L’Ombra e la Luce: introduzione alla mostra
Tiziana D’Acchille
Palazzo Poli, Istituto Centrale per la Grafica
in, «L’Erma» di Bretschneider, Roma, marzo 2016
Quando nell’estate del 2014 ho incontrato Maria Antonella Fusco per proporle una mostra antologica di Jean-Pierre Velly, ho appreso con piacere che un omaggio dedicato all’artista bretone era già nella lista dei desideri dell’Istituto Centrale per la Grafica. È nato così un sodalizio tra Istituzioni, e una collaborazione che non esiterei a definire virtuosa, che ha portato all’organizzazione della mostra “L’Ombra e la Luce”, nata da un’idea di Pier Luigi Berto e Pierre Higonnet e curata da Pier Luigi Berto e Marco Nocca per l’Accademia di Belle Arti e da Ginevra Mariani per l’Istituto Centrale per la Grafica. Si colloca nella logica di un ritrovato dialogo da parte dell’Accademia di Belle Arti di Roma con le istituzioni museali della Città. La funzione e il ruolo di uno dei luoghi di formazione artistica più antichi d’Europa, infatti, non può e non deve esaurirsi con la sola missione didattica ma, al contrario, è fondamentale che in questo momento storico si proponga come ente promotore di eventi culturali. Nel caso di questa mostra la funzione didattica si è legata indissolubilmente al progetto espositivo sin dal momento della sua ideazione. Pensata come vera e propria palestra per gli studenti che ne hanno seguito tutte le fasi preparatorie, la mostra di Jean-Pierre Velly può dirsi a pieno titolo una coproduzione tra due istituzioni romane, una formativa e l’altra museale, che hanno lavorato in assoluta sinergia, armonia e ottimizzazione delle risorse economiche e umane: dal restauro delle matrici di Velly, alla redazione delle schede didattiche, alla segreteria organizzativa, alla realizzazione di visite guidate per il pubblico e dei laboratori didattici specifici sulle tecniche incisorie.
Una selezione di alcuni dipinti, acquarelli e una parte significativa del corpus incisorio costituiscono il nucleo fondante di una mostra che dunque vuole rendere omaggio alla memoria dell’artista francese, ultimo Grand Prix de Rome dell’Accademia di Francia a Villa Medici del 1966, prematuramente scomparso all’età di 46 anni nel 1990.
Velly è stato un virtuoso e un testimone eccellente delle tecniche incisorie e delle tecniche grafiche in generale. È un artista che ha scelto Roma come sua patria adottiva, e che dopo il soggiorno a Villa Medici come artista in residenza non lascerà mai la Capitale, affascinato dall’immenso patrimonio e dall’enorme potenziale di ispirazione dato da questa città così misteriosa ma accogliente al tempo stesso. In questa mostra sono presenti alcuni dei suoi più raffinati disegni a punta d’argento, i bulini, le acqueforti, oltre che la produzione dei disegni a colori che rappresenta una stagione particolarmente fruttuosa e felice dell’artista bretone.
La sequenza dei lavori, disposti secondo una logica espositiva che a tratti ripercorre le fasi misteriose dell’opera alchemica, offre una panoramica di un artista colto e raffinato, sedotto dalla storia e dalla natura, portavoce delle istanze segrete degli oggetti e degli animali meno amati dall’uomo, celebrante di una liturgia pagana che esalta il mistero del ciclo della vita e della morte, riunendo e conferendo dignità a tutte le manifestazioni del creato.
Per Velly la poesia delle minime cose è essenziale e il suo segno forte, ma al contepo delicato e soprattutto aristocratico, ha restituito luce anche agli esseri più in ombra. In questo senso ciò che può apparire macabro a un primo sguardo, per Velly rappresenta un elemento degno di attenzione, se non addirittura più interessante di altri e ben più ‘alti’ modelli. Questa sua scelta verso soggetti difficili come un pipistrello morto, un topo, uno scarafaggio, lo colloca tra i precursori più illuminati di una stagione nelle arti visive, nella letteratura e nel cinema, che dai primi anni ottanta è andata proseguendo costantemente sino ad oggi, e che ha visto un avanzare costante delle poetiche del meraviglioso, percorrendo gli impervi sentieri dell’orrore, dalle manifestazioni del fantastico sino al ‘gore’ più esplicito.
