pubblico, quanto all’uomo.

Se mi abbandono ai ricordi, l’immagine che riaffiora è di una figura carismatica con l’immancabile gitane accesa tra le dita,

immersa nei suoi lunghi silenzi eloquenti, avvolto da un aurea di mistero.

Tutto ciò agli occhi di un ragazzino faceva solo intravedere l’esistenza di una dimensione che all’epoca mi era totalmente sconosciuta:

la dimensione interiore dell’artista.


Ciò che è rimasto ›dentro casa‹ di JPV sono un catalogo, alcune incisioni, un grande affetto e l’apprezzamento per la sua persona e per le sue opere. Voglio credere che nella vita, le coincidenze siano una sorta di segnali luminosi che ci portano a riflettere su qualcosa che soggiorna silente sotto pelle, e che, per paura o poca attenzione, non vogliamo vedere. Senza allungarmi oltremodo, sono accaduti fatti che mi hanno portato a ripensare alla figura di JPV e a volerlo, in un certo modo, celebrare, omaggiare. È così che ho iniziato a liberare l’energia che mi aveva mosso, e ad esprimerla attraverso l’arte che più mi appartiene: la musica. Ho composto, e sto ancora componendo musiche ispirate a lui e alle sue opere. Le mie righe hanno il solo scopo di chiedervi la possibilità di incontrarvi, di scambiare impressioni su JPV, affinché io possa compiere il mio progetto di poter mescolare il battito della musica col flusso delle immagini e delle parole, le suggestioni delle menti con i sussulti del cuore.

Che altro dire? Sono certo che nessuno meglio di voi, possa capire ciò che mi muove e spero che possiate presto rispondere a questo mio invito, anche solo per il piacere di ricordare una persona che ci ha concesso di ›sentire‹ tramite la sua arte. Cordialmente

Alfonso Anagni.«


Solo i grandi artisti, magari poco capiti durante la loro vita terrena, continuano ad essere presenti, pulsanti e vivi anche quando questa si conclude...




 

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