Già le prime incisioni, debitamente documentate in mostra, lasciano infatti emergere una memoria di illustri predecessori visionari come Bosch, Dürer e Hans Baldung Grien. Un particolare interesse verso figure teriomorfe, unito a una sorta di horror vacui, caratterizza i primi anni, precedenti al soggiorno romano. Con la Clef des Songes, lastra che gli vale il Premier Grand Prix de Rome, l’opera di Velly tocca livelli di maturità e compiutezza che lo porteranno a divenire, nel giro di pochi anni, un punto di riferimento per molti artisti italiani ed europei della stagione dei tardi anni settanta e ottanta: dalle numerose testimonianze raccolte dai curatori di questa mostra e dagli amici artisti emerge una figura di rara sicurezza di sé e delle proprie capacità. In un momento storico, quello della fine degli anni settanta, in cui le sperimentazioni sui diversi linguaggi incontravano le prime criticità e si andavano profilando teorie dell’arte che mettevano in discussione il concetto stesso di innovazione e avanguardia, un artista come Velly elegge la campagna romana come propria dimora, fisica e metaforica. Come si è detto, fa della natura il suo unico elemento di ispirazione, si nutre della poesia delle piccole cose, nobilita anche gli esseri più reietti con il segno aristocratico del bulino, tecnica in cui eccelle sopra ogni altro artista contemporaneo. Il suo lavoro solitario, il suo spirito comunque analitico e tassonomico lo portano rapidamente a elaborare uno stile assolutamente visionario, in cui l’osservazione delle minuzie del regno vegetale e animale concorrono a formare un repertorio iconografico formale cui attingere per la creazione di scenari onirici e fantastici, apocalittici e visionari, in una sorta di nuova cosmologia che molti altri e più celebri artisti esploreranno nel corso del ventennio novanta-duemila. “A lungo mi sono costretto a questa ascèsi, rifiutando ogni artificio”, scrive Jean-Pierre.
La sua non è una presa di posizione polemica, è semplice e sola autenticità di vedute e poetica come è raro trovarne. Per lui la lastra di rame è metodo e destino: soltanto nei neri profondi, assoluti dell’incisione riesce a ritrovare la notte eterna dell’universo, rintracciandovi il bianco e la luce con stupore, come “sottratti” al buio: “La luce che odi ti viene dal nero che ti manca” (Bestiaire perdu, 1980). L’incisione è il più “povero” dei linguaggi, ottenuto da un sacrificio: quello di votarsi alla dinamica estetica assoluta del Bianco e del Nero, accettando come un cavaliere antico di poter lottare soltanto con un’arma, una punta (il bulino) che scivola sulla superficie di una lastra e, come per magia, dà luogo ad una linea (curva, spezzata, discontinua, continua). Risultato alchemico di un progetto dell’artista che include variabili non tutte controllabili: il processo chimico dell’acido che morde la lastra approfondendo i solchi, la quantità d’inchiostro inglobata, la pressione del torchio con cui la lastra è impressa sul foglio. Un’opera realizzata con la tecnica della stampa calcografica si pone a chi la guarda con un tempo “altro”, rispetto alle modalità prevalenti di alcuni linguaggi del contemporaneo, più improntati al fugace consumo dell’immagine mediatica. Velly accetta la sfida, e le sue prime prove a bulino in mostra portano i segni della grande tradizione degli incisori nordici (Dürer, naturalmente, e poi Schongauer, Rembrandt, Seghers e Bresdin).
La Clef des Songes (Grand Prix de Rome 1966), tavola realizzata da Velly come recluso per più mesi, splendido lavoro a bulino esposto, è la prima consacrazione di questo suo talento, rivelando cosa l’artista intenda per ascèsi nel suo lavoro: un esercizio dello spirito teso alla perfezione interiore. Anche il riferimento stilistico richiama la grande tradizione italiana del Rinascimento, con la figura di donna allungata, che guarda a Parmigianino, a Pontormo, a Rosso Fiorentino. A Formello, l’artista scopre la tecnica della punta d’argento, suo omaggio ai maestri del Rinascimento, eseguendo ritratti di sua moglie Rosa, del figlio Arthur, delle persone del borgo (qui esposti). A Roma nel frattempo Velly trova l’amicizia e la stima di Giuliano de Marsanich, un gallerista-umanista che lo protegge, e gli permette di lavorare secondo i suoi ritmi. Nella galleria Don Chisciotte, proprietà dello stesso de Marsanich, che è presente in catalogo con un’intervista di Ginevra Mariani, espone a partire dal 1978 acquerelli e disegni, di cui un’ampia selezione è presente in mostra: Velly pour Corbière, mostra-omaggio al poeta maledetto bretone Tristan Corbière (1845-1875) sul tema della morte vista come cambiamento di stato, cui fa seguito nel 1980 Bestiaire perdu, presentato da Moravia e Leymarie: splendida serie di “ritratti” su carta di animali odiati dall’uomo (topi, insetti, civette, rane), pure ampiamente documentata. Nel 1980 Mario Praz introduce il catalogo ragionato delle incisioni di Velly, compilato da Didier Bodart e pubblicato da Scheiwiller: in quest’ultimo decennio della sua vita Velly si dedica maggiormente al disegno, all’acquerello e offre le sue magistrali prove nella pittura ad olio (con soggetti floreali, alberi, paesaggi, ritratti e nudi), di cui moltissime in mostra. La sua opera guadagna l’appezzamento della critica più qualificata (Moravia, Leymarie, Soavi, Tassi, Sgarbi) entrando in collezioni prestigiose.
Nel 1993, tre anni dopo la sua morte improvvisa, Jean-Marie Drot cura a Villa Medici per l’Accademia di Francia la prima grande antologica dell’artista (catalogo Fratelli Palombi), seguita nel decennio da mostre a Roma (Galleria Don Chisciotte), Brescia (Galleria dell’Incisione), Firenze (Fondazione Il Bisonte), Parigi (Michèle Broutta). L’opera incisoria al completo di Jean-Pierre Velly viene esposta per la prima volta al Museo MARQ di Clermont-Ferrand (2003). È del 2009 l’ultima ampia antologica dell’artista bretone, ricca di 160 opere, svoltasi presso il Museo Panorama di Bad Frankenhausen, con corposo catalogo.
L’Ombra e la Luce, titolo della mostra, è metafora del passaggio dalla condizione di oscurità, la fase alchemica della Nigredo, a quello dell’illuminazione nei diversi stadi in cui è ordinato il nucleo espositivo della mostra. In alchimia, nel primo stadio della trasformazione della materia quest’ultima si dissolve, putrefacendosi. Per Jean-Pierre Velly questo del dissolvimento (“la vita è una storia meravigliosa, che finisce terribilmente male”) è un tema presente sin dai primordi del suo percorso: nel nero dell’incisione spera di scoprire la sostanza del buio universale, e si stupisce di ritrovare nel segno quelle stesse forze occulte della Natura, che possono essere sottomesse attraverso la creazione artistica, approdando in lui all’incanto della poesia. In questa prima sezione sono esposti i fogli con le magnifiche visioni rimandate dall’opera incisoria.
Nell’Albedo, la fase alchemica successiva, la sostanza si purifica, sublimandosi. Il disegno riveste per Velly la medesima funzione, si rivolge all’universo mondo senza gerarchie, purifica nella forma un volto di donna o un insetto con la stessa inesauribile passione: “Quando ho una matita in mano voglio disegnare, riprendere la cosa più anonima che ci sia”. L’omonima sezione ospita, tra le opere selezionate, le sue prove più alte, le splendide punte d’argento, i bellissimi Autoritratti a matita, in cui il volto di Velly, scavato e tormentato, è l’immagine di un profeta, o di un poeta maledetto dell’800.
Rubedo o opera al rosso, in alchimia rappresenta lo stadio in cui la materia si ricompone, fissandosi. Allo stesso modo la pittura per Jean-Pierre rappresenta un approdo della sua opera incisoria e disegnativa, ricompone la maniera fine, da orafo, con cui impreziosiva le prove grafiche nella maniera larga del pittore. Anche le sue visioni si rasserenano, e nell’opera fa il suo ingresso il colore: “Con i colori mi piace poter raccontare che nulla è grave, che un giorno morirò ma l’umanità continuerà”. Nell’ultima sezione, dedicata alle splendide prove pittoriche (di sicuro impatto per il pubblico i bellissimi acquerelli che traggono spunto da soggetti floreali) si stempera visivamente l’affascinante mistero nero di Velly, e si “schiarisce” meglio anche il suo percorso.
Mi piace concludere questo breve percorso introduttivo ricordando quanto Vittorio Sgarbi, che ringrazio ancora per la sua sentita testimonianza in catalogo, scriveva di Velly nel 1988: “la vera bellezza è soltanto questa: non il nulla, ma proprio ciò che è sul punto di finire. In quel punto si concentra tutta la forza della vita e si raccolgono le energie estreme; perché l’arte, sfidando il tempo è l’ultimo grido della vita”.
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